Introduzione
Questo saggio, qui riproposto con correzioni e modifiche ma soprattutto ampliamenti, è stato pubblicato nel Settembre 2025 come contributo al testo di Anna Bellon Il Libro di San Michele, edizioni Psiche2 di Torino, testo di grande interesse per la ricchezza di documentazione originale sul culto dell’Arcangelo. Ritengo che il lavoro possa contribuire agli studi su due oggetti di grande venerazione per il mondo cristiano, anche se la Chiesa non li riconosce come reliquie a tutti gli effetti, la Sindone e il mandylion o “velo della Veronica”; partendo da qui, e con le dovute cautele, ho formulato ipotesi su quella che chiamo la “metafisica templare” e sulle due forme nelle quali potrebbe essere presentarsi.
L’impostazione è volutamente di carattere storico, perché a mio parere spetta al singolo individuo scegliere nei confronti di questi oggetti tra l’aspetto puramente storico dell’argomento o l’accettazione di tali oggetti con un atto di Fede.
PARTE PRIMA
Paolo Galiano
A Martinafranca (TA) esiste un singolare complesso denominato Conservatorio di Santa Maria della Misericordia, o più semplicemente “delle Monacelle”, che ospitava giovani donne prive di mezzi di sostentamento costituite in seguito come ordine di monache laiche di stretta clausura, ordine tollerato ma non riconosciuto dalla Chiesa di Roma[1]. Il Conservatorio venne fondato da Aurelia Imperiali (1646-1735) duchessa di Martina Franca[2] e vedova di Petracone V Caracciolo, 8° Duca di Martinafranca, la cui famiglia era imparentata con la casata dei De Sangro. In questo Conservatorio venne portata nell’800 un’immagine conosciuta come “Volto Santo” FIG. 1, copia[3] del “velo della Veronica” conservato nella Basilica di San Pietro, raffigurante il volto di un uomo, identificato con il Cristo, con il mento ornato dalla barba e da due ciocche di capelli (il che dà l’impressione di una barba tripartita) e con gli occhi rivolti in basso e le palpebre abbassate, da cui sembrano uscire lacrime.

Fig. 1: Il “velo” del Volto Santo del Conservatorio delle “Monacelle” a Martinafranca (foto: Roberto Falcinelli, da www.veronicaroute.com s. v.; il sito “Veronica route” è un’eccellente raccolta di immagini del mandylion, da visitare per il gran numero di informazioni in esso contenute sulle singole immagini).
Le immagini del Cristo non sono rare, esse ci sono pervenute in due forme: o su di un grande telo o lenzuolo, noto come Sindone, di cui quella di Torino è la più conosciuta, o su una stoffa della grandezza di un fazzoletto, il mandylion o “velo della Veronica”. Riassumerò brevemente la storia di queste due icone, senza entrare nel merito della loro autenticità e quindi del loro essere reliquie o meno, non avendo alcuna competenza come “sindonologo”, prima di prendere in esame l’ipotesi avanzata da diversi medievalisti circa l’esistenza di un possibile rapporto tra Sindone/mandylion e l’Ordine del Tempio.
La Sacra Sindone
La Sacra Sindone è, con il Santo Graal, uno dei simboli più conosciuti del cristianesimo: se sia veramente il lenzuolo che avvolse il Cristo nella tomba costituendo così un simbolo miracoloso della Passione e Resurrezione, non ho le conoscenze sufficienti per pronunciarmi, per cui rinvio alla copiosa documentazione sull’argomento[4].
La Chiesa cattolica la considera un’icona degna di essere oggetto di venerazione pur non affermandone esplicitamente l’autenticità:
La Chiesa come istituzione non ha mai avallato ufficialmente l'ipotesi dell'autenticità, sebbene nel corso del XX secolo diversi pontefici hanno espresso la loro personale opinione favorevole[5] … La Chiesa autorizza la venerazione della Sindone perché la considera soprattutto "icona della Passione di Gesù" … Tale termine è denso di significato spirituale mentre per molti purtroppo equivale al concetto di "dipinto". Le chiese protestanti, invece, considerano la venerazione della Sindone, così come per le reliquie in genere, una manifestazione di religiosità popolare di origine pagana.[6]
Della Sacra Sindone esistono 52 esemplari, ma di questi 27 sono copie eseguite dopo il contatto del telo con quello di Torino e recano una data scritta sulla stoffa, molte delle altre sono pitture su tela di cui è possibile rintracciare una documentazione e per tale motivo l’immagine è evidente anche sul lato esterno del telo, mentre nella Sindone di Torino non sono state rintracciate tracce di pittura e l’immagine non compare sull’altro lato. Per quanto concerne altre Sindoni, il c. d. “sudario di Oviedo” è un telo di piccole dimensioni con il solo volto visibile, quindi è affine più al mandylion che alla Sindone di Torino, mentre più interessante è la Sindone di Besançon, di cui saranno date notizie più avanti, in quanto la sua documentazione, qualora fosse autentica[7], consentirebbe di riempire il vuoto temporale tra il sacco di Costantinopoli avvenuto con la IV Crociata nel 1204 e la comparsa della Sindone a Liery, poi trasferita a Torino.
Per quanto concerne la storia della Sindone, occorre precisare che in nessuno dei Vangeli canonici si parla di un’immagine impressa su di un sudario, anche se è descritto un “lenzuolo funebre” in cui il Cristo fu avvolto per la sepoltura nel Vangelo di Marco (XV, 46): “Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio … comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia”. Nel Vangelo di Giovanni (XX, 6-7) è specificato che dopo la Resurrezione esso venne trovato “ripiegato”: “Simon Pietro che lo seguiva [= Giovanni] entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che era stato posto sul capo di Gesù, non per terra con le bende ma piegato in un luogo a parte”. Nel Vangelo di Giovanni viene adoperata invece di “lenzuolo” (nella traduzione greca σινδών) la parola “sudario” (σουδάριον) ma, come in Marco, non vi è alcun cenno a immagini impresse su di esso, fatto che avrebbe pur dovuto colpire i discepoli e quindi essere trasmesso oralmente ai neofiti.
La distinzione fra i due termini è a mio avviso importante: σινδών è propriamente un lenzuolo mentre σουδάριον indica “un fazzoletto o una stoffa per asciugare il sudore dalla faccia e per pulire il naso ed anche usato per fasciare la testa di un cadavere”. A differenza dei Vangeli di Matteo, Luca e Marco, tradotti dall’ebraico in greco e quindi soggetti a possibili imprecisioni nella conoscenza della lingua da parte del traduttore, quello di Giovanni è scritto originariamente in lingua greca e quindi il suo autore doveva conoscere la distinzione tra i due termini, e questa differenza induce a ritenere che, qualora fossero autentiche, due sarebbero le immagini miracolose del Cristo che ci sono giunte, cioè la Sindone e il mandylion o “velo della Veronica”. Questa terminologia è alla base delle successive testimonianze, le quali a volte non danno modo di comprendere se si stia parlando di un lenzuolo o di un panno, per cui le storie della Sindone e del mandylion si intrecciano.
Riassumendo brevemente quanto è possibile estrarre da testi scritti fra il VI e il XIII secolo abbiamo la seguente possibile sequenza storica, nella quale sono evidenti le discrepanze tra le diverse testimonianze: dopo la Resurrezione del Cristo, la Sindone, conservata dalla primitiva comunità cristiana, sarebbe stata tenuta nascosta a causa delle persecuzioni, argomento che mi sembra possa essere valido fino all’Editto di Milano del 313, quando il cristianesimo divenne religio licita e non più superstitio illicita, o all’Editto di Tessalonica del 380, dichiarazione del cristianesimo come religione di stato, ma tra il IV e il VI secolo, non ostante ormai il cristianesimo si sia affermato, mancano dati riguardanti sia la Sindone sia il mandylion.
Solo nel 544 si ha notizia della venerazione di un’immagine sacra del Cristo nella città di Edessa in Turchia (odierna Urfa), dove era ancora presente nell'VIII secolo secondo il cod. Vossianus Latinus Q69, in cui si descrive un telo venerato a Edessa su cui era presente l'immagine del corpo di Gesù.
Fra il 679 e il 688 un vescovo delle Gallie, Arculfo, vede la Sindone a Gerusalemme secondo manoscritti del De locis sanctis libri tres del IX sec. Nel 944, quando Edessa viene conquistata dal sultano Baibars, i bizantini trasferirono l’immagine a Costantinopoli, accolta con grandi festeggiamenti il giorno 15 di Agosto, dove venne vista nel X secolo da Gregorio arcidiacono di Costantinopoli (cod. Vaticano Greco 511).
In seguito la Sindone sarebbe stata venerata nel 1147 da Luigi VII di Francia a Costantinopoli e nel 1171 Manuele I Comneno la mostrò ad Amalrico I, re dei Latini di Gerusalemme. Nel 1204 Costantinopoli viene saccheggiata dai crociati e dai veneziani del doge Enrico Dandolo nel corso della IV Crociata e si perdono le tracce della Sindone fino al 1353, ma non vi sono elementi certi per spiegare come essa sia poi giunta in Francia, a meno che, come ipotizza lo Wilson, per un secolo non fosse rimasta in possesso dell’Ordine del Tempio, argomentazione di cui mancano le prove certe.
L’intervallo temporale tra il 1204 e il 1353, cioè fra il saccheggio di Costantinopoli e la comparsa della Sindone a Liery può forse essere riempito da una notizia che può farsi risalire al 1205 (sempre che non sia un falso di epoca posteriore), secondo cui il telo poi divenuto noto come Sindone di Besançon sarebbe stato posseduto da Ottone de la Roche duca di Atene, che aveva partecipato alla IV Crociata. La notizia sarebbe confermata dalla copia della c. 126 del Cartularium Culisanense[8], ritrovata da don Pasquale Rinaldi[9] di Napoli nell’archivio ecclesiastico della chiesa cinquecentesca di Santa Caterina a Formiello (NA), contenente una lettera in lingua latina datata al 1° di Agosto di Teodoro Angelo Ducas Comneno, cugino di Isacco II Angelo, l'imperatore detronizzato dai Crociati nel 1204, riporta le lamentele dell’autore della missiva con Papa Innocenzo III in quanto dopo il saccheggio “questi oggetti sacri sono conservati a Venezia, in Francia e negli altri paesi dei saccheggiatori e che il santo Lenzuolo si trova ad Atene”[10]. Ottone donò a suo padre l’icona e questi l’avrebbe portata a Besançon, dove andò distrutta in un incendio per ricomparire nel 1523 ed essere sicuramente e definitivamente distrutta durante la Rivoluzione Francese.
Di quella che sarà ls Sindone di Torino si hanno notizie storicamente certe a partire dal 20 Giugno 1353, data in cui un cavaliere, Geoffrey de Charny, aveva fatto erigere una chiesa per conservarla ed esporla nel paese di Lirey, situato nell’est della Francia. Nel 1453 la Sindone venne venduta ai Savoia, che la custodirono prima a Chambery e poi a Torino ove, com’è noto, tutt’ora si trova.
Il “velo della Veronica” (mandylion)
La Veronica del “velo”, nome di cui ormai si considera superata la pseudo-etimologia da “vera icona” ma che costituisce la corruzione del greco Berenice “Portatrice di vittoria” (nome che si ritrova in alcuni apocrifi neotestamentari in lingua greca), è identificata, ma solo in alcuni testi apocrifi, con l’emorroissa guarita dal Cristo di cui parlano i Vangeli, nei quali è però anonima.
Delle numerose immagini del “velo della Veronica” che sono tutt’oggi esistenti alcune sono sicuramente copie di età posteriore, spesso dipinti su tavola come l’immagine di Templecombe (Inghilterra) di cui dirò più avanti, ma in sei casi si tratta di immagini su stoffa: è da notare che mentre in tutte e sei il volto ha gli occhi aperti solo uno, il “velo” di Martinafranca, ha gli occhi chiusi, come si vede nella Sindone di Torino.
I sei “veli della Veronica” su stoffa sono quello del Monastero della Santa Faz di Alicante (comparso in Spagna nel 1489[11], nel quale è visibile quella che sembra una lacrima che scende dall’occhio destro, particolare presente nel “velo” di Martinafranca), della Cattedrale di Jaén in Spagna (di cui si ha notizia dalla fine del XIV sec., considerato copia del mandylion della chiesa di San Silvestro a Roma[12]), della chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni a Genova (secondo la leggenda donato a Leonardo Montaldo, poi Doge di Genova, da Giovanni V Paleologo nel 1362), della chiesa di S. Silvestro a Roma (la cui prima citazione è del 1517).
Un discorso a parte richiedono gli ultimi due, il “velo” della Basilica di San Pietro a Roma e quello della chiesa di Manoppello in provincia di Pescara, per la loro particolare storia e il supposto rapporto che esisterebbe tra di essi.
Il “velo” conservato a San Pietro FIG. 2a FIG. 2b è stato descritto nel 1907 come “un pezzo quadrato di stoffa leggermente colorata, alquanto scolorita dall'età, che porta due deboli macchie marrone-ruggine, unite l'una all'altra”[13]. La sua storia è interessante, in quanto la documentazione dimostra come esso si trovasse a Roma prima del sacco di Costantinopoli del 1204: intorno all’anno 1000 già esisteva a Roma una chiesa, Santa Maria del Presepe, a cui era dato il nome di “Santa Maria della Beronica” (=Veronica), forse perché in essa era custodito il “velo della Veronica”[14]; di sicuro esso era a Roma nel 1208, quando papa Innocenzo III istituì la processione in cui veniva mostrato ai fedeli il “velo della Veronica” nella domenica successiva all’Epifania, per destinare le offerte dei pellegrini all’Ospedale di Santa Maria in Saxia, oggi Ospedale di Santo Spirito[15] e Dante ricorda l‘ostensione del Volto Santo di Roma ne La vita nuova. XL 1: “Molta gente va [a Roma] per vedere quella immagine benedetta, la quale Gesù Cristo lasciò a noi per esempio della sua bellissima figura”. Ancora oggi avviene l’ostensione dell’immagine nella V Domenica di Quaresima dalla Loggia della Veronica in San Pietro.
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Il Volto Santo di Manoppello FIG. 3, secondo la storia riportata dal cappuccino padre Donato da Bomba nella sua Relatione historica[16], sarebbe il “velo della Veronica” che era in San Pietro, che venne rubato durante i lavori di ricostruzione della Basilica nel 1506 e a seguito di una serie di eventi venne donato nel 1638 da tal Donato de Fabritiis alla chiesa di Manoppello.

Fig. 3: Il volto del mandylion di Manoppello (PE) (da www.ilvoltosanto.it)
Il “velo” è esposto tra due vetri sopra l’altar maggiore della chiesa, si tratta di un rettangolo di stoffa sottilissima su cui si vede distintamente un volto simile a quello che la tradizione cristiana vuole sia il viso del Cristo, la stoffa è così sottile che l’immagine è visibile con eguale aspetto sia che lo si guardi da davanti che da dietro per l’estrema sottigliezza del telo di lino su cui è dipinto, come descritto in un recente studio sull’analisi delle immagini digitali:
Due immagini molto simili sono visibili — una visibile dal davanti e l’altra posteriormente ... [In conclusione] il velo di Manoppello è un’opera unica nel panorama della storia dell’Arte dedicate alla Passione del Cristo. Un’analisi dei pochi dati sperimentali disponibili di quest’icona ha chiarito alcuni aspetti del possibile meccanismo fisico sottostante il suo inusuale comportamento ottico e la probabile struttura del materiale di cui è composto. Esso sarebbe un telo di lino consistente di una trama veramente sottile, spessa 0,1 mm separata da una distanza [di vuoti] doppia, cosicché il 42% del velo consiste di spazi vuoti. Le fibre di lino sono probabilmente fissate con amido. Questa particolare struttura renderebbe la sottile trama di fibre traslucida al passaggio della luce visibile [in quanto con una luce diretta l’immagine non è più visibile][17].
La storia del “furto” non è sostenuta da altre prove documentarie e, a mio parere, è strana, fosse solo perché il volto del Cristo di Manoppello è differente per grandezza e forma rispetto alle altre copie conosciute del mandylion, però la bellezza e la raffinatezza della raffigurazione è tale che questo “velo” non può non essere ricordato.
La tradizione scritta sul “velo” inizia intorno al VI sec. con gli Atti di Taddeo, risalenti a un originale scritto in siriaco del III sec.[18], dove si parla di un’immagine impressa dallo stesso Cristo su di un panno:
“Anania partì e consegnò la lettera [di Abgar FIG. 4] al Cristo, ma per quanto fissasse Cristo non lo poteva afferrare [cioè fissare nella mente la sua immagine]. Questi allora, buon conoscitore di cuori, chiese di lavarsi. Gli fu dato un panno e, lavatosi, si asciugò la faccia. Essendo rimasta disegnata la sua faccia nel panno, la consegnò ad Anania dicendogli: ‘Va’ e dalla a chi ti ha inviato’”[19].
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Fig. 4: Abgar con il “velo” della Veronica su cui è impresso il volto del Cristo (icona del X sec., Wikimedia Commons, pubblico dominio).
A differenza degli Atti di Taddeo, con i testi apocrifi del c. d. Ciclo di Pilato, pervenuti in versioni latine scritte dopo l’VIII secolo ma sulla base di testi più antichi, forse del VI, ha inizio la tradizione della Veronica come la persona che custodisce il mandylion.
Il più antico testo del Ciclo nel quale si parla in modo esplicito del “velo della Veronica” è La guarigione di Tiberio, giunta a noi su manoscritti del IX-XII secolo ma risalente a un originale del VI secolo[20].
Volusiano [incaricato da Tiberio che soffre di una malattia incurabile] con gran desiderio cominciò a indagare se mai potesse avere un’immagine di lui [del Cristo]. Si presentò così un certo Marcio il quale gli manifestò il segreto di una donna. Così parlò a Volusiano: “Tre anni fa circa egli guarì una donna da flusso di sangue[21]. Quella, presa da amore per lui, si fece dipingere l’immagine mentre Gesù si trovava ancora nel corpo e lui stesso era a conoscenza della cosa”. Volusiano disse al giovane: “Fammi sapere il nome della donna”. E quegli rispose: “Si chiama Veronica e abita a Tiro”. Volusiano ordinò che gli fosse portata questa donna. Quando gli fu presentata, le disse: “Mi è stata riferita la tua bontà e saggezza. Ascolta dunque la mia richiesta, mostrami l’immagine di quel grande uomo, il tuo Dio, il quale ti ha elargito la salute del corpo” ... [Veronica la porta a Volusiano, il quale conduce il “velo” e Veronica con sé a Roma davanti a Tiberio] … Tiberio Augusto ordinò che gli fosse presentata la donna con l’immagine di Gesù Cristo. Quando Tiberio Cesare vide l'immagine e la donna che l’aveva, disse a questa: “Tu hai potuto toccare la frange del vestito di Gesù!”. Pronunciando queste parole e guardando l’immagine di Gesù Cristo, tremò. Tra le lacrime si prostrò a terra e l’adorò. Sull’istante fu guarito dalla malattia e dalla ferita purulenta che aveva dentro. (Guarigione di Tiberio, IX e XIII).
Nella Guarigione di Tiberio il “velo” è descritto come un dipinto fatto da un pittore e non come immagine originatasi dalla pressione della stoffa sul volto del Cristo, mentre in un altro testo del Ciclo, la Morte di Pilato, Veronica descrive a Volusiano l’origine miracolosa dell’immagine del “velo” in modo simile a quanto si legge negli Atti di Taddeo:
“Quando il mio Signore andava attorno predicando, mal volentieri mi vedevo privata per la sua assenza. Volli perciò farmi un ritratto di modo che almeno i lineamenti del suo aspetto mi dessero quel sollievo con la rappresentazione della sua immagine. Mentre dunque portavo una tela al pittore perché me la dipingesse, mi incontrò il mio Signore e mi domandò dove andavo. Gli spiegai il motivo del mio cammino. Egli allora mi chiese il panno e me lo restituì segnato con l’immagine del suo volto venerando” (La morte di Pilato, III)[22].
La stessa leggenda dell’impressione del volto del Cristo si ritrova nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze[23] nel capitolo LI (La Passione del Signore): non si può dire quale delle due versioni sia la forma originale e quale la copia, ma questo fa pensare che nel XIII secolo ormai la storia del “velo della Veronica” avesse preso la sua forma definitiva.
Sindone o mandylion?
A questo punto sorge spontanea la domanda: la Sindone e il “velo della Veronica” sono la stessa icona o sono due oggetti differenti?
Già alla fine del VI secolo i due oggetti sono considerati separatamente, come si legge nei resoconti dei pellegrini che visitarono i Luoghi Santi tra IV e VIII secolo. Tra le testimonianze che sono giunte a noi[24] cito quella di Adamnano, morto intorno al 704.
Adamnano, abate del monastero dell’isola di Iona in Scozia, il centro del cristianesimo celtico fondato da San Columba e luogo di sepoltura dei re scozzesi, basa la sua opera[25] sulla narrazione di Arculfo, vescovo delle Gallie che sarebbe naufragato al ritorno da Gerusalemme sulle coste dell’isola: nel testo riporta notizie di due differenti stoffe, ma non è chiaro dove esse si trovassero, forse presso la Basilica del Santo Sepolcro visto che Adamnano ne parla alla fine dell’elenco degli strumenti della Passione presenti nelle Basiliche costantiniane del Golgota FIG. 5:

Fig. 5: Pianta delle strutture sul sito del Golgota al X sec. (da Itinera Hierosolymitana saeculi IV-VIII, a cura di Paul Geyer, Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. XXXIX, Accademia Cesarea di Vienna, Praga-Vienna-Lipsia 1898, p. 231)
Il panno che coprì il volto del Cristo nel sepolcro (probabilmente il mandylion: “De illo quoque sacrosancto Domini sudario, quod in sepulchro super caput ipsius fuerat positum sancti Arculfi relatione cognovimus”[26]), a cui attribuisce il singolare potere di dare ricchezze a chi lo possiede. Questo panno era stato rubato (ma non specifica dove) e rimase nella famiglia del ladro per cinque generazioni prima di cadere in mano a “certi infedeli ebrei” (“in manus aliquorum infidelium Iudaeorum pervenit”[27]) per poi tornare in possesso dei cristiani di Gerusalemme; Adamnano non specifica se su di esso vi fosse un’immagine o meno.
La notizia, ripresa da Beda, è commentata da Pietro Diacono del convento di Cassino, nella sua silloge di notizie estratte dai testi della biblioteca, con la singolare informazione secondo cui il “velo della Veronica” venne portato a Roma per volere di Tiberio (“Anonimus: Sudarium uero, cum quo Christus faciem suam extersit, quae ab aliis Veronyca dicitur, tempore Tiberio Caesaris Romae delatum est”[28]), molto probabilmente eestratta da un manoscritto del Ciclo di Pilato di cui ho in precedenza detto.
- Un panno intessuto da Maria di più grande dimensioni (la Sindone?), descritto “di maggiori dimensioni”[29], “aliud quoque lintamen maius Arculfulfus in eadem Hierosolymitana civitate vidit, quod, fertur, sancta Maria contexit” nel quale era visibile l’immagine del Cristo (“ipsius Domini imago figurata”). Il panno era bicolore, rosso da un lato e verde dall’altro (“cuius linteaminis una pars rubei coloris et altera e regione in altero latere viridis habetur”).
Singolare la notizia data da un altro pellegrino ignoto, chiamato dagli studiosi Anonimo Piacentino (erroneamente identificato nei secoli successivi come Antonino da Piacenza), il quale nella descrizione redatta tra il 580 e il 590, conosciuta come De locis sanctis[30], riferisce il suo pellegrinaggio dalla Siria alla Palestina e da qui in Arabia fino al Delta del Nilo e a Memphis. L’Anonimo Piacentino parla di due differenti immagini del Cristo ma venerate in località ben diverse da quelle alle quali si fa solitamente riferimento: l’una fu da lui vista presso la località del Giordano dove il Cristo ricevette il Battesimo ed è descritta come il tessuto che copriva il volto del Cristo (par. 12: “In ipso loco dicitur esse sudarium quod fuit super caput Iesu”), quindi un mandylion, l’altra in Egitto nella città di Nymphy, forse da leggere Memphis, dove era giunto passando per l’estremità sud del golfo di Suez a Clysma presso Arsinoe, ambedue città portuali importanti per il traffico commerciale con il Corno d’Africa e l’India; a Nymphy si trovava una stoffa di grandi dimensioni (pallium lineum) che potrebbe essere identificabile con la Sindone: “Ibi est civitas parva quae appellatur Clysma, ubi de India naves veniunt … Tunc venimus in civitate Nymphy et Antino, in qua residebat Pharao … In Nymphi vidimus pallium lineum, in quo dicunt ille [=il Cristo] tersisse et idcirco ibi eius remansisse vestigia, quae imago singulis temporibus adoratur. Sed et nos adoravimus, sed propter splendorem non potuimus in eum intendere“ (par. 41 e 43-44).
Si tratta dell’unica testimonianza circa l’esistenza di un panno simile a una Sindone (il pallium è di grandi dimensioni) al di fuori della Palestina, ma non potevo non farne menzione proprio per questa sua unicità.
Ian Wilson è certo che mandylion e Sindone si identifichino, in quanto il mandylion con il solo volto del Cristo altro non sarebbe che la Sindone ripiegata in modo da formare otto strati sovrapposti[31], lasciando visibile solo la sezione nella quale si trova l’immagine del volto FIG. 6, che avrebbe così assunto la grandezza di una sorta di asciugamani o di fazzoletto[32], il che sarebbe confermato dalla frase che descrive il telo della Sindone di Edessa “ripiegato quattro volte doppio” (ῥάκος τετράδιπλον) nella commemorazione del trasferimento da Edessa a Costantinopoli e riportata nel Synaxarium Ecclesiae Constantinopoleos[33] .

Fig. 6: Il Volto della Sindone di Torino come si sarebbe dovuto presentare ai fedeli se fosse stato, come ritengono alcuni studiosi, ripiegato in più parti. (Wikipedia commons, pubblico dominio)
Invece un testimone oculare della IV Crociata, Robert de Clari[34], nella sua storia della conquista di Costantinopoli distingue in modo chiaro i due oggetti: descrive il mandylion nel Capitolo 83, Del Palazzo delle Blancherne, ove era venerato nella Santa Cappella del Palazzo del Boukoleon, contenuto in due vasi d’oro appesi al soffitto da due catene d’argento, contenenti l’uno un panno su cui il Cristo impresse il suo volto e l’altro una tegola su cui miracolosamente l’immagine si era riprodotta[35], e la Sindone nel Capitolo 92, Dei pilastri di Costantinopoli e della chiesa di Santa Maria delle Blancherne, “nella quale è custodito il sudario nel quale Nostro Signore fu avvolto e che ogni venerdì viene esposto disteso cosicché la forma [del corpo] di Nostro Signore possa essere vista chiaramente. E nessuno, né greco né francese [cioè crociato], sa dove sia finito il sudario dopo che la città è stata conquistata”.
[1] L’ordine delle “Monacelle” costituisce una realtà molto singolare nel panorama delle organizzazioni ecclesiastiche per la sua indipendenza dalle Curia di Roma, costituendo una sorta di “ordine privato” della casata dei Caracciolo di Martinafranca. L’argomento andrebbe di certo approfondito.
[2] Sulla vita e le opere di Donna Aurelia Imperiali si vedano: il Ragguaglio I della Vita e delle Virtù della Duchessa di Martina D. Aurelia Imperiali in Ignazio Maria Vittorelli, Vita e virtù di suor Maria Aurelia Cecilia di S. Giuseppe dell’ordine delle eremitane di s. Agostino; detta nel secolo d. Teodora Costanza Caracciolo degli Eccellentissimi Duchi di Martina descritta dal padre Ignazio Maria Vittorelli della Compagnia di Gesù Con due Ragguagli della vita, e virtù dell’ava, e zia della medesima, ed alcune riflessioni a spirituale profitto delle persone religiose ed altri divoti lettori, in Napoli per Stefano Abbate, 1743, pp. 1-25; Maria Antonietta Epifani, Aurelia Imperiali Caracciolo (1646-1725): donna salentina della misericordia, in “L’Idomeneo”, 22 (2016), Università del Salento, pp. 169-180.
[3] L’immagine presente nel Conservatorio delle Monacelle è una delle copie dipinte su stoffa da Pietro Strozzi nel ‘600 a Siena, il quale, con il permesso di papa Clemente XI (come scritto sulla placca argentea che orna la cornice in cui l’immagine è conservata), venne donata dai Cappuccini di Siena al cardinale Innico Caracciolo, fratello di Petracone e quindi cognato di Aurelia Imperiali (Vittorelli, Vita e virtù, p. 14). Il cardinale la consegnò ai Cappuccini di Martinafranca e, quando il convento dei Cappuccini venne soppresso con l’avvento del Regno d’Italia, Francesca Giudice duchessa di Martinafranca la fece spostare nella Chiesa delle Monacelle (https://veronicaroute.com/1618/09/12/1617-1621/, consultato 01/06/2025).
[4] Sulla Sindone di Torino, la cui bibliografia è vastissima, segnalo il recente Franco Cardini, Marina Montesano, La Sindone di Torino oltre il pregiudizio. La storia, la reliquia, l’enigma, Medusa Edizioni, Milano 2015.
[5] S. Giovanni Paolo II la riteneva esplicitamente una reliquia: “… la cattedrale di Torino, il luogo dove si trova da secoli la Sacra Sindone, la reliquia più splendida della passione e della risurrezione” (Discorso di S. Giovanni Paolo II riportato in “L'Osservatore Romano” del 21-22 aprile 1980.
[6] Cathopedia s. v. (consultato 24/05/2025).
[7] Di cui uno dei maggiori avversari della Sindone, il Nicolotti, nega l’autenticità (Andrea Nicolotti, Su alcune testimonianze del Chartularium Cuslisanense, sul sito del Giornale di Storia, 8 (2012), p. 4; https://www.lavocecattolica.it/falseorigini.cartularium.pdf, consultato 30/05/2025.
[8] Così chiamato perché proveniente dal palazzo dei principi Angelo Comneno di Coppesano (PA).
[9] Pasquale Rinaldi, Un documento probante sulla localizzazione in Atene della Santa Sindone dopo il saccheggio di Costantinopoli, in La Sindone, scienza e fede. Atti del II Convegno Nazionale di Sindonologia (a cura di L. Coppini e F. Cavazzuti), CLUEB, Bologna 1983, pp. 109-113. I documenti, trascrizione degli ultimi anni del 1880 delle carte originali ora andate perdute, sono stati donati dal Rinaldi alla Biblioteca Statale di Montevergine, ove ora si trovano.
[10] Cathopedia s. v. “Storia della Sindone”.
[11] La “Santa Faccia” di Alicante avrebbe pianto nel 1489 e una lacrima si vede nell’immagine del telo: forse da questa leggenda derivano le due grosse lacrime che si vedono sul Santo Volto di Martinafranca, che costituisce una variante rispetto agli altri mandylion.
[12] Veronica Route, https://veronicaroute.com s. v. (consultato 01/06/2025).
[13] Ian Wilson, Holy Faces, Secret Places, Corgi Books 1992, p. 63.
[14] Emanuele Colombo et al., Il Volto ritrovato. I tratti inconfondibili di Cristo, Soc. Coop. Pagina, Bari 2013, p. 22 e nota 28.
[15] Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Enciclopedia dell’Arte medievale, s. v. (si veda anche Michele Macarrone, Studi su Innocenzo III, Editrice Antenore, Padova 1972, p. 123)
[16] p. Donato da Bomba, Relatione historica d'una miracolosa immagine del volto di Christo, scritta nella prima metà del ‘600 e pubblicata per la prima volta nel 1820 dalla editrice Marietti.
[17] Liberato De Caro, Emilio Matricciani, Giulio Fanti, Imaging analysis and digital restoration of the Holy Face of Manoppello, Università di Padova, Padova 2028; https://www.research.unipd.it>retrieve (consultato 24/05/2025).
[18] Così Cathopedia s. v.
[19] Mario Erbetta, Gli apocrifi del Nuovo Testamento. Atti e leggende, vol. III, Marietti editore, Genova-Milano 1996, p. 577. La traduzione si basa su di un codice greco dell’XI sec., ms Par. Grec. 548.
[20] Mario Erbetta (a cura di), Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, vol. I/2, Marietti editore, Genova-Milano 1981, p. 381.
[21] Quindi in questo testo si fa coincidere l’emorroissa dei Vangeli con la Veronica del “velo”.
[22] Erbetta, p. 493. Questo testo proviene da un manoscritto del XIV sec. (Erbetta, p. 492) e quindi è considerato il più tardo tra quelli del Ciclo di Pilato.
[23] La prima redazione della Legenda aurea dovrebbe essere stata scritta tra 1260 e il 1280. Nei mss più antichi della Legenda aurea di Jacopo da Varazze è riportata la stessa storia del mandylion riferita ne La morte di Pilato: “Mentre portavo [= Veronica] la tela al pittore perché la dipingesse, il Signore mi venne incontro e mi chiese dove andavo. Gli spiegai il motivo; lui allora mi chiese di dargli il panno e me lo restituì segnato del suo venerabile volto” (LI, 322-323). Le citazioni sono tratte da: Iacopo da Varazze, Legenda Aurea. Testo critico riveduto e commento a cura di G.P. Maggioni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, p. 399.
[24] Teso di riferimento gli Itinera Hierosolymitana saeculi IV-VIII, a cura di Paul Geyer, Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. XXXIX, Accademia Cesarea di Vienna, Praga-Vienna-Lipsia 1898, raccolta critica dei mss del IX e X sec. in cunei qualii sono trascritti i resoconti di questi viaggi.
[25] Adamnano, De locis sanctis libri tres, in Itinera Hierosolymitana saeculi IV-VIII, pp. 221-297. Si tratta quindi di una relazione ddi seconda mano ma scritta da persona di grande cultura.
[26] Adamnano, De locis sanctis, p. 235. Dà al panno il nome di sudarium ma doveva di piccole dimensioni se copriva il solo volto; però in un altro passo del testo lo dice mensuram longitudinis quasi octenus habens pedes (p. 238), cioè circa 235 cm., ma vedi più avanti.
[27] Adamnano, De locis sanctis, p. 237.
[28] Petrus Diaconus, De locis sanctis, p. 109.
[29] Adamnano, De locis sanctis, p. 239.
[30] Anonimo Piacentino, De locis sanctis, in Itinera Hierosolymitana saeculi IV-VIII, pp. 195-218.
[31] Sulla piegatura della Sindone in modo da ridurla alle dimensioni del mandylion il Canetti afferma che si tratterebbe di un falso: “Argomenti debolissimi, come quello della piegatura in quattro, in otto o in un numero imprecisato di parti della sindone in modo da farla coincidere con le presunte misure del fazzoletto di Edessa … [in modo da raffigurare un uomo] peraltro ad occhi aperti e privo dei segni di tortura … [senza che nessuno] si fosse mai preso la briga di ispezionare e di svolgere [il lenzuolo]” (Luigi Canetti, La fabbrica dei falsi, ovvero la fantastoria templare della sindone di Torino, in “Giornale di storia”, 6, 2011, p. 3).
[32] In seguito l’autore, a detta del Canetti (Canetti, La fabbrica dei falsi), avrebbe avuto un ripensamento su questo argomento, non ostante la testimonianza che segue.
[33] Edito da Ippolito Delehaye, Acta sanctorum. Propylaeum ad Acta sanctorum Novembris, Palmé editeur, Paris 1902.
[34] Robert de Clari era un cavaliere della Piccardia che al termine della IV Crociata ne scrisse un esteso e particolareggiato resoconto dalla presa di Zara alla divisione dei territori costantinopolitani dopo la conquista della città, cioè dal 1202 al 1216. La sua opera, con il titolo moderno La conquista di Costantinopoli, è stata edita in The conquest of Costatinoples, a cura di Edgar McNeal, Columbia University Press, New York 1936, e Three old french Chronicles of the Crusades, a cura di Edward Stone, Literary Licensing Company, Seattle 1939.
[35] Robert de Clari, La conquista di Costantinopoli (ed. Stone), Capitolo 83: “Vi erano altre sacre reliquie in questa Cappella [nel Capitolo precedente ha descritto i frammenti della croce, la lancia e la corona di spine, un recipiente contenente il sangue del Cristo ed altre reliquie] di cui ho dimenticato di parlarvi: vi erano due ricchi vasi di oro sospesi [al soffitto?] in mezzo alla Cappella con due grandi catene di argento, e in uno vi era una tegola, nell’altro un panno”. Robert prosegue descrivendo come si è compiuto il miracolo: a un uomo che sta riparando il tetto della casa di una vedova “per amore di Dio” appare il Cristo, il quale per ricompensare il suo gesto caritatevole si fa dare un panno che l’uomo ha con sé e premendolo sul volto ne imprime l’immagine. L’uomo lo nasconde sotto una tegola del tetto e finito il lavoro quando lo riprende scopre che l’immagine si è trasferita miracolosamente sulla tegola.



