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Il Volto Santo e l'Ordine del Tempio II parte (di P. Galiano)

PARTE SECONDA

 

I Templari: Sindone o mandylion?

Come al solito, i Templari non potevano non essere messi in mezzo nella storia della Sindone/mandylion (non per nulla spesso li ho definiti “il prezzemolo della storia”). Prima di trattare questo argomento ritengo però necessarie alcune precisazioni.

L’Ordine del Tempio dal tempo della sua fondazione è stato sempre al centro di discussioni e controversie, che si sono andate accrescendo nei secoli successivi alla sua distruzione[1], quando i Templari furono “riesumati” bene che vada per scopi religiosi o di beneficenza per giungere a forme di truffa vere e proprie (ho personalmente sentito chiedere 5.000 € per ricevere un titolo di “Commendatore templare”!), passando per numerose varianti intermedie più o meno mistiche, esoteriche e iniziatiche.

La vantata prosecuzione nei secoli dell’Ordine (o meglio la sua pseudo-rinascita) risalirebbe al gesuita padre Filippo Bonanni o Buonanni[2] FIG. 7, il quale, precedendo di mezzo secolo la nascita della Stretta Osservanza Templare del barone Karl von Hund (da cui sono derivati in un modo o nell’altro tutti gli ordini templari della Massoneria), sarebbe l’autore della c. d. “carta di Larménius[3]. Scriveva il Clavel che nel 1705, dietro incarico di Filippo di Orléans (non a caso citato nel testo come 41° Gran Maestro del Tempio),

1394 7 Templare Bonanni

Fig. 7: Il vestito dei Cavalieri Templari secondo Bonanni (p. Filippo Bonanni, Catalogo degli Ordini equestri e militari, Stamperia di Giorgio Placho a San Marco, Roma 1724, tav. CXV).

un gesuita, italiano, padre Bonanni, grande antiquario e valente disegnatorefabbricò la carta detta di Larménius, e vi aggiunse la firma di numerosi personaggi delle epoche successive che riteneva fossero stati i Gran Maestri succeduti a codesto Larménius, e ricollegò questa società [fondata in realtà da Filippo d’Orléans] all’antico Ordine del Tempio[4].

Sarebbe quindi da attribuirsi al padre Bonanni una parte importante nella nascita del neo-templarismo: su questa “carta di Larménius” si appoggiano quegli Ordini neo-templari a tutt’oggi esistenti i, quali dichiarano di essere diretti discendenti dell’Ordine del Tempio.

Ma l’Ordine non può in alcun modo essere ricostituito né può esistere una sua prosecuzione nel tempo (caso mai solo ideale), in quanto venne sospeso dal papa Clemente V con la bolla Vox in excelso del 22 Marzo 1312:

Con dolore decretiamo che non con sentenza definitiva ma con provvedimento apostolico noi, con l’approvazione del Santo Concilio [tenutosi a Vienne], sospendiamo l’Ordine dei Templari da ogni funzione, la sua Regola, il suo abito e il suo nome, con decreto assoluto e perenne, proibendolo per sempre e vietando severamente che qualcuno, in seguito, entri in esso, ne assuma l’abito, lo porti e intenda comportarsi da Templare.[5]

Come afferma la Frale, “il pontefice astenendosi dall’emettere una sentenza definitiva, però proibiva di continuare ad usare il nome, l’abito e i segni distintivi del Tempio pena la scomunica automatica per chi avesse osato in futuro proclamarsi templare[6].

Tutta la congerie di pseudo templarismi è all’origine di storie più o meno inverosimili sull’Ordine e su di una sua “esoterismo”, del quale in verità ben poche tracce rimangono. Le uniche che si possano riferire ad un pensiero non strettamente cattolico sono rappresentate dalle cosiddette “cordicelle” che i Templari dovevano portare alla vita giorno e notte, di cui si parla nei Retraits o Statuti[7], o l’insolita cerimonia del vino consacrato la notte del Giovedì Santo[8].

Quanto poi concerne il loro ipotetico rapporto con immagini del Cristo è argomento ulteriormente complicato da un fatto: le immagini del Cristo sono di due diverse forme ben distinte, il “sudario”, un telo grande tanto da poter essere mostrato verticalmente per far vedere il corpo nella sua interezza come afferma lo Charni, e il “telo”, in forma di panno e in alcuni casi riportato su di un supporto solido. Ma quale di esse, dopo il 1204, sarebbe entrata in possesso dell’Ordine del Tempio, sempre che ciò sia veramente accaduto?

Il supposto “idolo” dei Templari

Le confessioni rilasciate dai Templari agli inquisitori del re di Francia (sotto tortura) e poi ai Vescovi delle rispettive diocesi, ai quali venne demandata l’inchiesta per volontà del papa Gregorio VII, sono oggetto di un gran numero di ricerche e di studi[9]. Per quanto qui ci riguarda circa una possibile relazione tra i Templari e il Volto Santo negli atti processuali sono descritti due differenti oggetti: un busto raffigurante un uomo barbuto (probabilmente un reliquiario, come quello di donna, forse una delle Undicimila Vergini, ritrovato dagli inquisitori nel tesoro del Tempio di Parigi[10]) e un’immagine di sesso maschile, la quale viene descritta a volte dipinta su di un panno, a volte su di una tavola[11].

Una copia di quest’ultima da alcuni viene vista nella tavola proveniente da Templecombe (Inghilterra) FIG. 8, conservatasi grazie al fatto di essere stata ricoperta di stucco, probabilmente per nasconderla, in effetti molto somigliante alle icone del mandylion e alle miniature dei codici che ne parlano, nelle quali è raffigurato il volto di un uomo con la barba e senza l’aureola.

1394 8 Volto Santo Templecombe

Fig. 8: Il Volto Santo di Templecombe (Inghilterra): l’immagine è chiaramente una copia, che per altro riporta i caratteri dell’icona originaria, dipinta su di un insieme di assi di legno per formare una tavola. Il Volto, con gli occhi aperti come in tutte le raffigurazioni del “velo della Veronica”, è inserito all’interno di una rosa gotica formata da quattro triangoli e quattro semicirconferenze alternate (dal sito dell’Abbazia di Templecombe https://abbasandtemplecombe-pc.gov.uk/the-parish/the-churches/, consultato 26/10/2025).

Gli oppositori dell’ipotesi di una Sindone/mandylion appartenente ai Templari ritengono che quest0 “fantomatico legno sindonico ritrovato in una rimessa del villaggio di Templecombe” risalga “in realtà ad epoche successive a quella della presenza templare in Inghilterra e forse raffigurante san Giovanni Battista[12]. Si obietta infatti che la datazione al C14 dell’Università di Oxford ha dato come risultato un periodo che va dal 1280 al 1440, e la Precettoria templare di Templecombe, che si trovava a circa 300 mt dal luogo di ritrovamento della tavola, fu fondata nel 1185 e passò agli Ospitalieri nel 1332[13], ma la datazione non può essere considerata risolutiva in quanto negli estremi di essa è compreso il periodo in cui, prima dell’inizio del processo nel 1307, la Precettoria era ancora proprietà dei Templari, i quali potrebbero aver trasferito la tavola in altro luogo, al di fuori dei loro possedimenti, per prevenirne la distruzione. Che per altro si tratti di una copia risulta evidente dal materiale su cui l’immagine è dipinta, delle semplici assi di legno unite insieme per costituire un piano unico.

Ritornando all’argomento, dobbiamo rilevare come le confessioni dei Templari sul cosiddetto “idolo” che avrebbero adorato siano contrastanti: esso viene indicato solo da pochi individui, per la precisione 17 su 296[14], i quali lo descrivono sia o come un busto, una piccola statua (in alcuni casi, ipotizza la Frale[15], lo identificano addirittura con il cranio di Hugues de Payns, fondatore dell’Ordine) o un’immagine su stoffa o su legno. Questi oggetti erano altresì molteplici, visto che ogni Precettoria sembra ne avesse uno: “Frate Gualtiero riferì agli inquisitori [pontifici] … che i Precettori delle singole province avevano un’immagine del gran dio dei Saraceni che veniva mostrata in occasione dei Capitoli e delle più importanti riunioni[16]; un cavaliere dichiarò che lo aveva visto sia nella domus di Roma che in quella di Piacenza[17], altri dissero che era stato adorato in un Capitolo provinciale tenutosi a Bologna[18]. Maggiori particolari si hanno nella deposizione di frate Gerardo da Piacenza, il quale affermò che a Piacenza gli era stato mostrato un idolo alto un cubito, fatto di legno e con una faccia sola (altri templari avevano parlato di due e anche di quattro facce), ma sapeva che altri idoli si trovavano a S. Maria in Aventino a Roma, a S. Maria in capita sulla via Cassia, mentre un terzo si trovava nella chiesa di S. Maria delle Grazie a Castel Araldo a Marta sul lago di Bolsena[19].

Infine un cavaliere, il quale era stato accolto nell’Ordine a Roma nel Palazzo del Laterano, testimoniò che, in quanto non era al momento possibile completare il rito, venne inviato a Torremaggiore, presso San Severo in provincia di Foggia: nella Precettoria, dopo che il rito fu portato a termine, il Precettore lo condusse “in un luogo ben protetto e segreto” dove gli mostrò “un idolo di metallo della forma di un bambino in posizione eretta e alto un cubito” e gli ordinò di adorarlo[20].

A quanto pare le immagini tridimensionali erano molteplici non solo come forma (busto o statua) ma anche come numero. Invece le immagini su tela o su tavola di legno sono meno citate (salvo che negli interrogatori di Carcassonne di cui dirò più avanti), e anche in questo caso le versioni sono almeno due: o si tratta della raffigurazione di un corpo intero su di un telo molto grande o del solo volto su di un panno di piccole dimensioni[21].

La testimonianza che qui interessa è quella di Arnaut Sabatier, il quale nel corso degli interrogatori degli inquisitori francesi a Carcassonne descrisse un telo sul quale si vedeva l’immagine del corpo di un uomo che gli fu mostrata durante la cerimonia di ricevimento nell’Ordine, della quale ordinarono di baciare tre volte i piedi, per poi sputare su di un crocefisso[22].

Il Nicolotti ritiene che questa deposizione sia stata ottenuta con la tortura, vista l’impossibilità che nella stessa cerimonia il Sabatier dovesse sputare sul crocefisso e baciare i piedi della supposta immagine del Cristo[23]. A parte il fatto che arbitrariamente il Nicolotti interpreta lineum come lignum, ritenendolo errore del notaio che ha fatto la trascrizione “per una semplice assonanza delle due parole[24] (notaio ignorante!), l’apparente opposizione dei due fatti potrebbe rientrare in quella “preparazione” del neo-templare alla possibile cattura da parte dei guerrieri musulmani, sostenuta da molti autori, interpretata come venerazione del Cristo in quanto cristiani e capacità di rinnegarlo se prigionieri; su questo tornerò alla fine del lavoro.

Una nota curiosa: in una deposizione dell’inquisizione dei Templari a Carcassonne nel 1307, Guillaume de Bos nel parlare del fantomatico “idolo” che gli era stato mostrato riferì che “non era riuscito a distinguere chi era la persona raffigurata in quel disegno, gli sembra però che fosse fatto di bianco e di nero[25], i colori del Beauceant, lo stendardo di battaglia dell’Ordine…

Per concludere, che i Templari avessero una venerazione particolare per un’immagine è certo, visto il numero di confessioni in cui se ne parla, sia pure sotto forme materialmente differenti, e sicuramente si trattava di copie di un originale, perché sappiamo che molte erano le Precettorie in possesso di esse.

 Ma se davvero all’origine di queste immagini vi erano la Sindone e/o il mandylion, come ne era entrato in possesso l’Ordine?

Che i templari ne fossero entrati in possesso durante il sacco di Costantinopoli non sembra possibile, in quanto l’Ordine non partecipò alla IV Crociata e quindi alla spartizione del bottino. Alcune reliquie furono “acquistate” da Luigi IX per la Sainte Chapelle di Parigi[26] tra il 1239 e il 1241, però se tra di esse ve ne fosse stata una di tale importanza quale la Sindone e/o il mandylion è possibile che nessuno storico del tempo ne abbia scritto una sola parola?

Per coprire il periodo che va tra il sacco di Costantinopoli e la scomparsa delle due immagini nel 1204 e la successiva ricomparsa della Sindone nel 1353 la Frale avanza una serie di ipotesi che, se pur non suffragate da prove certe, andrebbero essere prese in considerazione con le dovute cautele.

Due personaggi dell’Ordine ebbero un particolare rilievo in due momenti cruciali di questa storia: Amaury de la Roche[27] e Geoffroy de Charny[28].

Alla nobile e potente famiglia dei de la Roche appartenevano sia Amaury, intimo del re Luigi IX e Precettore di Francia dal 1265 al 1271, sia Othon, divenuto Duca di Atene alla fine della IV Crociata, e, anche se non è noto un legame diretto tra Amaury e Othon, ambedue appartenevano a una delle casate più illustri del tempo. Quando i Duchi di Atene si trovarono in gravi difficoltà economiche nella fase del riassorbimento dell’Impero latino d’Oriente da parte del risorto Impero bizantino, “non sarebbe affatto strano se l’Ordine del Tempio, avido di reliquie di Cristo quant’altri mai, si fosse fatto avanti con il lignaggio dei de la Roche per mezzo di un loro parente [Amaury?] e avesse offerto di dare in pegno quell’oggetto [= la Sacra Sindone] per una cifra faraonica”.

Se questa è l’ipotetica via attraverso cui l’Ordine entrò in possesso della Sacra Sindone, il successivo passaggio a Geoffroy de Charny che la donò alla chiesa di Lirey potrebbe trovarsi, sempre secondo la Frale, nell’omonimo cavaliere templare Precettore di Normandia, accolto nell’Ordine proprio da Amaury de la Roche, il quale fu messo al rogo insieme al Gran Maestro Jacques de Molay: ambedue “appartenevano con probabilità alla stessa famiglia, anche se le fonti non ci permettono di vedere in dettaglio quale fosse l’esatto legame”, ed essendo questi persona molto legata a Jacques de Molay potrebbe essere stato a conoscenza del luogo in cui era conservata l’originale Sacra Sindone e, prima che si scatenasse l’ondata di arresti nel 1307, averla nascosta informandone un suo discendente, in modo che circa trentacinque anni la Sindone sarebbe ricomparsa a Lirey ad opera di un omonimo.

Se la prima ipotesi ha una sua possibile validità, la seconda mi lascia piuttosto perplesso, perché lo Charny avrebbe dovuto prevedere il prossimo arresto dei Templari francesi e, invece di fuggire all’etero, realizzare il suo progetto nel giro di pochi giorni, considerato che rimase in prigione fino alla morte sul rogo, anche se assolto dalla commissione pontificia come risulta nella “pergamena di Chinon” dell’Agosto 1308. Ritengo quindi che le vie di trasmissione della Sacra Sindone da un luogo ignoto a Torino, sempre che quella di Torino sia da identificare con il telo ipoteticamente in possesso dei Templari, siano ancora da chiarire, ma in mancanza di ulteriore documentazione le ipotesi della Frale andrebbero approfondite più che scartate.

Ma per quale motivo l’Ordine avrebbe dovuto venerare l’immagine di un uomo nel segreto delle sue Precettorie? L’Ordine, è noto, aveva il suo punto di riferimento spirituale in Maria, a lei erano intitolate la gran parte delle chiese che i Templari avevano eretto o ricevuto in cura, a lei scrisse uno sconosciuto templare la sua preghiera mentre si trovava rinchiuso nelle prigioni francesi:

Santa Maria, madre di Dio … proteggi l'ordine religioso tuo, che fu fondato dal beato Bernardo tuo santo confessore … concedi la libertà per il nostro ordine … nonostante tutte le calunnie rovesciate su di noi dai bugiardi, come tu sai, … sicché noi possiamo serbare i nostri voti e i comandamenti del Signore nostro Gesù Cristo tuo figlio, che è difensore, creatore e redentore nostro”. [29]

 

In conclusione.

Che significato poteva avere per i Templari tenere nascosta e riservare a sé soli questa immagine, Sindone o mandylion che potesse essere, sempre che ne fossero in possesso?

Per poter cercare una risposta occorre ricordare che i Templari erano venuti dall’Occidente a proteggere Gerusalemme e i pellegrini che si recavano ai Luoghi Santi, ma fin dalla fondazione dell’Ordine vivevano in Oriente, un mondo ben diverso dall’Europa sotto tutti i punti di vista; essi obbedivano al Pontefice della Chiesa di Roma, indipendenti dal vescovo del luogo, ma le autorità a cui facevano riferimento erano il Patriarca di Gerusalemme e l’Imperatore d’Oriente. In definitiva il loro modo di pensare, anche se essi erano di nascita e di cultura occidentale, aveva radici nella cultura e nella religiosità orientale.

Alla luce di queste considerazioni, se il Volto Santo che essi possedevano era il mandylion o una sua copia non potevano ostenderlo pubblicamente perché sarebbe stato un delitto di lesa maestà, in quanto il mandylion era il vessillo personale dell’Imperatore: secondo una variante della storia del “velo della Veronica”, essa era emersa, a detta di autori del tempo[30], da una fonte a Kamuliana in Cappadocia, per cui le era stato dato il nome di Camulia[31]: l’immagine FIG. 9 e FIG. 10 a partire dall’Imperatore Giustino II (nato circa nel 520 e morto nel 578) divenne un simbolo personale del potere imperiale ed era portata in battaglia come sicuro pegno di vittoria, ma venne perduta, forse al principio dell’VIII secolo durante le lotte dell’iconoclastia. Se questo “velo” (o una sua copia) fosse entrato in possesso dei Templari, esso sarebbe stato una sorta di “palladio” che li avrebbe condotti alla vittoria sugli eserciti islamici, ma non avrebbero potuto mostrarlo in pubblico in quanto si trattava del simbolo appartenente esclusivamente all’Imperatore d’Oriente.

1394 9 Camulia

Fig. 9: La Camulia (vedi testo) era lo stendardo esclusivo dell’Imperatore di Costantinopoli. Questa è una possibile copia dell’originale andato perduto, per cui non si può dire con certezza quanto corrisponda all’autentico “velo” (dal sito www.johnsanidoupolos.com, : notare come in questa icona gli occhi del Cristo sono aperti e rivolti verso destra anziché, come nelle altre varianti, verso chi guarda (da www.johnsanidopoulos.com/2013/08/the-finding-of-acheiropoieton-icon-of.html#google_vignette, consultato 08/10/2025).

1394 10 SS Sergio e Bacco con Camulia

Fig. 10: Icona dei Santi Sergio e Bacco, ora al Museo Nazionale di Arte dell'Ucraina, Kiev: sopra il volto dei due santi si vede un'immagine del Cristo che il Lidov (Alexei Lidov, Il Dittico del Sinai e il Mandylion, in Anna Rosa Calderoni Masetti, Colette Dufour Bozzo, Gerhard Wolf, Intorno al Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Mediterraneo (secoli XI-XIV), Marsilio, Venezia 2007) ritiene possa essere l'unica raffigurazione della Camulia che ci sia pervenuta (Wikimedia Commons, pubblico dominio).

Se invece l’Ordine era in possesso della Sacra Sindone[32] (o di una sua copia), comprenderne il significato che poteva avere per i Templari è molto più complesso e parte da una considerazione preliminare: secondo quella che si potrebbe chiamare la “metafisica templare” a mio avviso la Resurrezione del Figlio di Dio fatto uomo rivestiva un significato più alto rispetto al momento della Passione, perché la Resurrezione rappresenta il compimento dell’effusione del sangue nella Passione: senza il sangue non è possibile realizzare l’ultimo atto che in sé comporta la salvezza dell’uomo e lo rende attuale mediante il sangue-vino bevuto nel rito della Comunione.

Il rituale riservato ai Cavalieri la notte del Giovedì Santo[33] dimostra l’importanza dell’equivalenza fra le due sostanze per i Templari in un periodo in cui il significato del vino nel rito della Consacrazione era oggetto di disputa[34], cioè se la Transustanziazione avvenisse nel momento della sola consacrazione del pane o dopo che anche il vino era stato consacrato. Per i Templari non vi era dubbio: il vino era il Sangue del Cristo e in esso risiedeva il compimento della Consacrazione.

Il rito del bere il liquido che ha lavato l’altare è un atto che non trova riscontro in altri Ordini, sia monastici che cavallereschi, una pratica “che non ha precedenti altrove, era ignota alla Chiesa latina, è specifica dei Templari, che sembrerebbero averla mutuata da antiche tradizioni religiose ... forse addirittura di età paleocristiana[35]. L’uso di lavare gli altari col vino il Giovedì Santo era ancora esistente a Cipro, isola che era stata una provincia templare dopo la perdita della Terra Santa, molti anni dopo la scomparsa dell’Ordine del Tempio, come testimoniano documenti scritti nel 1367[36].

Poiché l'altare è identificato dai liturgisti loro contemporanei con il sepolcro e con il Corpo del Cristo, e altare e calice (a sua volta identificato con il Calice dell’Ultima Cena) coincidono, si potrebbe interpretare questo uso rituale dei Templari nel Giovedì Santo in duplice modo: essi bevevano dal calice-altare il vino consacrato e al tempo stesso il Sangue sgorgato dalle ferite del Cristo.

Circa il significato del “sangue” dal punto di vista simbolico e metafisico sarà sufficiente ricordare come esso fosse considerato la sostanza nutritiva per eccellenza del corpo e dell’anima (presso i Pitagorici, scrive Diogene Laerzio, “l’anima si nutre del sangue[37]), in quanto il sangue riceve dai polmoni il potere sottile dello pneuma presente nell’aria, ed è allo stesso tempo l’offerta sacrificale più eccellente[38]

È possibile sulla base di quanto detto prendere in considerazione un’ipotesi (ipotesi, si badi bene): se esisteva una “metafisica templare”, che riuniva in sé allegoria, mistica ed esoterismo, si potrebbe raffigurarla come una medaglia, una delle cui facce è la devozione esteriore e pubblica alla Madre di Dio quale intermediaria fra i due mondi, e l’altra, non accessibile a tutti, il culto del Figlio di Dio fatto uomo come via alla Resurrezione, cioè al passaggio di piano tra il mondo umano e quello divino, identificazione dell’uomo con il Dio. Il senso della Resurrezione non poteva essere meglio rappresentata se non con l’immagine del Cristo che risorge dal suo sepolcro come primo dei Viventi FIG. 11.

1394 11 Piero della Francesca

Fig. 11: Piero della Francesca, La resurrezione, pittura murale eseguita tra il 1450 e il 1463, conservata nel Museo Civico di Sansepolcro (Wikimedia Commons, pubblico dominio).

Il possesso da parte dell’Ordine del Tempio del Volto Santo nella forma di Sindone e/o di mandylion non è suffragata da prove certe, ma si deve riconoscere che ciò sarebbe consono alla “metafisica templare” nella misura in cui è possibile ricostruire il modo di pensare e di sentire dei Cavalieri dell’Ordine, e sembrerebbe rientrare in quella parte meno conosciuta e più “interna” (escludendo le interpretazioni fantasiose, è ovvio) di un possibile esoterismo dell’Ordine.

 

[1] La storia dell’Ordine è ben conosciuta e quindi ritengo inutile farne accenno, rimandando alle opere di autori quali Barber, Demurger, Bordonove, Viti (sull’architettura templare), De Saint-Hilaire e Marillier (ambedue per i sigilli templari), Michelet, Bramato e di nuovo Barber, questi ultimi per gli atti processuali, atti la cui edizione definitiva e completa è stata pubblicata dalla Frale nella sua tesi di dottorato in Storia della società europea, presentata presso il Dipartimento studi storici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 1996-2000.

[2] Ricardo Garcia Villoslada, Storia del Collegio Romano, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1954, p. 187. Il Bonanni fu il primo precettore del principe Raimondo de Sangro durante il suo corso di studi presso il Collegio Romano (Paolo Galiano, Raimondo de Sangro e gli Arcana Arcanorum, Simmetria, Roma 20142, pp. 21-24). 

[3] La “carta di Larménius” è un documento con il quale Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro templare, prima di essere condannato al rogo da Filippo il Bello, avrebbe nominato un cavaliere di nome Jean-Marc Larménius o de l'Armenie suo successore; su questo documento vennero man mano aggiunti i nomi dei presunti Gran Maestri che sarebbero succeduti a Larménius giungendo fino al 1804 con Bernard Raymund Fabré-Palaprat, 47° successore. Il motivo che testimonia la falsità del documento consiste nel fatto che il Gran Maestro può essere nominato secondo gli Statuti solo dai cavalieri dell’Ordine e non da un altro Gran Maestro, come affermato nella “carta”.

[4] François-Timoléon Bègue-Clavel, Histoire pittoresque de la Franc-Maçonnerie, Pagnerre Editeur, Paris 18432 p. 216 (ristampa: Adamant Media Corporation, 2011). La notizia venne ripresa da Giovanni De Castro, Il Mondo secreto, ed. G. Daelli, Milano 1864 vol. VI p. 35 (l’argomento è rivisitato secondo l’impostazione anti-massonica di De Castro) e in seguito da Charles William Heckethorn, The Secret Societies, G. Redway publisher, London 1897, il quale aveva iniziato una traduzione in inglese del testo di De Castro ma successivamente ritenne meglio ampliarlo; la sezione di Heckethorn sui neo-Templari e su Bonanni è però la traduzione letterale del testo di De Castro.

[5] Cathopedia s. v. (https://it.cathopedia.org/wiki/Vox_in_excelso, consultato 26/05/2025).

[6] Barbara Frale, I Templari e la Sindone di Cristo, Il Mulino, Bologna 2009, p. 47.

[7] Questa “cordicella”, che compare tra le accuse di idolatria mosse ai Cavalieri nel corso del processo (si veda ad es. Malcom Barber, Processo ai Templari. Una questione politica, ECIG, Genova 1998, p. 311), era messa a contatto con il supposto idolo venerato dai Templari, busto-reliquiario o immagine di un volto, per una sorta di consacrazione (Frale, I Templari e la Sindone di Cristo, p. 79). Si tratta della “piccola cintura di cuoio da allacciare sopra la camicia” (Jose Vincenzo Molle, I Templari, la Regola e gli Statuti dell’Ordine, ECIG, Genova 1994, Statuti Cap. 138) che faceva parte dell’abbigliamento del Templare e che si doveva portare anche di notte durante il sonno (Id., Statuti Cap. 680). Il significato magico-religioso del “nodo” come protezione è noto (si pensi al “nodo di Ercole” che chiudeva la cintura delle sacerdotesse romane consacrate a Vesta, tutt’ora in uso presso gli alti gradi di alcuni riti massonici), e quindi ritengo inutile dilungarmi sull’argomento.

[8] Paolo Galiano, I Templari, la Coppa e l’Altare, pubblicato sul sito della Fondazione Lanzi, www.simmetriainstitute.com, nell’Aprile 2010.

[9] Tra le opere che trattano del processo ai Templari ho scelto di seguire quelle di Barber (Malcom Barber, Processo ai Templari. Una questione politica, ECIG, Genova 1998), di Bramato (Fulvio Bramato, Storia dell'ordine dei Templari in Italia, vol. II: Le inquisizioni. Le fonti, Atanòr, Roma 2016) e della Frale (Barbara Frale, I Templari e la Sindone di Cristo, Il Mulino, Bologna 2009, in particolare il Capitolo II, Ecce homo!. Id., L’ultima battaglia dei templari, Editrice Vella, Roma 2001).

[10] Frale, I Templari e la Sindone di Cristo p. 78.

[11] L’ipotesi dello Wilson, ripresa dalla Frale ed esposta in I Templari e la Sindone di Cristo, sulla supposta proprietà della Sindone da parte dell’Ordine ha suscitato una feroce controversia nell’ambiente medievalista italiano, per la quale rimando ai saggi del Nicolotti e del Canetti. Alcune delle obiezioni mi paiono però gratuite e mosse da spirito di contraddizione, come il mettere in dubbio la testimonianza di Robert de Clari (vedi più oltre) sulla Sindone e sul mandylion di Costantinopoli quando Robert era presente ai fatti da lui descritti durante il sacco della città (Canetti, La fabbrica dei falsi p. 4).

[12] Canetti, La fabbrica dei falsi p. 8.

[13] Andrea Nicolotti, I Templari e la Sindone. Storia di un falso, Salerno Editrice, Salerno 2011.

[14] Frale, L’ultima battaglia dei templari p. 215.

[15] Frale, I Templari e la Sindone di Cristo p. 73, sulla base della confessione rilasciata dal sergente Étienne de Troyes.

[16] Bramato, Storia dell'ordine dei Templari in Italia, vol. II, p. 47.

[17] Id., p. 57.

[18] Id., pp. 59-60.

[19] Id., pp. 45-46.

[20] Id., pp. 40-42.

[21] Una di queste ultime deposizioni ha suscitato un controversia in cui il Nicolotti (Andrea Nicolotti, I Templari e la Sindone. Storia di un falso, Roma, Edizioni Salerno, 2011) accusa la Frale, tra l’altro, di cattiva lettura e traduzione del testo originale: si tratta della questione del signum fustum, che la Frale traduce con “panno di tela”, leggendo fustum come contrazione per fustanium, “di fustagno”, mentre per il Nicolotti la parola in questione sarebbe fusteum, “di legno”. Per l’uno ciò che vede il Templare è una tavola di legno, per l’altra un panno di fustagno: il Nicolotti osserva che “la Sindone di Torino è interamente di lino, quindi non è di fustagno”, un tessuto misto fatto di cotone e lino, e quindi in ogni caso non si parla della Sacra Sindone, per cui accusa la Frale di aver alterato il passo citato “per creare nel lettore la falsa impressione che il Templare stesse parlando di un’immagine di uomo riportata su un telo”. Però, considerata la varietà di questi “idoli” nelle testimonianze dei Templari non è detto, come conclude la Frale, che si trattasse della Sindone di Torino ma potrebbe essere stato un altro panno simile per la figura riportata.

[22]Ibidem in loco ubi erant, qui locus erat clausus et secretus … fuit sibi presentatum cruciffixum et quoddam lineum habentem ymaginem hominis quod adoravit ter, pedes obsculando et qualibet vice spuebat super cruciffixum, renegando eundem” (Andrea Nicolotti, L’interrogatorio dei Templari imprigionati a Carcassonne, in “Studi medievali”, serie terza, LII, II, 2011, pp. 697-729, p. 711). La Frale (Frale, I Templari e la Sindone di Cristo p. 81) riassume il testo in modo differente per alcuni passi.

[23] Nicolotti, L’interrogatorio p. 729.

[24] Nicolotti, L’interrogatorio p. 726.

[25] Frale, I Templari e la Sindone di Cristo p. 81; trascrizione del testo originale in Nicolotti, L’interrogatorio dei Templari p.710.

[26] Canetti, La fabbrica dei falsi p. 4: “Sappiamo inoltre da documenti autentici che le reliquie del Faro [cioè del Boukoleon] furono acquisite qualche decennio più tardi ai tesori regi della Sainte Chapelle da Luigi IX, e andarono distrutte durante la Rivoluzione francese”. Di sicuro nella Saint Chapelle si trovavano la corona di spine, un chiodo e un frammento della croce (ora a Notre Dame), ma che io sappia nessun autore né contemporaneo né posteriore scrive di un “pezzo” di enorme valore come l’immagine del Cristo.

[27] Frale, I Templari e la Sindone di Cristo pp.189-193.

[28] Frale, I Templari e la Sindone di Cristo pp. 114-118.

[29] Barbara Frale, Come pregavano i monaci guerrieri nelle carceri di Filippo il Bello, in “L’Osservatore romano” 21 agosto 2008.

[30] Zaccaria di Mitilene, morto prima del 553 e autore di una Chronica, scritta in greco ma giunta a noi in una redazione siriaca, racconta di una donna pagana di nome Ipazia (come la sapiente pitagorica di Alessandria!) la quale trovò nella fontana del suo giardino l’icona che galleggiava sopra le acque; la mise ancora bagnata sul velo che le copriva il capo per portarla al suo maestro e così apparve una copia dell’icona, mentre una terza venne fatta dipingere e destinata a una chiesa del Ponto (www.johnsanidopoulos.com/2013/08/the-finding-of-acheiropoieton-icon-of.html, consultato 04/06/2025; https://ilvoltoritrovato.org/2013/09/07/camulia-mandylion/, consultato 24/10(2025).

[31] Della Camulia non abbiamo alcuna immagine certa. Secondo il Lidov l’immagine di Cristo entro un clipeo nell’icona del VII secolo dei santi Sergio e Bacco proveniente dal monastero di Santa Caterina del Sinai, ora a Kiev, potrebbe essere la Camulia (Alexei Lidov, Il Dittico del Sinai e il Mandylion, in Anna Rosa Calderoni Masetti, Colette Dufour Bozzo, Gerhard Wolf, Intorno al Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Mediterraneo (secoli XI-XIV), Marsilio, Venezia 2007, p. 83).

[32] È necessario ricordare che oltre a questi simboli bidimensionali nelle confessioni estratte sotto tortura dai giudici del Re di Francia i Templari facevano riferimento a simboli tridimensionali, forse reliquiari a forma di busto e piccole statue: si trattava di trasposizione in forma tridimensionale della Sindone/mandylion? erano simboli adoperati in rituali di ricevimento nell’Ordine di grado inferiore? Impossibile dare una risposta per la scarsità (e l’incertezza) delle “testimonianze” finora reperite.

[33] Una trattazione integrale dell’argomento in Paolo Galiano, I Templari, la Coppa e l’Altare, pubblicato sul sito della Fondazione Lanzi nell’Aprile 2010. Il rituale è descritto negli Statuti dell’Ordine: “Il sacerdote e il chierico laveranno l’altare e lo aspergeranno di vino e di acqua, E tutti i fratelli si avvicineranno all’altare in preghiera e lo baceranno, secondo l’usanza della casa, accogliendo sulle labbra qualche goccia del vino annacquato versatovi dai celebranti e lo berranno” (Molle, I Templari. La Regola e gli Statuti dell’Ordine, Statuti Cap. 348).

[34] Sul significato e l’importanza da darsi al Sangue del Cristo nell’atto della Consacrazione nella Messa si erano accese dispute teologiche fin dalla fine del XII secolo (proprio in coincidenza con la nascita dell’Ordine del Tempio). In esse si opponevano le tesi di Lotario di Segni, poi papa Innocenzo III, e del teologo Pietro Cantore circa il momento preciso della Transustanziazione: secondo Lotario il momento della Transustanziazione coincideva con la benedizione del pane (Manuel Insolera, La Chiesa e il Graal, Arkeios, Roma 1998 p. 39), per Pietro Cantore essa era completa solo con la successiva benedizione del vino. La disputa, apparentemente “bizantina”, invece aveva un significato preciso: la posizione di Lotario portava all’eliminazione della Consacrazione e quindi della Comunione sotto le due specie del pane e del vino, riducendo il significato del Calice nel rito della Messa, Pietro Cantore intendeva mantenere la duplice Consacrazione e quindi tutti i significati connessi al calice cui qui ho accennato (Francesco Zambon, Robert de Boron e i segreti del Graal, Olschki, Firenze 1984 p. 118). Per la correlazione tra Giuseppe d’Arimatea, il Calice-Graal e i significati della coppa o vassoio si veda Paolo Galiano, Il “Giuseppe d’Arimatea” e i segreti del Graal, pubblicato sul sito della Fondazione Lanzi nell’Aprile 2012.

[35] Frale, I Templari, Il Mulino, Bologna 1998, p. 168; l’autrice prosegue accennando al possibile collegamento tra questa pratica e il Graal.

[36] Simonetta Cerrini, La rivoluzione dei Templari, Mondadori, Milano 2008 p. 163.

[37] Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, VIII, 30. Di questo argomento ho trattato in Paolo Galiano, Storia dell’Alchimia occidentale dalle origini al XIII secolo, Edizioni Simmetria, Roma 2024, nel Capitolo “La ‘carne’ e le ‘ossa’ degli Dèi: anatomia e fisiologia egizia”. Vedi anche Bernard Mathieu, Et tout cela exactement selon sa volonté. La conception du corps humain à Esna (Esna n° 250, 6-12), in Et in Ægypto et ad Ægyptum. Recueil d’études dédiées à Jean-Claude Grenier (a cura di Annie Gasse, Frédéric Servajean, Cristopher Thiers), Montpellier 2012, pp. 499-516.

[38] Trovo superfluo trattare del sacrifici di esseri umani o di animali; qui ricordo solo, come ho scritto nel saggio Pro aris et focis parte II, pubblicato sul sito della Fondazione nel Febbraio 2019, che “l’invito al Dio o alla Dèa viene accompagnato dal sacrificio sul foculus di incenso e di vino, due sostanze confacenti alla sacralità della divinità in quanto ambedue sono il nutrimento degli Dèi, che devono essere alimentati dal profumo dell’incenso e dal potere del vino, sostituto del sangue (il quale costituisce il liquido sacrificale per eccellenza in quanto contenente l’essenza vitale). ‘Secondo Teofrasto (IV-III sec. a.C.) l’unione di vino e incenso produce un effluvio persino più soave dell’incenso da solo e le virtù di questo miscuglio ne risultano accresciute’ (John Scheid, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, Laterza, Bari 2011, p. 37)”.

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