La vertigine dell’unione: Fénelon, o del tramonto della mistica in Occidente
di Marco Toti
Nel 2024 è stato pubblicato, edito da “Le Lettere”, un fondamentale testo di F. de Salignac Fénelon (1651-1715), “La vita interiore”, curato da M. Vannini, autorevole specialista di mistica “speculativa”. L’opera, che risale al 1697, è preceduta da un lungo studio introduttivo dello stesso Vannini (diviso in due parti: “Le massime dei santi e la controversia sul quietismo” [pp. 7-52] e “Fénelon nella storia” [pp. 53-62]), oltre che da una “Cronologia” (pp. 65-71) e da una “Nota bibliografica” (pp. 73-76). Tesi fondamentale del curatore è che la condanna papale di Fénelon (1699), che portava a termine la disputa tra questi e Bossuet, ha segnato una “emarginazione” della mistica “dal tessuto vivo della religione e della società”, e di conseguenza, ha determinato il passaggio dalla mistica alla psicologia, turning point cruciale nella storia anche culturale di Occidente (v. M. Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Firenze 2012): “il breve papale con la condanna di Fénelon completò [infatti] quell’opera di rimozione della mistica dal centro della vita cristiana che si era iniziata pochi anni prima con il processo e la condanna di Miguel de Molinos. Il secolo diciottesimo sarà quello dell’Illuminismo, con la progressiva emarginazione della Chiesa dalla vita culturale e sociale” (p. 30). Qui Vannini riprende M. Bergamo, che scriveva di “colpo decisivo inferto allo sviluppo del misticismo”, con la messa al bando del “discorso mistico” poco prima del secolo dei lumi, e col suo conseguente riflusso verso zone sempre più periferiche dello spazio culturale, a motivo della sua “ideologia antieconomica” (Il puro amore davanti alla legge dello scambio, in Idem, La scienza dei santi. Studi sul misticismo del Seicento, Firenze 1984, p. 223).
Santità e follia, trascendendo l’umana prudenza, coinciderebbero: in senso diametralmente opposto all’accumulo di profitti e/o di “meriti”, Bergamo afferma che “l’essenza del puro amore è di mantenere l’amante in un’incessante condizione di perdita” (ibidem, p. 215). Qui l’A. si riferisce al mistico domenicano A. Piny, autore della “Clef du pur amour” (1685); Piny scrive in particolare per chi è associato ad un “état de croix”, ossia a vantaggio di coloro i quali sono “perpetuamente insoddisfatti”, e nel cui cuore è “un fondo di angoscia di derelizione” (ibidem, p. 210): più la sofferenza è intensa, più la via spirituale si approfondisce e la perfezione si avvicina (ibidem, p. 214). Non serve qui dilungarsi sulla celebre “notte oscura dell’anima” di San Giovanni della Croce, in cui si prova un profondo senso di perdita e di isolamento, affine all’angoscia di Cristo nel Getsemani ed in croce: l’abbandono deve essere vissuto fino alla feccia per poi lasciare che Dio si “unisca” all’anima, secondo uno schema di umiliazione/esaltazione di cui sempre Cristo è il modello; in ultima analisi, abbandonarsi a Dio significa abbandonare il proprio io al fine di essere uniti a lui. Ad ogni modo, ponendosi come controvalore antieconomico rispetto all’imperante valore economico del XVI secolo, la mistica del puro amore, mutuando e rovesciando le categorie proprie dell’ideologia liberoscambista e paradossalmente consistendo nell’accumulazione di perdite su perdite, vivacchia ai margini della società, dopo essere stata il centro propulsivo della vita cristiana. Una tale interpretazione implica da un lato che il “puro amore” sia la reazione alla legge dello scambio (una legge economica, dipendente però da una precisa ideologia), dall’altro che libero scambio e “amor puro” appartengano al medesimo “campo ideologico”. A noi la tesi in questione, pure acuta, sembra un poco riduzionista: è possibile, in effetti, rintracciare forme di mistica “unitiva” ben risalenti rispetto al XVII secolo (si pensi, a titolo di esempio, ad Eckhart e all’”intelletto d’amore” dantesco).
In certi casi, a partire dalla metà del XVII secolo la mistica “unitiva” ebbe sempre più a camuffarsi per continuare ad esistere, talvolta emergendo sotto mentite spoglie: dopo la marginalizzazione rilevata, essa si mascherava, ad es. in un certo “dolorismo” tipico del cattolicesimo moderno (v. infra sulla “oraison cordiale”). Secondo Vannini, all’interno della Chiesa si verificò una sorta di “effetto-boomerang”, sia sul piano spirituale che su quello sociale e culturale, che presenta alcuni momenti tendenti allo “slittamento” della mistica “intellettuale” verso il volontarismo e lo psicologico:
- una marginalizzazione della mistica verso la “periferia” della società e della cultura (ma anche della Chiesa);
- un suo “mascheramento”, anche nella filosofia moderna (Cartesio, Hegel), in cui è ancora presente la distinzione tra spirito ed anima;
- con S. Francesco di Sales, la “svolta” volontaristica della mistica;
- la trasposizione delle categorie mistiche nella psicologia, con l’identificazione tra anima e psiche (“piccolo io”) e la definitiva scomparsa dello spirito e di un autentico “sapere dell’anima”.
Pur consentendo con Vannini, con particolare riferimento al quarto punto si deve rilevare la analogia tra il direttore spirituale (e non il semplice confessore) e lo psicanalista (e non il semplice psicoterapeuta), che lavorano entrambi sulla “confessione dei pensieri”.
Ad ogni modo, la stessa gerarchia ecclesiastica, ben conscia delle distinzioni sottili e della cautele da usare in un campo tanto delicato, censurò 23 proposizioni di Fénelon (pp. 20-24) senza però tacciarle di eresia e nella forma “attenuata”, rispetto alla bolla, del breve, fatta “salva una eventuale retta intenzione dell’autore” (p. 30): il che significa da un lato che il linguaggio può essere “equivoco” nel tentativo di restituire le profondità dell’esperienza mistica, dall’altro che una tale “retta intenzione” non fosse da escludersi, ed in tal caso non sarebbe stata condannabile.
A ben guardare, la Francia del XVII secolo fu una autentica “fucina” della mistica unitiva, con un’acme individuabile intorno alla metà del secolo. Allora, la mistica era caratterizzata, oltre che dalla “presa” sulla società, da una certa “riservatezza” e dal tentativo di istituire una sua “scienza” sistematica; ma non, come accadde nell’esicasmo cristiano-ortodosso in particolare del XIII-XIV secolo, da una “tecnica” (in merito all’esicasmo è quantomeno ipotizzabile un prestito di alcuni procedimenti, relativi ad es. al respiro ed alla postura, utilizzati nel sufismo, vista la prossimità dei rispettivi ambienti ed i rapporti attestati tra Islam e Cristianesimo). Per quanto concerne il primo punto, basterà citare Fénelon, che proprio all’inizio del suo lavoro scrive: “mi sembra [tuttavia] che questa materia [le “vie interiori”] richieda una specie di segretezza”, giustificata da concreti motivi di opportunità (p. 79; il termine usato, in realtà, appare semanticamente più forte rispetto ad una semplice “discrezione”). J. Borella, a proposito dell’applicabilità al Cristianesimo della categoria di “esoterismo reale”, de facto (distinto da quello “formale”, de iure), ha vergato parole tendenzialmente definitive (Esoterismo guénoniano e mistero cristiano, tr. it. Roma 2002). Afferma ancora Fénelon, che qui si appoggia esplicitamente a una tradizione che rimonta, tra gli altri, a san Clemente e a san Cassiano: “è per una sorta di misura e di segretezza che i pastori ed i santi di tutti i tempi […] solitamente proponevano alla maggior parte dei giusti soltanto le pratiche dell’amore interessato proporzionate alla loro grazia” (questa è la ventiduesima proposizione censurata dal breve papale Cum alias); questa tradizione, in certo modo “segreta”, non è però “sconosciuta al corpo stesso di tutta la Chiesa” (p. 199). In merito al secondo punto, Vannini afferma che “il concetto di ‘stato’ (état) […]” quale “condizione spirituale in cui ci si può di volta in volta trovare […] ha alle spalle il tentativo, ai tempi di Fénelon ormai plurisecolare, di fare una scienza della mistica. Tale tentativo si stava realizzando nella sua pienezza proprio nel Seicento, ad opera soprattutto dei trattatisti carmelitani […] e gesuiti” (p. 79 n. 3). Fénelon stesso asserisce che “lo stato passivo e la trasformazione con le nozze spirituali, insieme all’unione essenziale e immediata, non sono altro che l’intera purezza di questo amore, il cui stato è abituale in pochissime anime, senza mai essere invariabile né esente da colpe veniali […] tutte le vie interiori portano all’amore puro come al loro termine, e il più alto di tutti i gradi nel pellegrinaggio di questa vita è lo stato abituale di questo amore. Esso è il fondamento e il culmine di tutto l’edificio” (p. 85). Dal punto di vista morfologico, lo “stato” della mistica cristiana appare analogo alla condizione spirituale del sufi, distinta nell’esoterismo islamico in “stazione” (maqam) – effetto della pratica ascetica – ed in “stato” (hal) – condizione momentanea donata da Dio.
Tentando di approcciare una pur sommaria storia della mistica speculativa del ‘600, è d’obbligo il riferimento al cappuccino inglese Benedetto da Canfield, autore di una ”Regola di perfezione, contenente una sintesi della vita spirituale ridotta al solo punto della volontà di Dio”, del 1609. Questo lavoro costituisce una delle fonti più significative della spiritualità seicentesca, e fin dal titolo vi è implicita l’idea che la più alta vita spirituale tende alla perfetta conformità con la volontà di Dio (pp. 12-13). La via dell’”annientamento totale” è sia attiva, in quanto effetto dell’azione dell’uomo, sia passiva, in quanto “l’azione stessa è ormai quella di Dio, che possiede l’anima intera” (p. 12). Ed è proprio in relazione all’intendimento della funzione della volontà che si distingue la corrente renano-fiamminga – che “metafisicamente” postula un sovrapersonale “fondo senza fondo” che trascende la volontà, e nel quale “non entra neppure Dio, se non perde gli attributi personali”; la corrente in questione, ovviamente, influenzerà non poco la mistica carmelitana e poi quella “quietista” – e la successiva tendenza di F. de Sales – che “psicologicamente” identifica fondo dell’anima e volontà (pp. 12-13 [corsivo nostro]). Nel primo caso, il sacrificio della propria volontà è il sacrificio del proprio “io”: anche San Giovanni della Croce, affermando che “centro dell’anima è Dio” (Fiamma viva d’amore 1,12), sosteneva che “è Dio che lì agisce in tutto, senza che l’anima faccia niente di suo” (ibidem 1,9 [corsivo nostro]). Nella “notte dello spirito”, l’”intelletto” diviene “qualcosa di divino unito col divino” (Notte oscura II,13,11; notevole l’immagine del legno tutto compenetrato del fuoco: ibidem II,10,1). L‘uomo è così “rinato dall’alto” (Gv 3,3): è l’”uomo nuovo” paolino (Ef 2,15), tornato ad essere un bambino (Mt 18,3) e quindi rinato (cfr. il termine dvija nell’Induismo, “nato due volte”). In certo senso, egli è già nel Regno dei Cieli: “quest’anima sarà già un’anima del cielo” (Notte oscura II,13,11).
Anche la sodale di Fénelon, Madame Guyon – i due si conobbero nell’autunno del 1688 --, afferma arditamente, nel solco della mistica renano-fiamminga, che “Dio è essa [l’anima] ed essa [l’anima] è Dio”: non esiste più alcuna distinzione tra di essi (p. 19; classica è qui l’immagine della goccia nel mare: cfr. Gal 2,20: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!”), l’unione essendo essenziale ed immediata, non per partecipazione, ma per “annichilazione del [mio] essere personale”; infatti, “l’anima diviene Dio stesso, se ama di amor puro” (p. 39, con riferimento a S. Caterina da Genova [1447-1510], che dice pure: non c’è un altro io se non Dio” [p. 183]. Sull’”annichilimento” dell’io, “punto di catastrofe dell’identità”, v. M. Bergamo, La passione della perdita, in Idem, op. cit., pp. 3-45; il passo qui citato da S. Caterina da Genova è a p. 7). Vannini nota giustamente che “questo ‘io’ che deve essere annichilito si presenta come una realtà instabile”, all’interno di “una catena di contenuti di cui è impossibile trovare l’anello d’inizio e quello finale” (p. 37); evidenti, qui, le analogie con la nozione buddhista di anattâ (“non-io”). La stessa dottrina è affermata a chiare lettere da Fènelon (p. 85), che però precisa che la “trasformazione dell’anima” non è “una unione ipostatica […] che dispensa l’anima dal vegliare sull’io, con il pretesto che non c’è più in lei altro io se non Dio” (p. 184): il pericolo dell’antinomismo è chiaramente scongiurato. Eppure, senza che ciò significhi che l’anima torni all’”integrità originale” e veda Dio “faccia a faccia” (p. 195), “le nozze spirituali uniscono immediatamente la sposa allo sposo da essenza a essenza o da sostanza a sostanza, cioè da volontà tramite questo amore completamente puro […]. Allora Dio e l’anima non sono altro che uno stesso spirito […] per una completa conformità di volontà che la grazia opera” (p. 194 [corsivo nostro]).
Il “fondo” dell’anima, che è senza fondo (S. Francesco di Sales parlava, dal punto di vista ascendente dell’”estasi” [excessus mentis], di “apice dello spirito o cima dell’anima” [p. 119]) nella prospettiva dell’enstasi, ossia della discesa “mistica” in un abisso senza fine, si unisce dunque all’essenza divina, che è un “nulla eterno” (p. 32-33, con riferimento alla mistica renano-fiamminga, che trasmette fino a Fénelon la nozione di “fondo dell’anima” [Grund der Seele, in realtà Abgrund]). In linea, tra l’altro, con l’”Imitazione di Cristo”, in questa vertigine senza fondo né modo, colta per viam negationis e caratterizzata dal “silenzio delle potenze” e dall’insussistenza degli atti interessati (anche rispetto alla propria salvezza!), non si desidera più alcunché, poiché il desiderio anche delle cose più alte implica una mancanza “troppo umana”: in altri termini, il desiderio di Dio può facilmente divenire un “Dio” succedaneo, ed è quindi da evitare. In questo senso, la “santa indifferenza”(greco apátheia) di Sales, opposta alle “passioni del tuo e del mio” (p. 33: è l’”illusione del possesso”, anche di una “identità” ontologicamente fondata, avversata da tutta la mistica speculativa medievale e matrice della quasi coeva rivoluzione scientifico-capitalistica), alla “concupiscenza”, a sua volta analoga alla “brama” (tahnâ) buddhista, radice della “esistenza” come “sofferenza” (dukkha). L’indifferenza cristiana si distingue però dalla apátheia stoica poiché “racchiude in se stessa l’amore, che […] la rende davvero possibile” (p. 37). Il distacco radicale dal mondo integra quindi l’amore puro “in” Dio, che “identifica” il fondo dell’anima con Dio stesso (sul puro amore si può vedere Bergamo, Il puro amore davanti alla legge dello scambio, in Idem, op. cit., pp. 151-254): ”la santa indifferenza non è che il disinteresse dell’amore” (p. 203). Questa unione implica il superamento della dualità, determinata dal peccato originale, in conseguenza del quale ebbe luogo la “precipita[zione]… nella prigione dell’identità” (Bergamo, op. cit., p. 26 [Surin]). Inoltre, “lo stato passivo […] non esclude né l’azione reale, né gli atti successivi della volontà […], ma solamente la semplice attività o inquietudine interessata”; questo stato “abituale”, ad ogni modo, “costituisce tutta la vita interiore” (proposizione n. 23, condannata), ma può essere perduto (p. 203). Bossuet rispondeva che “l’assoluto disinteressamento non è permesso ai mortali”, ma solo a Dio (Bergamo, op. cit., 228); ma ciò non contraddice Fénelon e simili, che, come visto, affermano l’identità uomo-Dio nell’amor puro: è proprio l’intendimento della relazione tra uomo e Dio nell’acme della mistica (“partecipazione” o “unione”), quindi, a costituire l’ubi consistam del conflitto tra i due.
Ci sia ora permesso un breve excursus. Al di là dei celebri casi della mistica renana e di quella carmelitana, nello stesso periodo in cui opera Fénelon (verso la metà del XVII secolo) si diffuse la cd. “oraison cordiale”, in particolare in Bretagna, sulla base della pubblicazione, avvenuta nel 1660, del testo di un vignaiolo di Montmorency, J. Aumont, “L’ouverture intérieure du royaume de l’agneau occis dans nos coeurs”. In questo libro si raccomandava, come mezzo di rottura dei sette sigilli che attraversano il cuore – ciò che conduce all’inabitazione dell’anima nella luce trinitaria, superando anche l’“attaccamento ai doni di Dio” --, la “preghiera di raccoglimento interiore in Gesù crocifisso, unico mediatore”, nell’ambito di un moto interiore di “discesa ascendente” che dalla testa conduca al fondo del cuore (che coincide, nella terminologia mistica occidentale, con l’apex mentis: il “centro” è anche ciò che sta più in alto e più in basso: “come sopra, così sotto, come dentro, così fuori, come nel grande, così nel piccolo” [Ermete Trismegisto]). Il senso profondo di questa “discesa della mente del cuore” cattolica andò presto smarrito, tanto più che proprio alla fine del Seicento il cuore iniziò a essere legato unicamente all’emotività. E. Montanari rilevava tutto ciò già più di venti anni fa (La fatica del cuore. Saggio sull’ascesi esicasta, Milano 2003, pp. 71-75). A tal proposito, un libro di J.-M. Boudier, “L’oraison cordiale: une tradition catholique de l’hésychasme”, pubblicato da Harmattan nel 2013, ha contribuito ad approfondire il tema di un “esicasmo cattolico”, commentando ampi passi tratti da M. Le Gall, “L’oratoire du cœur, ou méthode très facile pour faire oraison avec Jésus Christ dans le fond du cœur”, opera del 1670 che si inscrive nel medesimo milieu spirituale di Aumont (Le Gall era però monaco). Il “fondo del cuore” è, significativamente, la propria “camera” (interiore), in cui Gesù raccomanda di raccogliersi per pregare “nel segreto” (Mt 6,6). Anche se non è stato possibile rinvenire traccia di rapporti storici tra l’esicasmo bizantino e l’oraison cordiale cattolica (per la verità ciò sembra improbabile, viste le distanze tra la Bretagna ed i luoghi dell’Oriente cristiano e la riservatezza dei rispettivi ambienti, per di più caratterizzati da “mentalità religiose” non facilmente componibili), le analogie paiono talmente stupefacenti che una certa “concordanza” di temi e finalità fondamentali (la discesa della mente nel cuore, luogo dell’incontro con Dio; la ripetizione del Nome di Gesù; il carattere “metodico” dell’orazione, etc.: tutti volti alla “divinizzazione” dell’orante) appare innegabile. Le contingenze storiche – soprattutto la caratterizzazione della Chiesa romana in senso “temporale”, a partire dal Basso Medioevo, e il timore del pericolo “quietista”, più o meno coevo alla “divulgazione” dell’oraison cordiale – hanno forse evitato che alcuni “percorsi carsici” si manifestassero più evidentemente in superficie: con il che, l’alternativa si ridusse a una scelta quasi obbligata tra interiorizzazione (“dissimulazione”) e moralizzazione devota e “doloristica”.
Nel 2013 Vannini ha pubblicato, sempre per “Le lettere”, Lessico mistico: le parole della saggezza, ove sono “definiti” circa 70 termini del vocabolario mistico. Nell’ambito di questa nostra recensione, ci pare utile segnalare un lemma centrale in Fénelon: quello di “abbandono”, che nell”Indice dei temi” del libro del mistico ed arcivescovo francese è considerato sinonimo di “abnegazione di sé”, “disappropriazione”, “distacco”, “spogliamento” ed analogo ad ”annichilimento”, “indifferenza”. Fénelon, che sul tema si appoggia a Mt 16,24-25 (“rinuncia a se stessi”), identifica “santa indifferenza”, “abbandono” e “amor puro”, che rende le anime “come estranee a loro stesse” (p. 129 [corsivo nostro]): una sorta di “alienazione” mistica! Pure, “la santa indifferenza […] diventa nelle prove più difficili ciò che i santi mistici hanno chiamato abbandono” (p. 116). Il termine di “abbandono” ricorre anche nell’opera di un altro contemporaneo di Fénelon, il direttore spirituale gesuita J.-P. de Caussade (1675-1751), L’abbandono alla Provvidenza divina (risalente al 1729-1740); anch’egli fu tacciato di “quietismo” (anche se è dubbio che il libro in questione sia della mano di Caussade), ma non condannato. L’A., che studiò Fénelon, scrisse anche un Traité sur l’oraison du coeur. L’abbandono si configura in Caussade come una pratica “semplice” (ma non facile!) e “sintetica”, consistente in una sublime “inazione”, da esercitare nel corso delle prove che la vita ci riserva – purificandoci per il loro tramite --, cui corrisponde lo stato dell’indifferenza: la “teologia virtuosa” (che qui non è intesa come “studio” di Dio, ma come “teologia mistica”) non può che essere “tutta pratica ed esperienza”, mentre l’”abbandono perfetto”, come in Fénelon, è sia attivo che passivo; la volontà è “come uno strumento senza azione propria”, e fondamentale risulta “rinunciare all’uso proprietario delle facoltà dell’anima” (http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/trattatocuore.pdf). Ciò sembrerebbe affine al wei-wu-wei taoista (“agire-non-agire”), che ha un certo rilievo nell’”Arte della guerra”: si vince la guerra senza combattere – si pensi anche all’”osservazione dei pensieri”, che vanno “lasciati andare”, senza giudizio né attaccamento, nella meditazione vipassana (“vedere le cose per come realmente sono”) -- ovvero agendo senza sforzo, disposti a ricevere la vita trinitaria senza resistenza, ovvero arrendendosi (a Dio, nel caso della mistica cristiana). Il trattato di Sun Tzu può quindi essere letto anche come “grande guerra santa” contro l’”io” e le sue passioni: il nemico più temibile, come è noto, essendo quello interno.
È evidente che l’abbandono perfetto, per essere tale, si deve fondare su una fede incrollabile, “che smuove le montagne”. Pure, “l’arte dell’abbandono non è che l’arte di amare, e l’azione divina non è che l’azione dell’amore divino. È mai possibile che questi due amori che si ricercano l’un l’altro non si accordino quando si sono incontrati?” (https://tysm.org/labbandono-alla-provvidenza-divina/). Se Dio non può costringere le creature ad amarlo, a fortiori non può non amare chi lo ama: non può abbandonare chi si abbandona a lui. Già lo stesso Fenélon aveva scritto, in chiusura de La vita interiore, che “la santa indifferenza non è che il disinteresse dell’amore. Le prove non ne sono che la purificazione. L’abbandono non è che il suo esercizio durante le prove” (p. 203): allo “stato” mistico per eccellenza (l’indifferenza verso il mondo, la cui “controparte” positiva è l’amor puro “in” Dio) corrisponde pertanto un agire ascetico (l’abbandono, autentico “esercizio negativo”) che, sostanzialmente, non agisce, ma è interamente “agito” da Dio.
Marco Toti