La Canonica di S. Niccolò a Montieri (GR) - parte II - (di P. Galiano)

La Canonica di San Niccolò a Montieri (GR)

Parte seconda

Paolo Galiano

1359 Montieri copertina

Montieri e Montesiepi: origine longobarda della Canonica?

Se vogliamo trarre una conclusione da quanto è stato detto finora, sarebbe possibile formulare un’ipotesi circa l’origine dell’insediamento della Canonica.

Sulla base della (scarsa) documentazione per l’XI e XII secolo nell’area toscana è fino ad ora assodato che il Vescovado di Volterra sia entrato in possesso della Canonica di Montieri solo dopo la costruzione della chiesa di San Niccolò, considerato che essa venne edificata nei primi decenni dell’XI secolo e che solo dal 1137, un secolo dopo, si ha la certezza della sua appartenenza alla curia volterrana. Analogamente, nulla si può dire con certezza circa possibili rapporti tra le origini della Canonica e le grandi famiglie dei Conti della Tuscia meridionale, essendo ancora più scarsa la documentazione alla quale possiamo attingere.

Avanziamo quindi un’ipotesi: è possibile che all’origine dell’insediamento sul Poggio di Montieri vi sia stato un nucleo di genti di origine forse longobarda[1], da cui potrebbero essere discesi i “Lambardi” di Montieri?

Ancora in pieno Medioevo la nobiltà locale, le cui proprietà risalivano alla suddivisione delle terre dopo la discesa in Toscana dei Longobardi, si è mantenuta distinta dai ceti inferiori costituiti dagli originari abitanti della regione, i “Romani”, affermando in particolare a Montieri il suo potere come classe dei “Lambardi” o “Lombardi”, riuniti in consorterie che li mantenevano separati dalla popolazione dei “Romani”. A causa di questa divisione delle due classi sociali è molto probabile che l’originario patrimonio spirituale, religioso e culturale dei discendenti della popolazione longobarda non dovesse essere andato perduto, come dimostrerebbe il fatto che a pochi chilometri da Montieri sulla collina di Montesiepi presso Chiusdino, circa un secolo e mezzo dopo la costruzione della chiesa di San Niccolò, Galgano Guidotti infigge la sua spada nella roccia secondo un antico rituale che si può far risalire ai Cavalieri euroasiatici della regione tra gli Urali e il Caucaso, per i quali la spada si identifica con il Dio della guerra e a lui si rende onore offrendo sacrifici alla spada[2].

Testimonianza archeologica della funzione rituale della spada è stata ritrovata nel sud della Russia nel Caucaso settentrionale. Leskov[3] ha scoperto nel kurgan n° 5[4], risalente al V-IV sec. a.C., una tomba-santuario costituita da una costruzione lignea a pianta circolare (come la Rotonda di Montesiepi) con l’entrata posta a sud: nel kurgan sono stati trovati resti di ossa umane e crani di cavalli e al centro della costruzione una spada in posizione isolata rispetto agli altri oggetti contenuti in esso e quindi collocata in luogo privilegiato, posizionata in una cavità contenente cenere, forse i resti della catasta di legno che veniva arsa di cui parla Erodoto.

Nelle leggende degli Osseti[5], popolazione discendente dai Sarmati e abitante del Caucaso settentrionale, è presente la figura di Baradz, personificazione della spada in forma umana, figlio dell’eroe Hǣmtis e della sua magica moglie, rana di giorno e splendida fanciulla di notte, discendente da un popolo che vive sotto terra: il corpo di Baradz è stato fatto in acciaio temperato da Kurdalǣgon, prototipo sacro del fabbro-sciamano, con la stessa tecnica che si usa per forgiare la spada, passando tre volte il suo corpo nella fucina.

Un ricordo del significato metareligioso della spada lo si potrebbe ritrovare nell’episodio riportato nella Inquisitio in partibus, i verbali della santificazione di Galgano: “[Il testimone] vide alcune donne provenienti dalla zona di Arezzo conducendo con sé una fanciulla con le mani contratte … Galgano disse alle donne di pregare per la fanciulla vicino alla spada [iuxta spatam]. E il mattino del giorno dopo la trovarono risanata[6]. In un certo senso, non è Galgano a compiere il miracolo ma la stessa la Spada, axis mundi che collega la terra e il cielo.

Se colleghiamo il rapporto tra Galgano e i costumi e i rituali cavallereschi portati in Italia e nella Tuscia dai Longobardi con la presenza a Montieri per lungo tempo di una nobiltà locale che di essi era erede, sarebbe possibile ipotizzare che la Canonica, sorta come luogo di culto in relazione alla sepoltura annessa, abbia avuto la sua origine nella tardiva prosecuzione dei costumi funerari dei Longobardi di venerare la memoria di un loro antenato o di un personaggio insigne con la costruzione di un edificio di culto sopra o nelle immediate vicinanze della sua sepoltura, edificio attorno al quale si andava man mano a costituire un cimitero, come quello riportato alla luce a Montieri e a somiglianza di quanto si può riscontrare nelle necropoli longobarde della Toscana e delle altre regioni italiane[7].

Contro questa ipotesi vi è il fatto che nel sito della Canonica corredi funerari e altri oggetti specifici rapportabili a questo popolo o alle genti che con esso scesero in Italia, in particolare i pettini così frequenti nelle inumazioni longobarde, non sono stati rinvenuti, così come anche tracce archeologiche di altra natura. Però, poiché il cimitero inizia a formarsi circa dalla metà dell’XI secolo, l’assenza di reperti propri all’etnia longobarda potrebbe essere dovuta a quel “processo di ‘cristianizzazione della morte’ nel quale tanta parte hanno avuto le donne dell'aristocrazia longobarda e che porterà in breve tempo all'abbandono completo dell'usanza del corredo funebre[8], anche se costumi longobardi sono persistiti molto a lungo nel tempo, come fa rilevare la Francovich Onesti a proposito dei Longobardi del Sud dell’Italia[9]: “[Si tratta di] un tenace, sorprendente radicamento di questi usi e costumi fino al 1200, ben oltre la conquista normanna. Anche al di là dei singoli termini e delle tracce linguistiche, a volte permangono i concetti e le consuetudini”.

Questo potrebbe essere avvenuto a maggior ragione nelle valli delle Colline Metallifere, che, pur se vicine a grandi città come Siena e Volterra e sede di traffici intensi per la presenza di rami secondari della Via Francigena, dovrebbero aver costituito un’enclave chiusa ai nuovi costumi che si andavano diffondendo nei primi secoli del Medioevo, rimanendo, almeno nei suoi fondamenti culturali e religiosi, più vicina agli antichi costumi longobardi, come sembra di poter rilevare nella storia di Galgano.

In conclusione, non è possibile affermare con sicurezza l’esistenza di un rapporto di equivalenza tra il cavaliere Galgano, il quale essendo uomo di spada doveva essere di corporatura robusta, e l’ignoto personaggio per cui essa fu costruita, un individuo “con struttura scheletrica gracile e una statura anatomica al di sotto delle medie maschili medievali[10], né tantomeno di una corrispondenza fra gli edifici della Canonica di Montieri, a base esapetale, e della Rotonda di Montesiepi, a pianta circolare. Rimane però il mistero delle origini e del significato di questa insolita e rarissima struttura e del personaggio che ne fu all’origine, del quale stranamente si è perso il ricordo già dopo appena un secolo dalla prima notizia certa della Canonica che risale al 1137, considerato che egli doveva essere deceduto tra il 981 e 1033[11].

 

Appendice: La “Leggenda del Cavaliere della Barcada”

 

Sull’origine della Canonica e sul misterioso individuo che venne sepolto in essa non abbiamo prove certe, ma forse un’indicazione ci può venire dal folklore locale, se, come spesso è dimostrabile, nei miti, nelle leggende e nelle fiabe si può riconoscere un nucleo di realtà storica, il residuo di fatti storici e di rituali iniziatici andati perduti o dimenticati, come ha documentato Propp per le cosiddette “fiabe di magia” [12], e l’Ersoch per le “fiabe iniziatiche”[13].

Esaminiamo quindi il contenuto di una leggenda presente a Montieri concernente un misterioso “cavaliere” e il suo tesoro, da cui è possibile trarre un’ipotesi (e sottolineiamo che di ipotesi si tratta) che potrebbe aiutare a comprendere l’origine della Canonica di San Niccolò.

Nel suo libro sulla Canonica di Montieri, Negrini[14] riporta una leggenda, nelle due versioni di racconto e di filastrocca (o meglio potremmo dire di “ballata”), recuperata nello scorso secolo da un erudito montierino rimasto anonimo[15]. La storia, riferita da Negrini con il nome di “Leggenda del Cavaliere della Barcada”, si presenta per molti aspetti interessante, considerato che una leggenda è molto spesso ciò che rimane a livello di ricordo popolare di eventi realmente accaduti. Per altro secondo le recenti ricerche sullo scheletro dell’ignoto personaggio seppellito presso la Canonica di San Niccolò costui sarebbe stato probabilmente un eremita, un personaggio gracile e malnutrito, di aspetto ben differente da quanto ci si aspetterebbe da un cavaliere.

La “Leggenda” di Montieri presenta una serie di azioni che possono essere interpretate secondo i canoni di analisi delle “fiabe di magia”, per cui proveremo a esaminarla come tale, rimandando ai testi di Propp e di Campbell per una conoscenza approfondita degli strumenti di analisi delle “fiabe di magia”.

Riportiamo le due versioni della leggenda così come trascritte da Negrini, la prima in prosa secondo il testo originale:

Pare che al tempo di Carlomanno giungesse un giorno in questa nostra terra un cavaliero in groppa al suo destriere ed in alta montura ma dall’aspetto talmente malparato e dall’orrendo fetore così che la gente fuggisse al suo cospetto per paura che fosse appestato e già morto; costui era conquiso e vinto, gravemente ferito e grondante di sangue e la sua corazza era coverta di fango; pareva privo di vita (o forse già lo era). Solo una donna ebbe pietà di lui e lo condusse in un luogo ove altre pie donne dispensavano assistenza agli infermi. Quando fu ridestato dalla sua catalessia, l’uomo si mise a parlare una lingua forestiera ma parve intendersi che il suo nome fosse: cavaliere della Barcada, ma che donde sia tale luogo non è dato di sapersi. L’uomo fece intendere di avere fatto molte guerre per mare e per terra e dopo tanto scempio e tanto orrore avesse perso il senno e si fosse trovato a passare per quei nostri luoghi senza conoscerne la ragione. Tanto la sua salute era malferma che le pie donne si profusero per il meglio per migliorarne lo stato e, Dio il voglia, l’ottennero. Grandissima fu la loro sorpresa nell’accorgersi che sotto al fango il cavaliere teneva l’armadura e catafratta che erano fatte d’oro e che avesse seco gran tesori, frutto del saccheggio nelle sue imprese. L’uomo visse ancora alcuni anni ed alla morte lasciò sua ricchezza a quelle donne, che la destinarono alla costruzione di uno spedale”.

La seconda versione è in forma di ballata:

“In sta tornata

a quel de la Barcada

darsi anchor la voce

che ne portam la Croce[16].

Il silenzio è tuo parlare

Sajacomo[17] debbi ascoltare

dentro al chore e dall’Altare.

Lui dell’antico cavaliero

giunto in groppa al suo destriero

nella selva di Monfero,

pole gesto suo imitare

che ferro vorse piantare,

pace e argento coltivare”.

Una leggenda anch’essa incentrata sulla figura di un cavaliere proviene dalla località di Cagnano, paese a sud di Montieri, ma diversa come contenuto[18]: in questo caso il cavaliere non dona ma nasconde il suo tesoro, che è possibile scoprire solo ogni cinquant’anni quando in una delle famiglie del paese compare un misterioso libro nel quale sono contenute le indicazioni per trovare il posto in cui il tesoro è celato; tre persone devono andare di notte alla sua ricerca, una con il libro, la seconda con una lanterna e la terza con la pala per scavare e disseppellire il tesoro del cavaliere.

Se si riuniscono gli elementi presenti nei due testi in prosa e in rima, abbiamo questa sequenza di eventi:

  • Arrivo di un cavaliere in un luogo che egli non conosce, in cui giunge in gravi condizioni fisiche e mentali (“pareva privo di vita o forse già lo era”, stato di “catalessia”, aveva “perso il senno”);
  • Il cavaliere è uno straniero e la sua lingua è “forestiera” e non comprensibile;
  • Il luogo in cui giunge è selvaggio (la “selva di Monfero”, dove Monfero può essere tradotto come “il Monte feroce”);
  • Un tesoro portato con sé dal cavaliere (“l’armadura e catafratta erano fatte d’oro”, “gran tesori”);
  • Guarigione con l’aiuto delle “pie donne”;
  • Il cavaliere “pianta” il suo “ferro”, cioè abbandona o meglio infigge nel suolo la spada (come San Galgano) e diviene colui che può “pace e argento coltivare”, cioè porta al paese che lo ospita ricchezza e pace. Il verbo “coltivare”, termine tutt’ora in uso quando si parla di sfruttamento di una miniera, potrebbe essere in rapporto con i giacimenti di ferro e argento di cui la regione di Montieri è ricca;
  • Il cavaliere fa dono delle ricchezze che ha portato con sé alle “pie donne” prima della morte.

Possiamo ritrovare nella storia del cavaliere le principali “funzioni”[19] che caratterizzano la “fiaba di magia” e proprio nell’ordine sequenziale specifico di questa categoria di fiabe, ordine che costituisce una loro caratteristica in quanto è proprio la successione fissa degli avvenimenti a rappresentare uno degli elementi che distingue la “fiaba di magia” dalle fiabe per così dire “ordinarie”, semplici racconti che si possono sviluppare con temi e modalità differenti, a differenza della prima che ha una sua precisa struttura, con eventi raggruppabili in classi definite e un ristretto numero di personaggi principali, in quanto altro non è che il residuo folklorico di quelli che in un tempo arcaico erano i miti e i riti della società nella quale la fiaba è stata trasmessa.

Propp, seguendo i principii più rigorosi del marxismo scientifico (essendo vissuto al tempo di Stalin), assegna a ciascuna “funzione”, cioè a ogni azione della fiaba[20], una lettera o un simbolo trasformando le fiabe in vere e proprie “formule matematiche”, che nel caso della Leggenda di Montieri si può così trascrivere: ↑ A6 z1.

La “formula” si traduce in questo modo: l’eroe compie un viaggio (funzione “↑”: “partenza”) ed è ferito (funzione “A6”: “è arrecata una lesione fisica all’eroe”), giunge in un luogo sconosciuto, la “foresta misteriosa”[21], la “selva oscura ed aspra e forte” di Dante, dove viene soccorso dalle donne che gli restituiscono la salute rivestendo il ruolo detto del “donatore”, in questo caso non di mezzi magici ma fisici (funzione “z1”: “dono di una qualità materiale”). A questo punto l’eroe diviene a sua volta donatore: assumendo la funzione definita come “il morto riconoscente”[22] lascia alle donne il suo tesoro (funzione “C°”: “premio in denaro o arricchimento”).

Il significato di questa inversione di ruoli si comprende alla luce delle osservazioni di Campbell, il quale individua due fasi distinte sia nella fiaba che nel mito: il passaggio da ricevente a donatore costituisce il naturale compimento della seconda fase del racconto, cioè la “trasformazione dell’eroe[23] al di là dei limiti dell’umano e la distribuzione agli uomini del “dono” acquisito, che può essere materiale, magico o spirituale, come la restaurazione dell’ordine primordiale o la via della liberazione (Campbell ritiene che questo sia il significato delle vite del Cristo, del Buddha e di altri personaggi analoghi, che legge alla stregua di un mito: si abbia presente che l’Autore è uno psicologo e non uno storico delle religioni o un credente).

Ma le molteplici implicazioni contenute nella leggenda di Montieri vanno oltre gli schemi di Propp e di Campbell, a partire dal nome che riceve il personaggio principale sulla base della sua provenienza o qualifica: il “Cavaliere della Barcada”.

La lingua in cui parla il soggetto del racconto è “una lingua forestiera” ed è mal comprensibile, e il suo luogo di provenienza, che le donne percepiscono come “Barcada” nel balbettare dell’uomo ferito e semi-incosciente, presenta altri significati possibili oltre quelli descritti dal Negrini, il quale legge in “barcada” una parola spagnola nel senso di “barcata… carico trasportato con un’imbarcazione, una nave o mezzi simili[24], anche se di barche nella leggenda non ce ne sono ma con riferimento alla quantità di ricchezze che il cavaliere porta con sé.

Proponiamo come possibile ipotesi alternativa[25] che la parola “barcada” possa risalire alle radici indoeuropee *bhark e *kad, due radici da cui derivano termini che nelle lingue germaniche e celtiche hanno significati interessanti: *bhark in celtico indica “abbondanza” e *kad sia in gotico che in celtico “forte emozione contrastante, amore-odio, offesa-ira, dolore-tristezza”[26]. La prima radice potrebbe riferirsi alle ricchezze portate dal cavaliere o a quelle che dona a Montieri con la “coltivazione” delle miniere, e la seconda al suo orrore per la guerra che gli ha fatto perdere la ragione (“l’uomo fece intendere di avere fatto molte guerre ... e dopo tanto scempio e tanto orrore avesse perso il senno”) e alla fine lo porta per amore delle “pie donne” a donare tutte le sue ricchezze.

Il cavaliere è quindi al contempo simbolo dell’abbondanza e di intensi sentimenti confusi, che potremmo riferire, considerato che le “fiabe di magia” contengono anche il ricordo di riti iniziatici, a quella fase di trasformazione spirituale individuabile come il momento di “passaggio” in cui i sentimenti e i ricordi emergono dal profondo e possono destabilizzare l’operazione iniziatica che si sta realizzando. Il fatto che il soggetto sia straniero sottolinea la sua non appartenenza al mondo in cui è arrivato, da considerare un mondo intermedio tra umano e oltreumano, qualora le “pie donne” che lo soccorrono possano essere identificate in quegli “spiriti angelici” che aiutano o ostacolano nel percorso di realizzazione colui che prova a superare la soglia del limite, e che il “luogo” sia sconosciuto e pericoloso lo dice il nome che gli viene dato di “Monfero”, leggibile come “monte feroce”.

Il cavaliere giunge a Montieri in pericolo di morte, “gravemente ferito e grondante sangue”, e solo grazie alla cura delle donne “fu ridestato dalla sua catalessia”: lo stato in cui egli si trova si può interpretare come il momento culminante dell’iniziazione, in cui si deve attraversare (e non solo metaforicamente) il Regno dei Morti. Il suo stato di “catalessia”, se il termine è correttamente riportato dal testo originale, trova il suo significato in quanto scrive Filippani Ronconi: la “catalessi” è il quarto stato, oltre la veglia, il sonno e il sonno profondo, che nella Mândukya Upanişad è riferito al raggiungimento dello stato di compimento e di perfezione nel corso del percorso iniziatico. “Il Quarto stato, al quale corrisponde l’esperienza (vegliante!) della catalessi, non si somma ai precedenti tre stati come loro ultimo, bensì è immanente in ognuno di loro, come atto di pura autoconoscenza nella realizzata identità di âtman e di brahman, di spirito incarnato e di spirito universale[27].

Sembra pertanto che la “fiaba” sottintenda che il cavaliere stia compiendo un iter iniziatico, in cui è assistito da entità femminili capaci di “guarire”, che possono essere identificate, come suggerisce Negrini, con entità “angeliche” protettrici; si potrebbe trattare di un’allusione alle Lasa etrusche o alle Fravashi del mondo indoiranico (cultura a cui appartenevano i Longobardi come epigoni dei Rittervölker, i Popoli dei Cavalieri delle Steppe euroasiatici), figure complesse prossime al nostro concetto di “angelo custode” ma anche essenza immortale di ogni individuo, create da Ahura Mazda prima dei tempi per combattere gli spiriti del Male.

 Con l’aiuto di queste entità l’eroe realizza la pienezza iniziatica e i “tesori” che sono nascosti sotto il fango e il sangue possono venire alla luce e manifestarsi per venire donati alle “pie donne”: questa “donazione” potrebbe significare che l’eroe è arrivato al di là della condizione “angelica”, cioè della condizione intermedia tra l’essere umano e il Principio, per cui può “arricchire” il mondo angelico con la sovrabbondanza del suo “stato glorioso”.

 

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[1] “Longobardi” in senso lato, in quanto numerosi e diversi furono i popoli che nel VI secolo seguirono la migrazione dei Longobardi in Italia.

[2] La sacralità della spada presso i Cavalieri delle Steppe era già ad Erodoto nel IV sec. a.C., il quale, scrivendo a proposito degli Sciti, tramanda che questi, come atto di venerazione riservato al solo “Ares” (il loro Dio della guerra, che Erodoto identifica con il nome greco), costruivano una catasta di legna da ardere e su di essa una piattaforma quadrangolare di legno sulla quale “viene piantata una spada antica di ferro, a mo’ di immagine di Ares” (Erodoto, Storie IV, 62). Più tardi nel IV sec. d.C. Ammiano Marcellino dà analoghe informazioni per il popolo degli Alani: “Presso di loro non si trovano templi o santuari, ma onorano devotamente solo una nuda spada piantata in terra secondo un rito barbaro, simbolo del loro Dio della guerra” (Ammiano Marcellino, Res gestae, XXXI, 2, 23).

[3] Alexander Leskov (a cura di), I tesori dei kurgani del Caucaso settentrionale, Roma 1990, pp. 24 ss.

[4] Il kurgan è una costruzione a pianta circolare, in genere con una bassa cupola, ricoperta di terra a formare una piccola collina, il cui uso è di solito tombale. Esso è tipico delle popolazioni dei Cavalieri delle Steppe e la forma probabilmente si rifà a quella delle abitazioni, così come in Armenia la chiesa paleocristiana ha la forma dello yerdik, l’antica casa armena.

[5] Georges Dumézil, Il libro degli Eroi, Milano 1969, pp. 175-212, in particolare pp. 190-191.

[6] Mario Moiraghi, L’enigma di San Galgano, Milano 2003, p. 200.

[7] Un elenco delle associazioni tra necropoli longobarde e chiese costruite all’interno di esse o sopra una sepoltura di particolare rilievo sarebbe troppo lungo a farsi: ricordiamo per tutte le necropoli di San Martino a Trezzo sull’Adda presso Milano, di Castel Trosino ad Ascoli Piceno e, per la Toscana, a Gropina vicino Arezzo.

[8] Paroli, La necropoli di Castel Trosino.

[9] Nicoletta Francovich Onesti, I Longobardi nel Sud: cultura scritta e tracce linguistiche, in Id. Le regine dei longobardi e altri saggi, Roma 2013.

[10] Bianchi, Archeologia dei beni pubblici, p. 113.

[11] Valori massimi 947-1049 (Bianchi, Archeologia dei beni pubblici, p. 113 nota 10).

[12] I libri di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba (Roma 1992 – I edizione russa: 1928) e Le radici storiche dei racconti di magia (Torino 1985 – I edizione russa: 1945) e di Joseph Campbell, in particolare L’eroe dai mille volti, Parma 2000 (I edizione USA: 1949) costituiscono i testi fondamentali per lo studio delle fiabe e in particolare delle “fiabe di magia”. Gianfranco Ersoch, nel suo Il simbolismo iniziatico delle fiabe di magia (Roma 2014), inserisce nella categoria delle cosiddette “fiabe di magia” una forma differente, la “fiaba iniziatica”, applicando ai rituali iniziatici le differenti modalità di analisi delle fiabe e dei miti secondo Propp e Campbell, altro fondamentale autore che ha trattato l’argomento.

[13] Ersoch, Il simbolismo iniziatico, inserisce nella categoria delle cosiddette “fiabe di magia” una forma differente, la “fiaba iniziatica”, applicando ai rituali iniziatici le modalità di analisi delle fiabe e dei miti individuati da Propp e da Campbell, altro fondamentale autore che ha trattato l’argomento.

[14] Negrini, La leggenda del Re Minatore, pp. 52-53 e p. 61.

[15] Nel testo dell’anonimo montierino riportato da Negrini viene detto che fu un tal fra’ Serafino a raccogliere la leggenda “come si raccontava a Montieri alla fine del ‘700”.

[16]Ne portiamo la croce”: l’ignoto autore fa forse riferimento a una societàs di Montieri di nome di “Compagnia dei Cavalieri della Croce e del Pugnale”, le cui origini potrebbero risalire a quelle Compagnie di “Lambardi” di cui abbiamo detto nella Parte Prima o più precisamente, secondo Negrini, La leggenda del Re-minatore p. 48, a Biagio Capizucchi, primo Marchese di Montieri nel XVI secolo.

[17] San Giacomo Maggiore è il protettore di Montieri, a cui è dedicata la chiesa del XIII sec. ricostruita internamente in tempi recenti; ma si potrebbe trattare anche di San Giacomo Papocchi di Montieri, morto nel 1289 e molto venerato nel paese, il quale condusse per penitenza vita da recluso per quarantasei anni in una grotta, ora trasformata in cappella, sotto la chiesa di San Giacomo Maggiore, di cui a quel tempo avevano la giurisdizione i Cistercensi della vicina Abbazia di San Galgano.

[18] Ringraziamo la Dr.ssa Elena Signorini per l’informazione su questa variante della leggenda di Montieri.

[19] La cui lista completa è presentata con minuzia da Propp, Morfologia della fiaba, Appendice IV pp. 120-125.

[20] Come scrive Propp: “Per ‘funzione’ si intende l’atto del personaggio, ben determinato dal punto di vista della sua importanza per il decorso dell’azione” (Morfologia della fiaba, p. 27; sottolineatura nel testo).

[21] Propp descrive ma non dà un simbolo al luogo della “foresta” (Le radici storiche dei racconti di magia. pp. 177-179).

[22] Anche in questo caso Propp descrive il personaggio del “morto riconoscente” ma non gli assegna un simbolo specifico (Le radici storiche dei racconti di magia, pp. 272-273).

[23] Campbell, L’eroe dai mille volti, p. 41. Rimandiamo al testo di Campbell per il significato delle due fasi da lui individuate nel mito e nella “fiaba di magia”.

[24] Negrini, La leggenda del Re Minatore, p. 53.

[25] Altra ipotesi etimologica, proposta da Giuseppe Ruggiero, potrebbe essere dall’arabo bar e kader: “il figlio del potente”.

[26] Vocabolario di Indoeuropeo, in http://starling.rinet.ru/, sito gestito dalle Università di Stato di Mosca, di Leida, di Hong Kong e di Santa Fè, consultato 25 Maggio 2015.

[27] Pio Filippani Ronconi, I molteplici stati di coscienza nello yoga e nello sciamanesimo, in “Simmetria”, 3 (2002), pp. 11-20.

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