SECONDA PARTE
Immagine del Redentore che consegna il Graal a Giuseppe di Arimatea
vetrata della Chiesa di Sainte Onenne a Tréhorenteuc
La lancia di Longino a Poitiers (la vetrata della crocifissione commissionata da Enrico II ed Eleonora d’Aquitania)
«Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.»
(Vangelo secondo Giovanni, 19, 33-34)
Fig .9
La magnifica Vetrata della Crocifissione una delle più antiche di Francia .
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Nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Poitiers, appena entrati, se si guarda verso il coro, si può ammirare una delle vetrate più antiche di Francia. Il manufatto è di notevoli dimensioni in quanto misura 3,10 m di larghezza per 8,35 m di altezza. Fu commissionata da Eleonora d'Aquitania tra il 1160 e il 1170, quando si iniziò a costruire l'attuale cattedrale gotica. Essa ha ovviamente come fulcro visivo la Crocifissione (visto che così di chiama) e inoltre essa ci narra visivamente la “penetrazione” della punta della lancia nel costato del Cristo da parte di Longino. Ricordiamo, di passata, che tale episodio è narrato solo nel Vangelo di Giovanni mentre il nome del centurione - Longino - deriva da altre tradizioni in quanto questi non è affatto indicato nei Vangeli canonici. Per comprendere la prossimità fonetica tra “Lancia” e “Longino” riprendiamo un esplicativo passaggio di Nuccio d’Anna che ci ricorda come l’etimo del nome del centurione romano e quello della lancia del supplizio sono pressoché coincidenti, sovrapponendosi così il personaggio con la sua funzione sacrificale.[1] Questa è la riflessione di D’Anna cui si accennava espressa in ottica ierostorica: ”Si tratta del classico caso in cui una realtà d’ordine spirituale viene ad incarnarsi in fatti e personaggi vissuti concretamente, fino a fare interferire la storia con la dimensione metastorica” (:2009, 119),
Intorno a questo centro visivo focale organizzano gli eventi successivi della vicenda evangelica. Gesù è raffigurato con la barba, ed è trafitto da quattro chiodi e quindi parrebbe i suoi piedi non siano uniti dallo stesso chiodo. Il commento alla vetrata ripreso da Internet, da cui abbiamo espunto alcune delle informazioni che qui si riassumono, asserisce che tale modalità di rappresentazione sia di origine orientale. Infatti, l’iconografia occidentale avrebbe rappresentato il Signore senza barba (del che non siamo affatto convinti) e con tre chiodi a configgergli mani e piedi. La sottolineatura di questa diversità è funzionale al fatto che la committente, Eleonora, durante il suo primo matrimonio, accompagnò il marito, il re di Francia Luigi VII, in Terra Santa per la seconda Crociata e in quel contesto potrebbe essere rimasta colpita da questa singolarità iconografica e averla così commissionata ai creatori della vetrata. Gli eventi rappresentati sula vetrata sono descritti in una modalità narrativa temporalmente sincronica, così a sinistra di Cristo possiamo vedere Maria e Longino, con la sua lancia pronta a trafiggere il cuore di Gesù; a destra, San Giovanni e Stephaton, che porge a Gesù, all'estremità di una lancia, una spugna imbevuta di aceto.[2]
Ci si potrebbe domandare perché questa vetrata spicchi simbolicamente tra le molte raffigurazioni in cui è presente l’episodio raccontato in questa immagine come quella, ad esempio, del Beato Angelico. Alla ipotetica, ma possibile giusta domanda, rispondiamo che, al di là del notevole valore artistico e storico del manufatto, questa rappresentazione, fortemente voluta dalla committente, mostra come Eleonora d’Aquitania, benché ella fosse sicuramente indirizzata alla valorizzazione del patrimonio spirituale celtico che coltivava nella sua corte con competenza e amore, in identica misura ella era sensibile al Cristianesimo. Le vicende del Perceval Le Gallois, narrate e cantate da Chrétien, de Troyes il trovatore che frequentava la corte dei Plantageneti e in particolare Eleonora, la quale ebbe dai due matrimoni una numerosa discendenza, sarebbero state composte in contemporanea con la realizzazione della vetrata (N. D’Anna: 2009,123) circostanza che mostrerebbe il raggiungimento di una sapiente miscelazione tra due correnti spirituali di diversa origine che proprio in Chrétien, il primo che cantò del Graal - vassoio o contenitore definito portatore della “santa cosa” (ossia l’ostia come si è visto nella prima parte) ma non ancora legato ad eventi evangelici - avrebbero trovato un sapiente equilibrio[3]
Fig.10
Frederick Sandys: Queen Eleanor (Eleonora d’Aquitania) 1858
Questa straordinaria opera d’arte e di fede non è quindi stata proposta per essere ammirata in sé quale oggetto di fede, anche per questo certamente, ma perché fa da spunto per evidenziare il ritratto spirituale della straordinaria regina quale scaturisce dalle parole di Jean Markale: «Scopo di Eleonora è la costituzione di una società nuova, fondata sul rispetto del giuramento di fedeltà [alla Dama da parte del suo cavaliere] … è una società ideale e l’Utopia non è lontana. Vengono in mente le leggende celtiche sulla Terra delle Fate, dove regna una donna misteriosa che dispone di poteri semidivini, che è l’erede delle antiche divinità solari irradianti sull’universo con tutto il loro potere di incantamento, di attrazione magnetica e di calamitazione. Eleonora non dimenticava mai di essere l’azimant, la calamita dei trovatori, e avrebbe voluto, nella sua corte di Poitiers, sentirsi al centro di un mondo chiuso e perfetto, da cui fosse bandita ogni bruttura e malizia. È il mito dell’isola di Avalon che torna in superficie. Ed è pure il mito che ritroveremo nel secolo successivo, nel vasto romanzo del Lancillotto in prosa, particolarmente nella descrizione dello strano mondo della Dama del Lago: “Ella era regina, la migliore che mai fosse esistita. Era una fanciulla di grande saggezza. Teneva con sé diecimila donne, nella sua terra che non aveva conosciuto l’uomo né le leggi dell’uomo. Tutte le donne vestivano abiti e mantelli di seta e broccato d’oro …tutto l’anno quella terra era fiorita come in pieno mese di maggio”». (https://www.larchetipo.com/2017/03/personaggi/la-regina-dei-trovatori-eleonora-daquitania/)
Il brano di Markale mostra come la devozione cristica di Eleonora d’Aquitania espressa con l’impulso della sua committenza alla realizzazione della vetrata, ben si armonizzasse con il suo interiore retroterra “celtico” e la corrispondente visione del mondo. Del resto, non a caso, nella circostanza si è parlato di “spazio plantageneto” come ha efficacemente messo in evidenza Nuccio D’Anna in questo passaggio: “I sovrani della dinastia plantageneta che hanno favorito la nascita e lo sviluppo del ciclo del Graal, i quali non solo dominavano quelle terre, ma avevano costituito una forma di “quasi impero” prudentemente definito da qualche storico come “spazio plantageneto”, che dai territori dal sud della Francia e dal confine dei Pirenei arrivava fino all’Inghilterra e all’Irlanda”(:2009: 122-123).
La foresta di Brocelandia e la chiesa di Sainte Onenne a Tréhorenteuc
Fig.11
Il Cervo bianco nel mosaico che domina la parte opposta a quella dell’Abside della piccola chiesa di Sainte Onenne è, in qualche modo, il simbolo stesso della foreste di Paimpont e del suo stretto legame con il mondo celtico e i miti e racconti arturiani coniugati da Chrétien. L’abbè Gillard fu una sorta di Nuovo Chrétien e affidò le immagini dell’iconografia “celtico – cristiana” a un artista tedesco, Karl Rezabeck, all’epoca prigioniero di guerra. Uno dei risultati più “curiosi” di questa collaborazione è la Via Crucis la cui ambientazione è la stessa foresta di Brocelandia con i suoi luoghi peculiari ’
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La vasta foresta di Paimpont, Brocelandia, è un territorio davvero “magico”, un luogo in cui si conservate molte leggende di remota antichità in siti contrassegnati da particolari ierofanie ambientali e abitata, nella tuttora vivida convinzione locale, dalla razza sfuggente del piccolo popolo. È questa quindi una regione dove tuttora si percepisce la forte presenza di un retroterra celtico e del personaggio di Merlino, cui Robert de Boron dedicò il libro intermedio della sua trilogia e di cui si parlerà appena dopo, non prima di aver sottolineato adeguatamente come Brocelandia sia la “location” dei fondamentali romanzi (o, corbinianamente, “racconti mistici”) del ciclo del Graal e comunque teatro di numerose avventure arturiane
Così oltre a Chrétein e a de Boron nel folto delle sue macchie si svolge la vicenda della conversione alla cavalleria del Parzival wolframiano, in cui è indicata con il nome di Brizlian. Parzival è tenuto lontano dalla cavalleria dalla madre, la regina Helzeloyde, che teme di perdere il figlio in battaglia come nella stessa circostanza ha perduto il marito e il fratello del giovane ed è per questo che la “vedova” (personaggio frequente nei romanzi cavallereschi e non solo) si pone come schermo tra il suo giovane, “puro” e insieme folle, e il “mondo” fuori della foresta, soprattutto quello della cavalleria. Purtuttavia, come annota D’Anna, il giovane riceve comunque una sorta si preliminare educazione ai “misteri della foresta” e al “canto degli uccelli”. Il progetto materno fallirà e Parzival tenterà la via della cavalleria facendo morire, senza volerlo, la madre di dolore (un tema su cui Wagner insisterà molto nel suo Parsifal), tuttavia non proseguiamo su questa strada perché ci porterebbe troppo lontano rispetto ai nostri intenti.
Tornando a de Boron e a questo suo secondo libro è da notare come in esso vi siano passaggi importantissimi che illuminano sulla peculiare dignità di questo personaggio che, come ci ricorda Corbin, fu iniziato da Giuseppe di Arimatea alle misure mistiche del Tempio di Salomone circostanza che l’ho fa un eletto molto particolare e destinatario principale di quella traslazione sapienziale da Oriente a
Occidente. Una curiosità, di questa traslazione sembra fosse ben conscio William Blake che descrisse l’evento nel suo poema Gerusalemme di cui qui ci limitiamo a riportate gli ultimi versi: Io non cesserò di combattere la battaglia spirituale/Né la mia spada sarà a riposo nella mia mano,/ finché non avremo costruito Gerusalemme/Nella verde e piacevole terra d’Inghilterra”.
Francesco Zambon, che ha molto approfondito il tema, sottolinea come Giuseppe d’Arimatea, dopo varie vicende che qui non si possono riassumere, sia costantemente guidato nelle sue azioni da una voce celeste e come, in parallelo, sia stato Dio stesso a offrire a Merlino il dono della profezia, tanto che egli può fregiarsi del titolo di profeta del Graal ed è quindi destinato a realizzare il piano divino sulla terra. Il combinato disposto di queste circostanze fa si che il Livre du Graal, un testo attribuito direttamente a Merlino, si presenti come un libro rivelato, e conseguenzialmente una Scrittura sacra, un Vangelo de Graal. D’altronde Merlino è in speciale relazione con i Canonici come mostrano le espressioni che questo profeta medioevale rivolge al chierico Blaise, il confessore della di lui madre, cui Merlino assegna il compito di trascrivere le sue “visioni” incoraggiandolo con queste parole: “Si parlerà per sempre della fatica del tuo libro .Ma esso non avrà autorità, perché tu non sei e non puoi essere uno degli Apostoli. Gli Apostoli scrissero di Nostro Signore soltanto i fatti di cui furono testimoni diretti, tu invece non riporti nulla che tu abbia visto e udito. Ma solo quello che racconto io. E come io sono e sarò oscuro con coloro cui non vorrò svelarmi, così il tuo libro rimarrà segreto, e rari gli uomini che l’apprezzeranno”. Non può sfuggire la singolarità costituita dal fatto che Merlino adempia a una funzione cristica “notturna” (così come sottolineato dallo Zambon). Merlino ha la “Parola”, mentre il chierico Blaise adempie a una funzione apostolica annotando diligentemente quanto gli viene riferito. Questa trasmissione avviene nel “luogo primordiale”, nel non-manifestato e quindi nel bel mezzo di una foresta oscura. Qui Merlino non condivide gli spazi con gli uomini quanto, piuttosto, paritariamente, con gli animali selvaggi e in cui il temuto lupo di cui so dichiara “caro compagno” [4] (su ciò si vedano le rilevanti osservazioni di F. Zambon contenute nelle pagine 191-200 di Metamorfosi del Graal)
Lo sfondo della foresta animata da mille presenze, non regimate dal controllo umano, fa quindi da quinta alle vicende narrate da tutti gli autori del Graal e, ritornando a Chrétien, è da ricordare che il mondo da questi rappresentato è senz’altro quello antico celtico conservato e tramesso nei secoli dai cantori gallesi e bretoni e custodito dalla corte di Enrico II e Eleonora d’Aquitania, come si è già sottolineato nelle pagine precedenti e, tuttavia, s’intravedono nei suoi scritti fondamentali scorci della penetrante fede cristiana che si amalgama con precedenti tradizioni. La profonda cultura di Chrétien, che taluni sospettano fosse un chierico, unita alla volontà della coppia regnante, con particolare riferimento alla sovrana che voleva fare della corte una sorta di giardino intellettuale, in qualche modo interconfessionale, tanto da essere celebrata la sovrana quale “regina dei trovatori”, trova la sua perfetta sintesi nei lavori di questo poeta che si può paragonare al nostro Alighieri. Nell’incompiuto suo Perceval le Gallois (Perceval o il racconto del Graal,) Chrétien, oltre a proporre tutto il patrimonio della simbologia celtica, introduce quindi indubitabilmente elementi cristiani il cui innesto più completo, seppur in forma ipoteticamente “esoterica”, si attuerà con un autore a lui di poco successivo il già citato Robert de Boron. Come si diceva il luogo d’elezione di queste vicende è la foresta di Brocelandia e convincenti accostamenti che catalizzano la specialità del luogo l’ha fornito (al solito) Nuccio d’Anna in questo passaggio dedicato appunto all’opera complessiva del Chretien“: Tutti i suoi romanzi contengono importanti simboli comprensibili facilmente rifacendosi a fonti gallesi e bretoni. Si pensi ad esempio al ruolo fondamentale che nell’Yvain assumono il Castello dell’Isola, la” “Fontana di vita” oppure la foresta di Brocelandia, quest’ultima un evidente riadattamento narrativo della “Terra del cinghiale” ricorrente nelle tradizioni celtiche e rinvia a tutto il simbolismo fiorito intorno alle dottrine sulla Sapienza Divina che s’invera in una terra paradisiaca, e mostra persino somiglianze straordinarie con alcune importanti dottrine indù sulla Vahari, la ‘terra del Cinghiale’, ricorrente nelle tradizioni celtiche posta al centro del mondo e alle origini dell’umanità’ (:2009, 82-83).
Fig.12
Una immagine della tomba di Merlino tuttora oggetto di omaggi quasi devozionali (foto dell’autore 1991)
Sarebbe davvero interessante seguire tutto il raffinatissimo percorso simbolico presente nei romanzi di Chrétien ma non è questa la sede. C’imbatteremmo comunque nella sua narrazione in tema essenziale legato alla foresta ovvero l’esaltazione dell’universo dei volatili quale espressione degli stati sovraordinati dell’essere che fa si che il loro canto sia espressione della lingua “paradisiaca”. Colui che “canta come gli uccelli e con gli uccelli” è colui che si liberato della condizione temporale, come, allo stesso modo, la caccia al cervo (bianco) è pattern simbolico diffusissimo dai molteplici significati simbolici, che sono evidenti fin dalla remota antichità preistorica. La rilevanza del cervo è ben rappresentata nella enigmatica chiesetta di Tronteureuc che fu affrescata e adornata di vetrate a sfondo graalico commissionate dall’allora parroco l’Abbé Gillard. Questi editerà durante i suoi anni di servizio alla chiesa una serie di volumetti (tuttora ristampati) sull’edificio stesso e sui luoghi della foresta cercando di ri-fondere, a distanza di molti secoli, nuovamente l’insottomesso retaggio celtico con la fede cristiana. In sintesi, compie in tempi moderni la stessa operazione che il D’Anna, aveva individuato nella costruzione dei romanzi di Chrétien, che sono adattamenti narrativi di una retrostante sapienza di espressione iniziatica precedente il cristianesimo: “E’ impossibile sottovalutare l’importanza del retaggio celtico presente nella corte plantageneta e la sua forza formatrice”
Fig.13
Piantina della foresta di Paimpoint che reca come segno emblematico di identificazione la cerva
https://broceliande.brecilien.org/Gillard-Henri-687
L’Abbé Gillard, che fu parroco di per circa venti anni della piccola chiesa e che è omaggiato con una statua che riproduce le sue fattezze in prossimità dell’ingresso, è stato un attivo pubblicista e la quasi totalità delle sue numerose pubblicazioni ruotano sulla descrizione e sul commento dei siti presenti nella foresta che hanno diretta relazione con il tema del Graal, e in generale, con la leggenda arturiana. Il già citato Jean Markale (nome di penna), fecondo studioso di temi celtici e noto divulgatore, fu devoto amico e corrispondente con questo studioso che gli premorì. Markale ha commemorato in più occasioni il suo amico e corrispondente mantenendone viva la memoria. In appendice a questo intervento riportiamo per il lettore, eventualmente incuriosito dalle circostanze, la interessantissima bibliografia del nostro parroco tutta praticamente dedicata alla “sua” foresta e alla “sua” chiesa.
Fig. 14
Uno dei volumetti della serie delle opere complete dell’Abbé* Girard che ha resuscito dalla rovina la “sua” chiesa e che l’ha corredata di vetrate che non sfigurerebbero con quelle giustamente più celebrate delle chiese storiche francesi. Questa che fa da copertina a turta la serie dei suoi fascicoli rappresenta evidentemente il Graal
La Sainte Chapelle
Un luogo, un sito che potrebbe davvero rappresentare e che anzi ha rappresentato il Tempio del Graal su questa terra è la Sainte Chapelle di Parigi in una architettura che riunisce congiuntamente il Castello e il Tempio del Graal e che fu consacrata nel 1248 quale luogo di conservazione delle sacre reliquie che re Luigi, il Santo, aveva raccolto in Oriente per portarle in Occidente. Allo scopo fu allestito un prezioso reliquiario a forma di chiesa gotica. Questo patrimonio era costituito dalla Corona di spine (oggi facente parte del Tesoro di Notre Dame), un frammento ligneo appartenente alla Vera Croce, due ampolle con il sangue di Cristo (altre due ampolle si conservano nella Abbazia di Fecamp insieme ad altre sante reliquie portate dai flutti dopo che Nicodemo le aveva rinchiuse in contenitori separati affidati al mare), parte del ferro della lancia di Longino che, si ricorda, appare nel corteo descritto da Chrétien già con contorni “miracolistici” in quanto perennemente gocciolante per proprio conto di sangue (un palese derivato dal retroterra celtico) diversamente dal graal (gradale, krater, grolla etc.) rappresentato in Chrétien come un semplice “porta vivande” d’uso all’epoca. Il carattere d’indirizzo fortemente regale che assumeva questo deposito, che aveva la simbolica funzione di traslocare l’unzione regale dei re biblici dell’Antico Testamento in capo alla monarchia francese, favorì la dispersione del patrimonio reliquiario durante la rivoluzione francese che, com’è noto, è stata acerrima nemica di ogni “tradizione” (una sorta di cultura woke ante-litteram). Si fa nella circostanza solo un cenno a questo luogo meraviglioso perché sui contenutivi artistici della Sainte Chapelle, capolavoro artistico sicuramente di inarrivabile fattura, si può trovare in rete ogni informazione, e in ogni caso della particolare architettura del castello e del Tempio del Graal si avrà occasione di parlare nelle prossime pagine
Glastonbury e Giuseppe di Arimatea
“L’escatologia...trasfigura i luoghi geografici che hanno una sacralità immediatamente percepita da un altro organo rispetto ai sensi. Avalon può essere identificato, nel XII secolo, con il territorio invaso in cui fu eretta l’abbazia di Glastombury. Abbiamo lo stesso fenomeno nelle localizzazioni del Graal a Mont Serrat e a Mont Segur…” (H. Corbin: II 2015, 203)
La frase di Corbin in esergo dice tutto sulla multivalenza dei luoghi sacri quali spazi ierofanici in cui le storie perdono il loro carattere diacronico e si presentano per come “esse sono” e quindi quali avvenimenti di un “tempo che non scorre”, detto in un termine propriamente corbininano in ierostorie. È sotto questo particolare profilo che le vicende andrebbero percepite. Altri luoghi del Graal da individuarsi, oltre l’appena citata Glastombury, possono essere Montsegur, Mont Serrat, Mont Salvat, che però, al di là di una identificazione topografica, corrispondono sostanzialmente a una geografia degli spazi interiori[5]
Secondo la recente trattazione esposta dalla giovane studiosa Giulia Baldassarri la versione della vicenda di Perceval proposta da Robert de Boron rappresenta una sorta di correzione di quella di Chrétien de Troyes e, benché contenga senz’altro anch’essa elementi di derivazione celtica, tuttavia essa è comunque tutta indirizzata verso il mistero eucaristico cristiano. La trilogia, cristiana lo è certamente, ma prima di incasellarla in una categoria è necessario procedere ...con juicio si puedes. Nel passaggio conclusivo della sua ricerca la studiosa afferma infatti che: “L'innovazione principale di Robert de Boron è la definitiva cristianizzazione della storia del Graal, con molteplici riferimenti alla Trinità stessa nonostante ci siano ancora elementi celtici. Inoltre non solo Robert de Boron ci descrive l'origine della custodia del Graal con Giuseppe di Arimatea ma diventa anche nel romanzo un discepolo privilegiato di Gesù, depositario dei più alti misteri divini. Questo ruolo richiama molto le «tradizioni segrete» degli Apostoli e la Gnosi che troviamo negli Stromati di Clemente Alessandrino. Questo insegnamento e la considerazione di Giuseppe come discepolo eletto è rimasto escluso dai Vangeli e si distingue nettamente dalla tradizione apostolica ufficiale.”(:Il simbolismo del Graal, 57) Ognun vede, leggendo le impegnative parole proposte da questa ricercatrice, che probabilmente sono state riprese dallo Zambon ma “ufficializzate” in una tesi di laurea, come questa supposta “gnosi cristiana” evangelizzante che vede in Giuseppe un “quinto” evangelista nonché un discepolo occulto del Cristo (e non “per timore” degli Ebrei come si legge in Giovanni in un passo che stato considerato interpolato), avrebbe ben poco a che fare con la Chiesa romana soprattutto con l’insegnamento attualmente dispensato.(su ciò vedasi M. Insolera:1998, 54 e ssgg , G. Zambon 2013, 150 e ss.gg. e Claudio Risé. La gnosi del Parzival e l’esperienza delle corti d’amore )[6]
A questo punto si potrebbe certamente osservare che se non v’è ostacolo a riconoscere che la vicenda sia stata completamente cristianizzata rimanendo ben poco delle robusta eredità celtica del precedente autore, tutto imbibito degli influssi culturali della corte dei Plantageneti, ebbene, assodato ciò, una domanda lecitamente si pone: dopo quanto sopra esplicitato di quale cristianesimo si parla nelle circostanze? A queste domanda non si qui vogliono offrire risposte eccessivamente assertive ma certamente non può passare sotto silenzio il lavoro critico operato sui testi di de Boron, da Henry Corbin, Nuccio d’Anna, Francesco Zambon e Manuel Insolera.
Quest’ultimo intitola significativamente il suo libro La Chiesa e il Graal, Studio sulla presenza esoterica del graal nella tradizione ecclesiale. Zambon, dal canto suo, definisce il testo di de Boron come “Vangelo esoterico medioevale” (1984, 102). È da ricordare, proprio in questa circostanza, quanto scrive su Giuseppe di Arimatea lo stesso Corbin, definendo il nobilis decurio primo vescovo cristiano che sembra ignorare la gerarchia romana (:1983, 240),[7] L’opera evangelizzatrice di Giuseppe, non implica il diffondersi del cristianesimo in terre “pagane” ma ben di più, ossia lo spostamento di un simbolo essenziale ovvero il Graal. Questo lascia l’Oriente a va ad Occidente ivi fondandosi l’abbazia di Glastombury in cui sarebbe immaginificamente riconoscibile Avalon, espressione del polo celeste sulla terra, ricollegandosi quindi la tradizione gerosolimitana alla tradizione primordiale. In questa circostanza non si avrà difficoltà a prendere atto che accettando la narrazione contenuta nell’apocrifo di Nicodemo si assegna la consegna del Santo Graal da parte dello stesso Cristo a mani non apostoliche
Fig .15
Le rovine della abbazia di Glastonbury già centro sacrale preistorico identificata con Avalon, essa, come ‘polo,’ sarebbe al centro di un grandioso zodiaco (immagine da Wikipedia)
Giuseppe di Arimatea quindi apostolo “graalico” quale rappresentante del potere regale, mentre Nicodemo risponderebbe ai requisiti della complementare funzione sacerdotale (non v’è però accordo su questa ripartizione attribuendosi da taluno a Giuseppe entrambe le funzioni) di una chiesa “esoterica” affatto in contraddizione con Roma ma ad essa pressoché parallela, una Chiesa che riconoscerebbe questa linea di trasmissione riservata che ha diretto collegamento con il Cristo il quale avrebbe trasmesso l’insegnamento nella cella in cui Giuseppe era stato trattenuto per quaranta lunghi anni dagli “Ebrei” che lo avrebbero carcerato imputandolo di aver trafugato segretamente il corpo del Cristo. Tale periodo parve all’apostolo che durasse solo pochi giorni, essendo stato ammesso alla diretta comunione con il Graal che dispensava,-altro tratto significativo ripreso da altri racconti e circostanze, nutrimento sovrannaturale.
Fig . 16
L’insegnamento notturno di Nicodemo. Si noti l’espressione tras l’ammirato e lo stupito dell’ascoltatore
https://en.wikipedia.org/wiki/Crijn_Hendricksz_Volmarijn pubblico dominio
Leggiamo in Zambon questa fondamentale conclusione “Alla chiesa fondata da Pietro sugli insegnamenti contenuti nel quarto vangelo si sostituisce così nel Joseph (uno dei tre libri della trilogia del de Boron) una comunità occulta che si trasmette una dottrina ricevuta direttamente da Gesù e superiore a quella pubblica; non a caso Pietro è qui un personaggio secondario, escluso dalla cerchia dei custodi del Graal” (: 2013 157)[8]
Si vuole qui mettere di nuovo in evidenza, a proposito di questo insegnamento assolutamente tradizionale trasmesso da bocca a orecchio, che Giuseppe di Arimatea ricevette dal Cristo una speciale elezione “affettiva”, come ci ricorda questo brano citato dall’Insolera:“Io non ho portato con me nessuno dei miei discepoli e sai perché? Perché nessuno di loro conosce il grande affetto che ho per te da quando mi staccasti dalla croce, e di ciò non hai tratto alcun vanto. Nessuno conosce la fedeltà del tuo cuore salvo me e lo Spirito divino. Tu mi hai amato in segreto ed io te con altrettanta certezza”(citato da Insolera: pp.gg. 56 n. 27)
Siamo nel cuore del tema, Robert de Boron testimonia di un cristianesimo certamente “missionario” e quindi evangelizzatore fondato tuttavia su rivelazioni riservate, ricevute da Giuseppe d’Arimatea, ovvero il cavaliere, anzi il nobilis decurio che, ricordiamo, era stato ai piedi della croce e che diviene, su autorizzazione di Pilato quale unica ricompensa del servizio a lui prestato, custode del Corpo del Cristo. Le rivelazioni ricevute durante la prigionia saranno da Giuseppe successivamente trasmesse a una dodecade di Apostoli.
A proposito di questa riservatezza proponiamo una ficcante conclusione dell’Insolera che, proprio partendo dal carattere enigmatico di questa rivelazione fatta dallo stesso Cristo a Giuseppe e inerente la relazione che lega la coppa al sangue scrive:” I nomi che abbiamo citato (ovvero quelli che hanno diffuso in ambito ecclesiale la veridicità di questa intima relazione tra Gesù e il suo apostolo nascosto) sono tutti solidamente inserirti nel solco maestro della Chiesa”. Insolera prosegue la sua disamina con un ulteriore passaggio, che qui si parafrasa, insistendo sulla circostanza che questi qualificati commentatori, susseguitesi nei secoli, hanno considerato del tutto ortodosso il legame segreto del Cristo con il suo discepolo nascosto Giuseppe d’Arimatea.
Stringeva il Maestro al discepolo un legame d’amore, quasi filiale, come di prassi, tramandato dapprima occultamente e richiamato da una ricca tradizione agiografica e orale, poi, in un certo momento, mostrato en apert secondo l’indicazione del Cristo espressa nel passo lucano 8, 17, il che starebbe a denunciare il pieno rispetto del comandamento cristico in ordine all’abrogazione dell’esoterismo nell’insegnamento, potendosi probabilmente parlare di un eso-exoterismo cattolico. Aggiungiamo, di passata, che nelle argomentazioni dell’Insolera ravvediamo dei punti frizione logici ma non è questa la sede per trattarli.
Parimenti non è da dimenticare, e lo sottolineiamo in un inciso, che Giuseppe fa parte di quella piccola compagine (come Maria Maddalena) dei “discepoli nascosti” la cui presenza e la sua azione sono stati messi un poco in sordina sia nei Vangeli canonici che nell’insegnamento magisteriale e ciò nonostante il fatto che svolgano compiti essenziali nell’economia degli eventi finali della vicenda terrena del Cristo. Questa riservatezza ben si armonizza con quell’insegnamento “notturno” (espressione del “non-manifestato”) che Il Cristo impartì appunto a Nicodemo separatamente (il che non è un caso isolato perché anche in un frammento di Marco, ritenuto espunto dal testo evangelico, si alluderebbe all’insegnamento notturno impartito dal Cristo a un discepolo “amato”)
Si è messo in evidenza in precedenza come lo Zambon abbia definito il testo di de Boron quale “vangelo esoterico medioevale” e a questa definizione è opportuno aggiungere che un paragrafo del suo libro Metamorfosi del Graal significativamente s’intitola Un Vangelo della cavalleria. Pertanto non solo il testo (o i testi) del ciclo sono da equiparare ai Vangeli (Corbin li paragona alla Bibbia, ma a nostro modesto parere il parallelo con il Vangelo è ben più calzante tanto che Francesco Zambon in Metamorfosi del Graal parla del Racconto del Graal come vero e proprio Vangelo del Graal, p 173)), ma i contenuti di questi non rivestono carattere esplicito bensì celato e riservato (ma questo accade anche nei Canonici che comunque si prestano a interpretazioni sottili dietro la facciata exoterica) e quindi proteggono il loro esoterismo da sé stessi utilizzando espressioni impenetrabili al “volgo” (tra molte virgolette) a coprire drammatizzazioni iniziatiche che descrivono vicende puramente interiori servendosi di un linguaggio “esteriore” di natura pressoché affabulatoria.
In ogni caso, in maniera del tutto inequivoca, tali vangeli sono destinati ai “Cavalieri”. Questi ne sono i protagonisti e i destinatari, coloro che vedono - o provano a vedere - e a cercare il Graal sono difatti tutti cavalieri e, se di iniziazione si parla, si parla di una iniziazione cavalleresca in cui i “chierici”, sovente eremiti dalle caratteristiche border line, in quanto magari ex cavalieri, fungono da indispensabili suggeritori in momenti cruciali e per conseguenza appaiono quasi serventi del cavaliere e della sua cerca, quasi fossero degli “scudieri spirituali”. Un mosaico del Duomo senese, menzionato in precedenza, che illustrerebbe un episodio tratto da in autore che tratta del Graal - Gualtiero Map -, mostra il Cristo che tiene la spada con la bocca e si è posto alla guida dei cavalieri, suggerendo con ciò come egli stesso sia alla guida del percorso iniziatico, ovvero di quel percorso tutto spirituale e quindi tutto relazionato a quanto esposto nella Queste du Saint Graal scritto di provenienza probabilmente cistercense [9].
Fig.17
Cristo che guida i cavalieri
Possiamo ben dire che verosimilmente l’autore che, forse ancor più di ogni altro, entra di diritto, come cavaliere lui stesso, su tale tematica è Wofram von Echembach, indicato in alcuni commenti come anch’egli templare. Wolfram nel suo Parzifal ha tenuamente mascherato l’indicazione dell'Ordine del Tempio e dei suoi cavalieri quali predestinati alla custodia della sacra reliquia, con il termine Templeisen, per poi direttamente nominarli nel corso del romanzo che si snoda per sedici libri, offrendo comunque narrativamente un variegato milieu “interconfessionale” descrittivo di questa milizia santa alla quale partecipano nobili cavalieri provenienti da tradizioni diverse e anche exotericamente avverse. Fissato questo punto ricordiamo che il terreno su cui sorge la basilica attuale di di San Lorenzo di Roma, dalla quale siamo partiti per questo ipotetico viaggio, che si ricorda succede alla basilica costantiniana, fu acquistato dai Templari (da qui verosimilmente le croci patenti presenti nel corpo dell’edificio) che sono poi istituzionalmente destinatari a proteggere e amministrare le reliquie che gravitano intorno alla vicenda cristica il che è uno dei tanto indizi di una “sospetta” specificità.[10]
A questo punto appare ben evidente l’importanza che può assumere l’abbazia di Glastombury quale centro di un “cristianesimo esoterico”, poi ritiratosi, tra le cui mura si conserva la “tomba” dello stesso re Artù - rex quodam rexque futurus -, e della regina Ginevra scoperta proclamata dall’Abbazia nel 1191, ma non confermata dall’archeologia[11]
Il “Cratere” di Wolfram Von Echembach e l’architettura del tempio del Graal di Albrecht
I Vangeli possiedono la massima autorevolezza, ma gli Evangelisti intendevano mettere per iscritto solo gli avvenimenti che erano di pubblico dominio, tanto che sta scritto ‘Molti altri segni fece Gesù che non sono scritto in questo libro (GV: 20,30)’, cioè nel Vangelo. Essi si possono leggere, anche se non tutti, in altri libri (Onorio Augustodunense)
Siamo ora finiti a parlare congiuntamente dei due poeti tedeschi del titolo (che molti sospettano essere uno solo) e del loro ipotetico accostamento per un migliore svolgimento e commento del tema graalico che, attraverso il testo del Wolfram, da ierostoria si muta in una escatologia metapolitica. Svolgere un così delicato tema in poche righe non è affatto semplice anche perché oggi, grazie a internet, informazioni dul tema, più o meno complesse e complete, di certo non mancano. Come si è detto lo scopo del presente contributo è offrire i risultati di una ricerca per “luoghi” o manufatti “reali”, che testimonino della vicenda nei quali essa si è dispiegata. A tal proposito si può affermare che Wolfram dei luoghi ne citi parecchi e nello specifico è da ricordare la localizzazione galiziana della dimora del Graal nel suo testo. Un fatto s’impone di considerare, ossia il ruolo davvero essenziale che assolvono i siti e le dimore in questa ulteriore fase delle metamorfosi del Graal (come del resto la foresta di Brocelandia che non è un bosco qualunque quanto piuttosto un luogo di ierofaniche presenze) e il fatto che la loro realtà sconfini sovente con l’immaginifico. Citiamo a proposito un lungo brano di H. Corbin che ci rammemora le caratteristiche della ierofania graalica direttamente connessa al Tempio gerosolimitano e con esso alla Gerusalemme celeste: ”Il terzo tempio sull’alta montagna, alla “confluenza dei due mari”, la città tempio della nuova Gerusalemme, è costruito per mano divina, e ciò di cui ha bisogno è di una cavalleria al suo servizio. Celtismo e templarismo convergono; nel Titurel di Wolfram il Tempio è concepito e la sua edificazione è diretta da Merlino, il profeta celtico, iniziato da Giuseppe di Arimatea alle misure del Tempio archetipico, il Tempio di Salomome. Nel Nuovo Titurel di Albrecht von Scharfemberg gli splendori architettonici del Tempio del Santo Graal, sulla cima di Montsalvat, daranno una visione fuggitiva del Tempio celeste”(:1983, 215)
Questo passaggio di Henry Corbin è davvero grandioso e va opportunamente ponderato.
Corbin ha esaltato un fatto determinante, ovvero che celtismo e templarismo vanno insieme a coniugarsi nei testi dei due “tedeschi”. Prendendo spunto da ciò si può giungere a una visione “ecumenica” ancora più ampia. Grazie soprattutto al contributo dello studio di Pierre Pensoye, l’’Islam e le Graal, che reca il significativo sottotitolo Studio sull'esoterismo del Parzival di Wolfram von Eschenbach, siamo stati messi a parte del fatto che il Wolfram, indicato come templare egli stesso e narratore di gesta di Templari a difesa del Graal, indubitabilmente una delle più sante delle reliquie come si è tratteggiato nelle precedenti pagine, ha costruito la sua cavalleria spirituale con un approccio, come si direbbe oggi, fortemente “ecumenico” o comunque “non settario”. I protagonisti di questa compagine provengono da culture religiose addirittura exotericamente in conflitto con il cristianesimo e, pur tuttavia, in questa prospettiva, che vale ovviamente per tutta la letteratura del Graal, “la cavalleria diventa la Chiesa esoterica e militante per mezzo della quale Cristo porta la sua salvezza nel mondo”(cfr. F. Zambon: 2013 158)[12]
Asseritamente il compito dello scritto del Wolfram è di correggere, con il suo Parzival, Le Roman de Perceval ou le conte du Graal di Chrétien e per questo introduce personaggi assenti nell’opera di questo, quasi che Wolfram avesse potuto accedere a una fonte più completa del suo predecessore, personaggi che andrebbero esaminati con gran cura partendo dal presupposto che le loro etimologie rivelano la funzione superiore su cui sono portatori. Tra diversi qui si menziona Flegetanis. Costui è un astrologo “caldeo” che legge i cieli e i moti delle stelle per ricavarne i segreti spirituali dal momento che esse celano, misteri cui non si può partecipare che “tremando”. Egli pare interpretare i loro moti, secondo le regole di quell’astronomia immaginale che Sorhavardi ha suggerito con tanta circospezione e che predispone colui che cerca e scruta gli astri a osservare il cielo con gli occhi della visione interiore (sub specie interioritatis).
Flegetanis, d’altronde, è considerato diretto discendente di Salomone, quasi come a legare ulteriormente la tradizione del Tempio salomonico alla vicenda del Graal e. d’altronde, è noto che: “Questo Salomone era un saggio e conosceva tutte le virtù delle pietre e degli alberi, come pure il corso delle stelle e molte altre cose ancora”. Secondo gli studi di H. Corbin il personaggio di Flegetanis e quello dell’eremita Trevrizent sono in realtà le manifestazioni di un solo “figura” che, nel testo wolframiano, appare in più vesti che esprimono aspetti individualizzati di un’unica “monade”.
Questa figura troverebbe corrispondenza in quella dell’Ermete che abbiamo simbolicamente lasciato nella cattedrale di Siena pagine fa. A questo punto la cristianizzazione del testo, su cui molto insiste Paolo Aldo Rossi nella sua presentazione al testo La storia del Santo Graal, parrebbe in parte compromessa.
Il tema è questo.
È vero che nello scritto di Wolfram ci sono personaggi “pagani”, tra cui lo stesso fratello di Parzival, Feirefiz (colui che unitosi con Repanse de Schoye darà vita al prete Gianni, anch’egli re e sacerdote), che si convertono battezzandosi. Feirefiz difatti per “vedere” il Graal dovrà battezzarsi su sollecitazione dello stesso Parzival che trasferisce nella circostanza le esortazioni di Flegetanis. Ma dopo aver letto dell’”astrologo” Flegetanis e dei misteri celesti, di cui questi sarebbe partecipe, ci si può domandare: di quale battesimo si tratta? Corbin, forte delle conclusioni dei Kahane, ha preso di petto l’argomento prospettando una soluzione diversa da quella immediatamente apprensibile e non schiacciata sul ruolo che i cistercensi e quindi San Bernardo avrebbero avuto nella composizione della vicenda. La proposta di Corbin (ma in parte suggerita anche da Evola e quindi maturata ben prima) è che il battesimo di cui si parla sia il battesimo nel Cratere, descritto, appunto, nel titolo IV del Corpus Hermeticum, un’indicazione che rinvia all’omonima costellazione celeste che segna il punto celeste in cui le anime entrano ed escono dalla manifestazione. Il Battesimo nel Cratere è un battesimo “gnostico” che condurrebbe pertanto a una escatologia personale.[13]
Questo rifermento wolframiano a “ierostorie immaginali” e a una astrosofia simbolica dovrebbe rendere non pertinente la trattazione dei “luoghi del Graal” in un intervento come questo. A questa ipotetica obiezione si può opporre un “però”. Questo “però” consiste nel fatto che è necessario coniugare non il Parzival di Wolfram ma l’incompiuto Titurel, dello stesso autore, al Nuovo Titurel dell’Albrecht in cui sono ben presenti delle descrizioni di edificazioni, quali il castello e il santuario del Graal, che si trovano collocati su una sacra montagna di puro onice
Malgrado la lunghezza dell’esposizione abbiamo sentito la necessità di suggerire che questo ulteriore dimensione della vicenda graalica fosse da trattare adeguatamente . Riassumendo. Siano partiti da Chrétien in cui l’elemento cristiano si inserisce su un robusto sottofondo celtico per poi passare alla quasi completa cristianizzazione del tema a opera di Robert de Boron in cui però ci si troverebbe di fronte a un cristianesimo extaevangelico, “esoterico” e quindi a una sorta di “supercattolicesimo” (l’eucarestia così come descritta dal de Boron sarebbe in contrasto con il dogma della transustanziazione stabilito dal quarto concilio Lateranense e sul tema si veda l’intero paragrafo Esoterismo della Messa nei Romanzi del Graal in Meranirfosi del Graal).
La linea di partenza è in Giuseppe di Arimatea, discepolo occulto e primo vescovo della Chiesa (o il di lui figlio Joséphèe) e la cui sede primaziale è identificata con Glastombury (Avalon) che per lungo tempo è vissuta teologicamente in contrasto con la romana Cantembury, prima di essere assorbita dall’ortodossia. Siamo quindi passati alla dimensione supertradizionale, sempre in linea cavalleresca, di Wolfram e Albrecth in cui prepotente si fa un richiamo al Tempio e alla sua peculiare struttura aritmosofica, adeguata al suo modello immaginale. È difatti ben evidente che la “forma formata” di una edificazione sulla terra trova la sua origine in una “forma formante” che non è in questo mondo e che il Corbin ha insegnato come trovare nel mondo intermedio in un processo visionario che qualcuno (Leopoldo Moschella) ha reso con il termine psicoteleprosopopia. Per cui si può affermare che l’architettura terrestre rappresenta in sintesi una ierofania di quella celeste.
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Fig.18 (alzato e pianta)
La struttura circolare del Tempio del Graal ricavato dalle descrizioni dell’Albrecrth e costruito secondo certe regole aritmosofiche. La struttura di presenta costituita da 22 cori e da uno raddoppiato per un totale di 24 indicando così questo come il più importante la cappella dedicata alo Spirito Santo. Questa particolarità paracletica sembra perfettamente coniugare l’indicazione di Robert de Boron che aveva indirizzato la comprensione del suo testo a una interpretazione inconsueta della terza età gioachimita, appunto paracletica: non più età dei contemplativi ma degli uomini d’azione. Così scrive lo Zambon “Ma ll terzo tempo di Robert de Boron e della Queste non è tanto, come nella teologia gioachimita, il tempo dei contemplativi o dei monaci, bensì quello dei cavalieri, il tempo dello Spirito Santo è qui il tempo della cavalleria” Tempo dello Spirito Santo e Tempio dello Spirito Santo qui coincidono nel “santuario acronico” del Graal
Ebbene, detto ciò, pur tenendo presente che il mondo degli imprestiti non “funziona” per l’architettura sacra perché il prototipo di ispirazione è sempre “Altrove”, valutiamo così la possibilità di individuare una architettura terrestre tanto vicina a quella “celeste” da poter costituire forse la traduzione più idonea (ma non esclusiva) del Tempio del Graal e che perciò rappresenta un esempio illuminante e un contributo concreto alla tesi che vuole la letteratura graalica fortemente condizionata da fonti mediorientali.
Siamo in Iran, in un territorio ai confini dell’Azerbaigian, un lembo di terra dove si dice che vi brilli la luce più bella del mondo
Questo territorio, già santo per la religione zoroastriana, perché in questa regione nacque e visse gran parte del tempo il fondatore della religione iranica, è contrassegnato dal puro fulgore del paesaggio. Il luogo sembra assumere gli aspetti evanescenti propri di un confine tra due mondi e, nel percorrere queste lande, il pellegrino abbandona lentamente il già rarefatto modo materico per avvicinarsi progressivamente alla dimensione della terra immaginale. Una terra quindi che rappresenta il più puro degli specchi terreni, un baricentro dove “mondo grossolano” e “mondo sottile” s’incontrano e dove il primo sembra trascolorare morbidamente nel secondo. Qui il viaggiatore è come accecato dalla sempre più accentuata trasfigurazione dei luoghi che sta attraversando; il mondo ha perduto la sua densità e il paesaggio è di tale adamantina purezza che i monti sembrano alleggerirsi del peso della materia e quasi galleggiare nell’aria trasparente. Gerhard de Borne ne scrive: “Qui, nel nord della Persia, l’eterica luce trasformò la superficie calcarea di onice del fantastico ovale del lago in un occhio cosmico che rifletteva il regno della purezza, cosicché queste cosiddette città della nascita di Zarathustra risultano essere come un qualcosa di immateriale e di apparentemente immobile nell’aria…”(Gerard Von Dem Borne: 1989,152).
All’apparente rarefazione materiale corrisponde la spontanea purificazione interiore di colui che si è spinto fino alle soglie della porta dell’Immaginale. Questa è una di quelle superfici lucide che fanno da specchio all’intermondo e sulla quale è stata edificata millenni fa la fastosa dimora di un “re sacerdote”, un prete Gianni o un suo antico emissario (Gerard Von Dem Borne: 1989,155).
Le attuali rovine del sito portano l’emblematico nome di Takl I Suleiman (il trono di Salomone), e questo toponimo porge un pieno riferimento al Tempio di Gerusalemme. Nella storia queste reliquie corrispondono all’antico santuario del fuoco mazdeo denominato Il Trono degli archi, costruito sulle montagne sacre di Shiz da re Choroe II, manufatto che fu successivamente distrutto dall’imperatore bizantino Eraclio II.
Lo studioso finlandese Lars-Ivar Ringbom ha affrontato il tema delle architetture circolari e del loro significato, in un documentatissimo libro dal significativo titolo Il tempio del Graal e il Paradiso, scritto risalente al 1951 e ancora fonte preziosissima di informazioni e tutto ciò nonostante i lustri trascorsi; ci si deve dolere pertanto dell’assenza di una traduzione italiana du questo lavoro. L’analisi del ricercatore ha riguardato molteplici edifici templari ma, per quanto riguarda il nostro argomento, egli si è particolarmente soffermato sulle rovine di questo luogo unico, comparando la pianta di questa costruzione, con quella descritta nel poema di Albrecht (von Scharfemberg) rilevandone sorprendenti analogie. Ringbom è stato uno storico dell’arte e quindi ha trattato la materia secondo l’ordine cronologico delle derivazioni e delle influenze che hanno determinato il risultato, lavorando quindi su un percorso di derivazioni “orizzontale”. Da parte nostra preferiamo attenerci alla concezione già enunciata ritenendo che entrambi i modelli, che Ringbom ha messo diacronicamente a confronto, siano derivati da un’architettura ideale, anzi ben di più: immaginale.
Questo, tuttavia, senza diminuire l’importanza di questa similitudine, che mostra come il tema della circolarità abbia toccato profondamente tradizioni spirituali all’apparenza molto lontane tra loro che si sono profondamente riflesse una nell’altra e questo nonostante la disparità degli exoterismi d’appartenenza.
Effettivamente la presenza di un lago d’acqua immobile posato su un catino d’onice, su cui si specchia il cielo tersissimo e giacente in una vasta conca pianeggiante, circondato da alte e immacolate montagne, si presta davvero alla piena attivazione dei dormienti sensi spirituali. Qui si possono percepire, in un paesaggio totalmente trasfigurato, ciò che è stato definita forma formante. perché è proprio per il tramite delle superfici lucide che la Realtà immaginale è in grado si specchiarsi nel mondo “opaco e denso”. È, quindi, come se si fosse aperto un passaggio tra lo zenit della percezione sensibile e il nadir di quella soprasensibile. Verosimilmente questo paesaggio visionario aveva rischiarato la mente dei poeti tedeschi nell’affrontare la loro materia, trasfigurandone la percezione intuitiva. Albrecth tradusse queste immagini in versi e descrisse perciò il grandioso tempio che si adagiava sulla montagna d’onice, in cui si trovava già tracciata, come fosse un castone, la pianta della dimora del Graal, concepita anch’essa come dimora di un re-sacerdote. I custodi del luogo erano anch’essi investiti di un doppio mandato, regale e sacerdotale, ed essi sono descritti, sia nel Parzival, che nel Nuovo Titurel, come austeri cavalieri che prestano servizio come officianti. In ragione di ciò sono chiamati assai significativamente Templeisen. Il loro nome e i loro compiti rimandano quindi, in maniera pressoché calligrafica, ai Templari anch’essi evidentemente custodi dei luoghi santi come già indicato in precedenza. Per questa serie di eccezionali similitudini, se non omologie, è da ritenere che, senza alcun dubbio, questo luogo, forse più di ogni altro e per quanto appena tratteggiato sul Prete Gianni, custode di quel Graal, di cui l’Occidente si è reso indegno, costituisca una sorta di tappa privilegiata, anche se certamente non facilmente accessibile, del percorso proposto.
Wagner e il Bayreuth Festspielhaus,
“Si potrebbe dire che là dove la religione diviene artificiosa, tocca all’arte salvare il nucleo della religione cogliendo nel loro valore simbolico i simboli mitici che per quella devono essere ritenuti veri in senso proprio. Al fine di far riconoscere mediante la loro rappresentazione ideale la profonda verità in essi nascosta (Richard Wagner)
Il percorso non è tuttavia concluso. Finora il nostro itinerario si è basato sui testi di una ristretta epoca ma in ulteriore decisivo contributo al tema lo si deve alla tetralogia del Wagner. È stato difatti questo compositore ad aver potentemente resuscitato le ierostorie graaliane in Occidente e in particolare il Parsifal, ultima sua opera nata, dopo una lunga e pensosa gestazione, nel pieno dell’ottocento positivista. L’ultima tappa, stavolta d’ordine cronologico, di questo sintetico e non esaustivo viaggio nei luoghi del “mito del Graal”, si conclude però in un teatro il Festspielhaus di Bayreuth che è un “tempio della musica”, come si usa dire enfaticamente per tutte le rappresentazioni musicali, piuttosto è davvero un “tempio” se lo si pone in relazione all’estetica wagneriana, propria della sua tetralogia, e lo è in particolar modo in relazione al suo Parsifal. “Suo” perché l’opera che Wagner propone può essere considerata una nuova versione del racconto, elaborato ovviamente in una forma estetica completamente diversa da quella dei suoi lontani predecessori medioevali dove, in luogo delle corti d’amore, Wagner concepisce una celebrazione pressoché liturgica degli eventi direttamente comparteciparti dal pubblico e in cui concorrono diversi elementi di cui ognuno è in funzione dell’altro.
Il Teatro (Festspielhaus) è componente essenziale nel progetto wagneriano, perché questo luogo di rappresentazione fu ostinatamente concepito per essere funzionale a un ripristino di una forma espressiva recuperata dal patrimonio della Grecia arcaica ma anche dalle forme “estetiche” di quei popoli non toccati o non influenzati dalla barbarie di un certo modello di forzata “civilizzazione”.
Una modalità di espressione spirituale definita “arte totale” recuperata dal teatro della Grecia arcaica.
L’“Arte totale” è funzionale a operare realmente in modalità catartica, trasmutativa, totalmente ben al di fuori dagli schemi dell’arte borghese di puro intrattenimento allora imperante, è l’arte come essa era nel momento antecedente il disorganico spezzettamento in espressioni singole, ognuna autonoma e separata dal resto. Un “organismo” che la storia ha parcellizato e in cui si avrebbe avuto la pretesa che ogni arte vivesse di vita propria staccata dal resto. Non si tratta evidentemente di sola “estetica. Il Festspielhaus di Bayreuth è, nella concezione wagneriama, un luogo sacrale e, se diciamo sacrale, lo diciamo a ragion veduta e nel senso profondo del lemma perché il compositore mutò il termine con cui si indicava la rappresentazione scenica da Bühnenfestspiel (festival scenico) a Bühnenweihfestspiel in cui appunto l’intermedio weih sta a indicare, secondo l’esatta espressione wagneriana, una “azione scenica di iniziazione”, una modalità privilegiata quindi per “rompere il tetto della casa” per dirla in maniera eliadiana [14]
Già questa cornice rende particolarmente ingeneroso il giudizio che Julius Evola, autore del Mistero del Graal, formulò sul musicista esprimendosi con queste parole:”Wagner ha preso degli spunti per formare arbitrariamente un mondo d’arte e di musica che […] fuorvia, più che non propizi, la comprensione vera dei significati più profondi celati nei miti e nelle leggende originarie”[15] È indubbio che Wagner, se prendiamo a specimen questa sua ultima opera, abbia attinto a tutte le fonti medioevali disponibile per costruire il suo dramma centrato sul Parsifal, compreso il Nuovo Titurel dell’Albrecth, privilegiando però il Parzival del conterraneo Wolfram Von Echembach, che, tuttavia, egli adattò a una sua visione cristiana, comunque “contaminata” rispetto all’ortodossia del cristianesimo e del cattolicesimo.
Del cattolicesimo difatti Wagner respingeva la dogmatica tanto che, proprio in relazione alla sua concezione dell'arte, intesa come nucleo operativo della religione in grado di vivificarne i simboli, altrimenti opachi, simboli, quindi, che possono essere “agiti” tramite l’arte e quindi partecipati direttamente nell’animo, senza mediazioni. Così si può legittimamente parlare di “gnosi wagneriana” (F. Zambon: 2023, 277).
Posto che il Parzival fu il testo guida di questo lungamente ruminato dramma teatrale è da rilevare che Wagner introdusse comunque numerose variazioni rispetto al testo wolframiano e alcune di esse sono davvero sostanziali e ne fanno quasi un “altro” testo. Mutò il nome Parzival in Parsifal per giustificare, con l’ausilio di una scorretta etimologia, il fatto che il giovane aspirante cavaliere dovesse essere considerato un “pazzo”, detto in termini spicci un “idiot savant”; del pari il nome di Anfortas si muta in Amfortas e la sua ferita non è più riferita all’inguine o comunque non la situa in prossimità dei genitali, espressione di una conseguita svirilizzazione che investiva in primis il piano spirituale della regalità, ma al costato. La lacerazione che fa si che Amfortas soffra indicibilmente ma non possa morire è quindi, nei fatti essa è accostata alla ferita del Cristo. La ferita di Amfortas sarà poi guarita dalla stessa lancia di Longino una volta che questa sarà immersa dallo stesso Parsifal nella lacerazione quasi una inversione della vicenda evangelica.
Fig.19
La lancia di Longino in una idealizzazione scenografica del Parsifal
Nella sua opera Parsifal, Richard Wagner identifica la Sacra Lancia con due armi che appaiono nel poema medievale Parzival di Wolfram von Eschenbach, e quindi una lancia sanguinante nel castello del Graal e la lancia che ha ferito il re Pescatore. La trama dell'opera racconta la decadenza dei Cavalieri del Graal come conseguenza della perdita della lancia e del suo recupero a opera di Parsifal, che ricostituisce così la salute e la potenza originaria dei Cavalieri diventando egli stesso Re del Graal. https://it.m.wikipedia.org/wiki /File:Richard_Wagner,_Parsifal,_Nur_eine_Waffe_taugt_(Arnaldo_Dell%27Ira_1903-1943).jpg pubblico fominio
Wagner interpretò quindi in maniera davvero personale il cristianesimo, elaborando un vero e proprio “Cristianesimo del Graal” in cui al suo interno si trovano conservati degli elementi magici, esoterici e per certi versi pagani e nordici non certo così distanti alla concezione "dionisiaca" di cui Nietzsche rimproverava invece l’assenza e, in qualche modo, fondò un vero e proprio proprio “nuovo” ciclo del Graal perché dopo secoli di quasi sopore del tema l’interesse per la “materia” vigorosamente riprese senza mai interrompersi giungendo in varie forme .fino ai nostri giorni.
Si diceva che i tratti del cristianesimo del Parsifal wagneriano non delineano una fisionomia che permetta che sia consideralo come un’opera strettamente devozionale, in quanto è indubbio che la sua narrazione delinei il profilo del Parsifal - il “casto folle” – come quello di colui che giunge a un livello di consapevolezza spirituale che può essere raggiunta solo con l’iniziazione alla “santità cavalleresca”. Una prova determinante è la circostanza che era d’uso, nelle iniziazioni cavalleresche, la prova di castità. La circostanza si mostra pienamente descritta nella scena in cui egli respinge la tentatrice Kundrie, cui lo stesso Amfortas aveva rovinosamente ceduto in precedenza. La lussuria non è il più grave dei vizi, piuttosto lo è la superbia, ma nella dimensione iniziatica accennata l’infrangere il “voto” di castità è un’infrazione dai risvolti davvero perniciosi e in cui la morale, così come essa è comunemente intesa, c’entra davvero ben poco. Un tema questo molto ben esaminato da Nuccio d’Anna nel suo scritto Il santo Graal (si vedano le pagine 93- 96), ma lo stesso può dirsi anche per Evola che, appunto, parla di “morte suggente che viene alla donna” come ostacolo assoluto, non tanto alla santità quanto piuttosto alla realizzazione spirituale. La caduta sensistica si verifica nel momento in cui il cavaliere cede all’impulso passionale e non resiste alla tentazione carnale, può dirsi, nella circostanza, che la donna “tentatrice” assolve alla funzione di “maestro”. Le forze scatenate dalla passione, opportunamente indirizzate, dovrebbero difatti offrire un veicolo di salvezza o, ancor di più, se sapientemente trattenute, un mezzo di realizzazione, altrimenti si trasformano in strumento di perdizione .[16]
Sarà proprio Kundrie a sollevare il velo che nasconde la verità facendo scorgere, in un momento drammaticamente topico, la celata sapienza wagneriana e ciò accade nel momento in cui Ella verrà presentata, non nella sua individualità attuale, ormai redenta, ma nelle individualità (reincarnazioni) assunte in passato (dai tempi di Cristo in cui la donna era nelle sembianze del blasfemo Assuero) che sono presentare simultaneamente da Wagner sulla scena. Sarà proprio la sua redenzione che innescherà il tema della acronicità temporale, che è presente in ulteriori circostanze nella sua opera, e non certo a caso. Questa particolare impostazione di pensiero deriva verosimilmente a Wagner dall’adesione alla filosofia di Schopenauer il quale aveva manifestato una forte inclinazione verso il buddismo. Tuttavia prescindendo dall’incompatibilità delle dottrine reincanazioniste - o su pitagoricamente di metempsicosi -, certamente incompatibili con il vero o presunto “devozionalismo” wagneriano, resta il fatto che la concezione temporale di Wagner rimane alquanto incomprensibile se non si cerca di scavare a fondo il tema come ha fatto H. Corbin che, non per nulla, è stato un grande apprezzatore di Wagner.
L’esempio citato non è unico nell’opera in quanto, detto fugacemente, in un altro passaggio del Parsifal si assiste alla compresenza di due Parsifal che rappresentano due momenti distanti della vita dl cavaliere. Si ha quindi un Parsifal “buono” e un Parsifal “cattivo”, entrambi compresenti. Infine c’è un’altra scena, forse la più commentata delle tre, in cui, la scenografia del teatro muta alle spalle di due personaggi, Gurnemanz (il più anziano dei cavalieri di Montsalvat) e Parsifal, i quali in quel momento occupano la scena. Entrambi, dialogando, rimangono sul palcoscenico a “recitare” come si può leggere in questo passaggio: “L’’interludio dell’Atto primo viene eseguito a sipario aperto durante il cambio di scena con Parsifal e Gurnemanz in movimento, fatto che provoca nel giovane la domanda: ‘Cammino appena / eppure mi sembra d’essere già lontano, cui segue la celebre risposta del cavaliere: Vedi figlio mio qui il tempo si fa spazio” (Giangiorgio Satragni p. 149).
Cosa può significare quanto si è descritto. Nella brevità di un esposizione come questa non si può commentare più di tanto, però è da notare come Corbin abbia coinvolto tutta la sua erudizione per dare senso compiuto a questo fondamentale passaggio, chiave di volta per comprendere anche i precedenti, e fornisce questa folgorante esplicazione: “Ma, a qualunque livello lo si consideri, resta che lo spazio offre l’ordine del simultaneo e dello stabile, mentre il tempo a livello fisico è essenzialmente l’ordine del successivo e dell’instabile (in questo senso quindi lo spazio offrirebbe una condizione ‘privilegiata’ n.d.r.). Pertanto, ogni involuzione di questo tempo, ‘ripiegandolo’” nel livello superiore, conduce alla cessazione di questa instabilità, a stabilizzare” dando così senso intellegibile alla frase del libretto wagneriano sopra evidenziata in cui sembra descriversi la circostanza che nello spazio scenico il tempo possa essere portato a una sorta di “ottava superiore”, evento che potremmo di nostro definire come il “tempo del Graal”, una temporalità in cui ci si è già imbattuti durante la prigionia di Giuseppe di Arimatea ma che è presente anche nel Merlino presentato come puer senex in de Boron (H. Corbin: IV, 2020,190, F. Zambon 2023,121.123 ).
La conseguenza è quindi evidente e nel richiamare le caratteristiche del Teatro Wagneriano, vero arhanor trasmutativo di un pubblico sacralmente investito e del retrostante concetto di “arte totale”, in cui la componente musicale accortamente evocatrice gioca un evidente ruolo fondamentale attraverso l’”astuzia” di nascondere l’orchestra “annegandola” sotto il palco immettendo tutto il pubblico presente nella platea (il teatro wagneriamo è senza palchi) direttamente nella scena. Si può senz’altro affermare che, attraverso quanto descritto, Wagner stacchi volutamente - e quindi coscientemente - il Parsifal da qualsiasi inquadramento “storico” (seppur di “fantasia” storica) per narrare di quelle vicende in forma ierostorica, come suggerito da Corbin all’esordio di questo lavoro. Ci sta quindi tutta l’affermazione di Claude Levy Strauss, secondo cui la sopratacitata frase di Gurnemanz rappresenta “probabilmente la definizione più profonda che sia mai stata data del mito”.
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Piere Ponsoye; L'Islam e il Graal. Studio sull'esoterismo del Parzival di Wolfram von Eschenbach SE Milano
Claudio Rendina Le chiese di Roma Newton & Compton, Roma
Claudio Risé: La gnosi del Parsifal e l’esperienza delle corti d’Amore PDF dell’università degli studi di Trieste
Gorgio Satriani: Il Parsifal di Wagner, Edi, Torino, 2017
Gerhard vom dem Boeme: Il Graal in Europa, Ecig, Genova. 1989
Tommaso Palamidessi Esperienza misterica del Santo Graal - Quaderno di Archeosofia n.18
Implantation en Brocéliande des romans de la Table Ronde – 1 gennaio 1970 Edizione Francese di Recteur de Tréhorenteuc (Autore)
Francesco Zambon: Metamorfosi del Graal, Carocci editore, Roma 2023
Appendice bibliografica su Brocelandia
I sedici primi fascicoli de Œuvres complètes du recteur de Tréhorenteuc sono dedicate alla riedizione del fascicoli originali apparsi vivente l’abbé Gillard. La numerazione attuale non tiene conto dell’ordine di apparizione iniziale.
- n°1 : — GILLARD, abbé Henri, Les Mystères de Brocéliande, Vol. 1, 1953, Abbé Rouxel, 1980, 46 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°2 : — GILLARD, abbé Henri, Les Conventions artistiques, Vol. 2, 1963, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 46 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°3 : — GILLARD, abbé Henri, Symbolisme et Mystique des Nombres en Brocéliande, Vol. 3, 1956, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 90 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°4 : — GILLARD, abbé Henri et DRIOTTON, Etienne, Le Secret du Zodiaque, Vol. 4, 1959, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 98 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°5 : — GILLARD, abbé Henri, La Mystique des Nombres dans les Beaux-Arts, Vol. 5, 1955, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 65 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°6 : — GILLARD, abbé Henri, Néant-sur-Yvel, Vol. 6, 1955, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 48 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°7 : — GILLARD, abbé Henri, Curiosités et légendes de la forêt de Paimpont, Vol. 7, 1955, Ploërmel, les Éditions du Ploërmelais, 1980, 55 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°8 : — GILLARD, abbé Henri, Tréhorenteuc-Comper-Paimpont, Vol. 8, 1959, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 50 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°9 : — GILLARD, abbé Henri, Le Secret de Carnac et de Locmariaquer, Vol. 9, 1961, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 37 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°10 : — GILLARD, abbé Henri, Ploërmel et ses curiosités, Vol. 10, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 47 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°11 : — GILLARD, abbé Henri, L’Évangile dans les musées nationaux, Vol. 11, 1971, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 87 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°12 : — GILLARD, abbé Henri, Les Épîtres dans les musées nationaux, Vol. 12, 1971, Ploërmel, Le Ploërmelais, 1980, 63 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°13 : — GILLARD, abbé Henri, Vérités et légendes : l’église de Tréhorenteuc, Vol. 13, 1971, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 47 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°14 : — GILLARD, abbé Henri, Implantation en Brocéliande des Romans de la Table Ronde, Vol. 14, 1972, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 44 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »), Voir en ligne. —
- n°15 : — GILLARD, abbé Henri, L’église de Néant-sur-Yvel, Vol. 15, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, 34 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
- n°16 : — GILLARD, abbé Henri, Le Zodiaque : ses Signes, les Nombres Sacrés et les Idéogrammes, Vol. 16, 1976, Josselin, Abbé Rouxel, 1980, («Œuvres complètes: le recteur de Tréhorenteuc »). —
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- Nel periodo 1985- 1987 vengono pubblicate quatro opere inedite
- Le n°17-18, publié en 1985 comprend des développements inédits de la brochure l’Évangile dans les Musées Nationaux ainsi que quelques textes concernant l’église de Néant sur Yvel.
- n°17-18 — GILLARD, abbé Henri, Interprétations des Tableaux Religieux, Vol. 17-18, Josselin, Abbé Rouxel, 1985, (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc»).
- Le n°19, publié en 1987, comprend deux textes inédits permettant de visiter l’église de Tréhorenteuc ainsi que de nombreuses reproductions couleurs des œuvres qui s’y trouvent
- n°19 : — GILLARD, abbé Henri, L’église de Tréhorenteuc, Vol. 19, Josselin, Abbé Rouxel, 1987, 61 p., (« Œuvres complètes : le recteur de Tréhorenteuc »). —
[1] A proposito di lancia sembra opportuno aggiungere questa annotazione. La lancia di Longino, quella che aprì il cuore del Cristo e che in un comprensione pneumatica ’del fondamentale evento, opera una lacerazione che dischiuse l’occhio del cuore ovvero della cardiognosis. L’apertura di questo occhio interiore sembra che corrisponda a quella esperienza interiore che Dante descrisse come “risvegliò la mente che dormia”. In effetti è lo stesso Charbonneau Lassay a indicare la relazione tra mente e cuore ponendo in evidenza l’antica statua di Re Chefren dietro la cui nuca il falco divino, teofania di Horus, viene mostrato mentre fa aderire il suo cuore al cervello (nella regione occipitale della fontanella) del faraone, volendo così indicare che l’azione del mediatore par excellence è influenzata dall’ispirazione soprannaturale. La comprensione del significato della formazione della croce esadirezionale non è possibile in questa sede, per conseguenza si rimanda al sapiente libro di Claudio Lanzi. Misteri e Simboli della Croce.
[2] Continuiamo in nota la descrizione della venerabile vetrata. Sulla fascia sotto la croce sono rappresentati, da sinistra a destra, l'angelo che annuncia alle sante donne la Risurrezione di Gesù, il sepolcro vuoto e il sudario, Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo, e Salomè che si recano al sepolcro la mattina presto con gli aromi. Più in basso, sulla croce capovolta, è crocifisso San Pietro. Il Venerdì Santo era fuggito. Ciononostante, molti anni dopo, divenne il perfetto discepolo che seguì il suo maestro fino a dare la propria vita. Sulla vetrata, la croce di San Pietro è l’immagine specchiata della croce di Gesù. E le due croci si incontrano nel sepolcro, a significare così l'unione del maestro con il discepolo nella sofferenza per fecondare la Chiesa nascente. A sinistra della croce di San Pietro, vediamo lui al momento dell’arresto, a destra della croce, c’è il martirio di San Paolo. Infine, nella parte inferiore della vetrata, i committenti hanno voluto essere rappresentati. Quindi, le due teste coronate sono quelle di Eleonora d'Aquitania, divenuta regina d'Inghilterra, e del suo nuovo marito, il re Enrico II Plantageneto, che ha da poco conquistato l'Inghilterra. Sono circondati dai loro figli. Sopra i bracci della croce, ci sono solo dieci apostoli perché San Giovanni è già vicino alla croce e Giuda è morto. Questi dieci apostoli, però, non guardano verso la croce da cui sono fuggiti, ma verso il Cristo in gloria che è in alto nella vetrata. Sono testimoni dell'Ascensione di Gesù.
[3] Chrétien introdusse nella letteratura i personaggi di Lancillotto e Perceval, ma soprattutto immise nel romanzo arturiano il Santo Graal. Le opere di Chrétien, tra cui Erec e Enide, Lancillotto o il cavaliere della carretta, Perceval o il racconto del Graal e Yvain il cavaliere del leone, sono tra le più apprezzate della letteratura medievale. Il suo uso della struttura, in particolare nel poema di Yvain, è stato visto dagli studiosi odierni come un passo verso il romanzo moderno. Chrétien a tutt'oggi viene considerato il poeta medievale più famoso prima di Dante Alighieri. (da Wikipedia)
[4] Nella foresta di Brocelandia si trovano diversi luoghi che la letteratura medioevale e poi il folklore collegano a episodi salienti della vita di Merlino e in particolare al suo amore per Viviane. Così’ nei luoghi ci si imbatte nella “Fontana della Giovinezza” o “Fonte di Viviana” e nella “Fonte magica di Barenton”: la leggenda narra che proprio qui Merlino abbia incontrato Viviana per la prima volta. In prossimità della fonte è anche presente nonché la “Tomba di Merlino” Verosimilmente le rivelazioni di Merlino al monaco Blaise avvennero nelle oscure foreste della Northumbtia ma identico è il senso riservato dell’insegnamento
[5] Montsegur entra a buon diritto nelle sedi dove è stato conservato il Graal facendo parte di quella costola narrativa definita il graal pirenaico. I Catari, nei loro documenti, si dichiaravano Cristiani e furono oggetto di una violentissima crociata, indetta da papa Innocenzo VIII, crociata quindi di cristiani contro cristiani, Secondo il celebre Otto Rahn tale sanguinosa persecuzione costituì una crociata contro la gnosi e per questo battezzò il libro frutto delle sue ricerche sul tema “Crociata contro il Graal” (la vicenda meriterebbe una scheda a sé). I Catari, ricordiamo costituiscono per “tutti” una pestifera eresia e questo anche per autori, come lo Zambon, che non respinge affatto la presenza di un esoterismo nel cristianesimo anzi decisamente propende per il contrario. Eccezione a tutto ciò è Henry Corbin che scrive, in una bella pagina dedicata alla dualitudine - e quindi al tema dell’antropologia spezzata dell’uomo - queste parole: “Una simile ontologia dell’anima è conosciuta ben aldilà dei confini dell’Iran; una stessa visione “sofianica” era nota ai Catari neo manichei, come a Novalis e a Bohme. Si tratta probabilmente di una concezione fondamentale per la religione gnostica ubique et semper (:2015 337). Detto così la persecuzione gnostica dei Catari, prospettata dal Rahn come “crociata contro il Graal” possiede dei caratteri di verosimiglianza.
[6] Stabilire concordemente il risultato della interpolazione del brano giovanneo potrebbe avere effetti davvero “rivoluzionari” in quanto si ammetterebbe che l’evangelista Giovanni ha liberamente parlato della presenza di un intero discepolato occulto direttamente istituito da Gesù Cristo, un discepolato che va ben oltre la Chiesa petrina ricomprendendola senza affatto rinnegarla.
[7] H. Corbin indica in Giuseppe di ArImatea il primo vescovo cristiano (H. Corbin: 1983, 240) ma poi menziona anche il figlio dello stesso, Joséfès identicamente quale primo vescovo Al fine di evitare fraintendimenti riportiamo un passo esplicativo dello stesso Corbin: ”Identificato con il calice dell’Ultima Cena, consegnato a Giuseppe di Arimatea, il quale vi aveva raccolto il sangue di Cristo, il Sacro Vaissel è portato nell’Isola Bianca (vale a dire la gran Bretagna) da un gruppo di misteriosi messaggeri alla cui testa, a seconda dei momenti del ciclo, vi è (in Robert le Baron) il cognato di Giuseppe di Arimatea, Bron , che riceve la prima regalità del sacro Lignaggio, oppure (nel Lancillotto in prosa) il figlio di Giuseppe di Arimaeta Joséfès, mistica figura di primo e unico vescovo cristiano “ (H Corbin: 2015,183)
[8] Anche Giacomo nel giudeo cristianesimo sarebbe stato il successore di Cristo e quindi il primo vescovo antecedentemente alla Chiesa di Roma. Abbiamo parlato del tema nel nostro Gnosi protocristiana.
[9] Pur non trascurando nel suo testo la coppa eucaristica Gualtiero Map (pseudo) autore de La Queste de Saint Graal introduce una variante definendo graal “la scodella in cui Gesù Cristo mangiò l’agnello il giorno di Pasqua con i suoi discepoli” (Charbonneau Lassay: 1995 p.178)
[10]Un inciso, ma un inciso importante. Com’è noto il Parzival di Von Echembach fa riferimento a una pietra ricavata dalla fronte di Lucifero (il terzo occhio o occhio dell’eternità) in luogo della coppa perché essa esprime la visione acronica del tempo. L’argomento meriterebbe un ampio sviluppo ma non è questa la sede per discernere. Di questa simbologia esiste una variante “mista”, ovvero una coppa che contiene al suo interno una gemma rossa (le pietre rosse sono: rubino carbonchio,ematite corniola, diaspro sanguigno) a evocare quindi il sangue di Cristo (lo smeraldo, com’è noto, è invece verde) . Si tratta di una simbologia particolarmente coltivata da un confraternita cristiana che su denominava “Estoile internelle”
[11] Del passaggio di Giuseppe nei luoghi rimarrebbe traccia fisica nel Biancospino di Glastonbury, detto anche la “Spina Santa“: nato dal bastone di Giuseppe di Arimatea piantato al suolo dopo il suo sbarco dalla nave. Questo biancospino nasce solo nei circondari di Glastonbury e fiorisce due volte l’anno. Una spina viene tagliata per ornare la tavola di Natale della Regina. Questa pianta fu tanto famosa da divenire meta di pellegrinaggio nel medioevo, ma venne poi distrutta durante la Guerra civile inglese da un parlamentarista, che fu accecato da una scheggia per aver compiuto il gesto
[12]Sull’“ecumenicità” di tale cavalleria si è espresso già da tempo e con vigore Julius Evola che scrive “Ora nel ciclo del Graal abbiamo qualcosa di simile alle “intese” prese in questo senso di comprensione supertradizionale, nella forma di mescolanza di elementi arabi pagani e cristiani. Wolfram -si è visto- finisce con l’attribuire ad una fonte “pagana” il racconto del graal trovato da Kyiot. Del pari, si è visto che il Padre di Parsifal, benché cristiano, non sente nessuna ripugnanza a combattere agli ordini dei principi saraceni (e su questo aspetto il D’Anna ha scritto convincenti pagine che ampliano e integrano le valutazioni dell’Evola n.d.r.) che lo stesso Giuseppe di Arimatea ci viene descritto come fruente del Graal, ancora prima di venire battezzato, che lottarono per il Graal cavalieri non solo cristiani ma anche pagani, che il pagano Feirefiz fu anzi sul punto di dimostrarsi alla prova delle armi, di più del suo fratello cristiano e, in ogni caso, già prima del battesimo entrò a far parte dei cavalieri di re Artù. (da Evola: 1962,149)”. In ragione di ciò c’è veramente da sottoscrivere l’affermazione dell’Evola che il testo del Wolfram è nettamente antisettario e a questo punto. anche se si rischia di essere prolissi. ci sentiamo di aggiungere che il termine “ecumenismo” dovrebbe riferirsi alla sola famiglia delle religioni cristiane ma, come polemicamente sottolinea il saggista Nicola dalla Porta Xidias: “uno sguardo un po’ più ampio, conscio dei tesori di santità che nel corso dei secoli e nelle diversità delle genti sono fioriti nel mondo, non può non volerlo allargare alla Verità che trabocca da tutte le grandi religioni tradizionali. Cardiamo che la visione ristretta, tuttora molto diffusa nell’ambito della Chiesa, derivi essenzialmente dalla mancanza quasi completa ….di conoscenza e di capacità di trasposizione da un linguaggio e da un simbolismo all’altro, di tutto quello che concerne l’essenza delle religioni non cristiane qualificate ‘naturali’ od addirittura ‘pagane’, come se non fossero anch’esse alla ricerca e al servizio di quello stesso Dio assoluto e infinito, e dettate da una Parola trascendente alla diversità dell’umanità cui s’indirizzano” (: 2003:551-552) .
[13] Giustifichiamo l’affermazione con questo inestimabile brano di Henty Corbin: “Dio riempì dell’intelletto un grande cratere e lo mandò quaggiù, assegnandovi un araldo al quale ordinò di annunciare le seguenti parole ai cuori degli uomini:’ Tu che puoi, immergiti in questo cratere, tu che credi che risalirai verso Colui che ha inviato quaggiù il Cratere tu che conosci per quale fine sei nato. Dunque coloro che compresero il messaggio e si sono battezzati con l’intelletto ebbero parte della conoscenza (gnosi) e divennero uomini perfetti, avendo ricevuto l’intelletto.[…] L’araldo invita al battesimo, nel cratere inviato sulla terra, tutti coloro che sono atti a comprenderne la missione” (H. Corbin:2015, 167, 168). Alla luce di queste osservazioni, che riconducono decisamente all’ermetismo, la partecipata visione del Graal da parte di Feirefiz dopo il “battesimo”, è perfettamente coerente.
[14] Informazioni dettagliate sul tema possono trovarsi in Pierluigi Gallo Ziffer L'Opera d'Arte Totale nella musica di Richard Wagner nel sito della Fondazione Lanzi e in Giangiorgio Satragni Il Parsifal di Wagner.
[15] Evola, sull’onda dell’indignazione di Nietzsche, condusse una vera e propria guerra a Wagner non solo esprimendosi in termini negativi, anzi sprezzanti nei suoi confronti nel corpo del suo libro il Mistero del Graal ma anche in articoli pubblicati da diversi giornali del’ipoca con cui il “filosofo” collaborava, ovvero: “Il popolo di Roma “, “Il regime fascista” il “Corriere padano”. Per maggiori riferimenti sl consulti: Andrea Scarabelli Vita avventurosa di Julius Evola p. 640 nota 20.
[16]In ogni caso si rispecchia la dimensione bernardiniana che è radice della legittimazione della guerra santa. San Bernardo esprime il concetto con queste parole “Inutilmente infatti attacchiamo i nemici esterni se prima non abbiamo sottomesso quelli interni. Ed è vergognoso e indegno volere comandare una qualunque armata di uomini se prima non abbiamo sottomesso i vostri corpi”