Itinerario nei luoghi e nelle memorie del sacro Graal - Prima Parte - (di A. Bonifacio)

Itinerario nei luoghi e nelle memorie del sacro Graal

1365 RIDOTTA da Wikipedia gnu licenza WSacro Catino Graal 

il sacro Catino della cattedrale di San Lorenzo a Genova

Immagine di “copertina” https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sacro_Catino_Graal.jpg GNU Free Documentation License,

Nelle cerchie più o meno specializzate, si studiano gli aspetto storici, letterari e filosofici, mistici, ascetici della leggenda del Graal, che alcuni considerano anche come una specie di profezia, o di tema chiave riportandosi a un corpo di insegnamento orale, altamente tradizionale ed oggi segreto, che riappare a intermittenza, nel mondo religioso, custodito si dice, da depositari di una élite provvidenzialmente favoriti in vista di questa missione

(Louis Charbonneau Lassay)

Prodromo

“Quando Lucifero, rivoltatosi contro Dio nelle altezze dei cieli, fu vinto da Michele l’Onnipotente prima di precipitarlo nell’Abisso, fece cadere ai suoi piedi l’incomparabile smeraldo che ornava e proteggeva la sua fronte come un abbagliante diadema. Poi, quando Dio creò nell’Eden la prima coppia umana, fra le altre meraviglie vi pose una coppa senza uguali, tagliata da nello smeraldo di Lucifero dai gioiellieri del Cielo… Ma Eva ed Adamo peccarono contro il Dio tre volte santo, e l’angelo inesorabile che brandiva la Spada folgorante li cacciò dall’Eden senza che essi avessero avuto il tempo di prendere con sé la coppa arcangelica, il Graal. Infine, essendo terminati i loro giorni terrestri ed avendoli i loro figli resi alla terra, Seth il figlio di Adamo che il Signore gradiva, ottenne da Lui di rientrare nell’Eden abbandonato per prendere il Graal, che nelle sue mani, passò in quelle di Enoc, suo figlio. Durante il Diluvio il sacro vaso si perdette e nessuno sa cosa gli accadde fino al giorno in cui Gesù, alla vigilia della propria morte, riunì i suoi discepoli nel cenacolo, per celebrarvi con loro la loro ultima Pasqua. Ed Ecco che davanti a Lui trovò il Graal , tutto pieno di vino, e Gesù dopo aver distribuito ai discepoli il Pane, che aveva detto essere ikl suo stesso Corpo, si rivolse al Vaso pieno e disse ancora: Questo è il mio sangue. (C L. 174)

Introduzione

«Non oso raccontare né svelare queste cose; e non sarei in grado di farlo nemmeno se volessi, qualora non avessi il Grande Libro in cui sono scritte le storie redatte dai grandi sapienti: qui sono tramandati i grandi segreti denominati "segreti del Graal".» De Boron Robert, Le roman du graal; p 31.

Il tema del Santo Graal è tra quelli che affascinano in modo particolarmente coinvolgente noi contemporanei visto il proliferare incessante di pubblicazioni che lo riguardano. Sull’argomento sono disponibili in quantità saggi, romanzi, articoli e opere cinematografiche che, direttamente o indirettamente, si rifanno a tale simbolo e che spaziano dalla saggistica più competente alla pura evasione commerciale. Ovviamente in questo articolo non si vogliono aggiungere contributi nuovi legati al tema, tanto approfonditamente studiato e sviscerato sotto diversi aspetti da studiosi valentissimi, piuttosto ci si propone di evidenziare qualcuno di quei luoghi e di quei reperti dove la “leggenda graalica” ha lasciato una qualche testimonianza, più o meno accessibile, della presenza del “Santo Graal”

Ricordiamo che queste testimonianze giungono ai nostri tempi un poco di “straforo” e indirettamente nel senso che è ben evidente che non è mai esistito nella chiesa cattolica un vero e proprio culto del “sacro calice” anche se esemplari di ”coppe” sono offerti alla attenzione (se non alla devozione) come il Sacro Catino, conservato nel Museo della cattedrale di San Lorenzo a Genova, e parimenti la coppa dell’Ultima cena di Valencia posta in un ambiente ad esso dedicato[1].

Il fulcro narrativo del tema della sacra coppa si trova nella Trilogia di Robert de Boron conosciuta come Il libro del Graal e i temi che riguardano la sua latente presenza e quella che a ciò si accompagna (ad esempio la lancia di Longino) hanno una presenza tutt’altro che irrilevante nell’iconografia cristiana e nei reliquiari e sulle tracce di queste testimonianze poniamo questo lavoro.

Una precisazione preliminare s’impone. In questa disamina si è voluto aderire all’angolo di lettura del tema, così come è stato inteso da alcuni autori di orientamento “tradizionale” (compreso ovviamente lo Charbonnau Lassay precedentemente menzionato) e siamo consapevoli che così dicendo mettiamo nello stesso calderone interpreti di diversa opinione, tutti comunque accomunati da un unico denominatore ovvero quello di considerare l’”esperienza del Graal”, sia che essa sia letta in chiave prevalentemente “pagana”, sia che sia letta in chiave cattolica, come l’esito di una esperienza trasfigurativa reale.

Non essendo certamente questo un saggio specialistico possiamo concederci la facoltà di parlare con una certa elasticità del tema, senza ricorrere a continue e pedanti precisazioni, ma senza comunque tralignare i limiti di correttezza di una esposizione certamente di ispirazione tradizionale ma non per questo ascientifica.

Premesso ciò si può affermare che la letteratura più “ispirata” (e non meramente imitativa del tema) è ricompresa in un arco temporale di non casuale estensione che va dall’ultimo quarto del XII al primo quarto del XIII quasi ci fosse stata la volontà di far emergere tali contributi narrativi a fini metapolitici per poi far riassorbire la materia nell’ombra.

In questo ambito ci si trova di fronte a quattro testi scritti da autori di diversa nazionalità, ovvero due francesi e due tedeschi, in cui appare abbastanza evidente, a chi abbia maturato una certa sensibilità in proposito, un certo uso sapienziale della complessa simbologia utilizzata.

In questi scritti il fuoco narrativo è posto su un oggetto, diversamente qualificato, la cui sola presenza, unita a uno specifico rituale, assume contenuti straordinariamente soteriologici, non solo inerenti la “salvezza” personale (o la realizzazione tout court) ma, in una prospettiva ben più ampia, attraverso esso si indirizza la restaurazione stessa dell’istituto della regalità gravemente messo in crisi dallo stato letargico di un sovrano irrimediabilmente ferito e di cui si auspica una guarigione che appare conseguibile solo per vie “inconsuete”. La vicenda del Graal assume toni metapolitici perché mostra il tentativo di ottenere la restaurazione di un un regno terreno di impronta spirituale in un’era storica in cui ciò appariva ancora possibile. Il tentativo però fallisce e questo conduce al ritiro di quelle stesse forze che avevano tentato di re-suscitare il regno primordiale attraverso la forza trascendente del simbolo graalico. Il regno è quindi ormai insterilito e la discesa catabasica prosegue fino a giungere al tempo attuale, con l’intermezzo del tentativo di recupero wagneriano.

Si è precedentemente parlato del Graal in maniera indefinita come “oggetto” perché, nella letteratura cui faremo riferimento si parla di esso come un qualcosa di “tangibile” ma di forma non definita e per questo esso è stato indicato in reperti diversi. Sostanzialmente però il Graal è un “contenitore” che raccoglie qualcosa di estremamente sacro e che conferisce grandi poteri al suo detentore quando costui è qualificato a riceverli. Tali poteri, che sono conseguenza di un o stato spirituale e non fine a se stessi, possono essere,  esempio, la possibilità di non alimentarsi o il potere di risanare.

Dato che siamo in premessa distinguiamo in un flash  i quattro scritti cui si farà riferimento. 

Il primo scritto che fa parte di questa ideale “collana” proviene dal francese Chrétien de Troyes dove il protagonista è il Perceval da qui il titolo dell’incompiuto Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, ossia Parsifal o il racconto del Graal (seguito da tre  Continuazioni” di diversi autori. Qui non si parla del Graal in relazione al calice cristico ma lo si descrive come un “piatto” o “vassoio” comunque come un contenitore che, nelle circostanze, deve contenere una “cosa sacra” che sarà poi individuata nell’Ostia che nutre il re Pescatore (o peccatore?). Il tema di fondo del poema si presenta come apparentemente “pedagogico”, proponendosi di “guarire” la cavalleria terrena dalla sua tendenza alla gratuita guasconeria perché, mettendosi i cavalieri al servizio del Re con spirito disinteressato, redenti dalla loro rozzezza, potranno apportare un beneficio universale come dire un passaggio dalla cavalleria terrena a quella spirituale 

Il secondo degli autori che qui si presentano è Robert de Boron con la sua trilogia intitolata Il Iibro del Graal (che comprende Giuseppe di Arimatea, Merlino, Perceval). Qui lo scenario muta completamente e da quasi totalmente celtico come in Chrétien si fa cristiano. Il Graal è qui rappresentato da una ciotola, da un vaso, verosimilmente in terracotta, che è stato utilizzato da Cristo nell’Ultima cena e che il giorno della crocifissione è stata utilizzata da Giuseppe di Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo-Gesù, fuoriuscito dalla lacerazione al costato prodotta dalla lancia di Longino.

Il terzo poeta che interviene sul tema è, come detto, il tedesco Wolfram Von Echembach che si discosta dalle narrazioni precedenti, cui comunque è fortemente ancorato, in quanto tratta del Sacro Graal come una pietra preziosissima (di cui si parlerà nel corso dell’esposizione). Da questa pietra preziosa di smeraldo fu intagliato il “Graal”  (secondo certe regole aritmosofiche che si collegano al tema della morfologia numerica della Gerusalemme celeste) che raccolse poi il sangue di Cristo

Infine il quarto narratore è Albrecht (in precedenza noto come Albrecht, von Scharfenberg),   che scrive in “alto tedesco medio” ed è l'autore del cosiddetto„ “Jüngere Titurel“ (circa 1260-75), completamento e continuazione del frammento del Titurel di Wolfram von Eschenbach. Albrecht, nella sua citata opera, connetterà il Graal alla costruzione di un edificio sacro, anch’esso dalle precise misure aritmosofiche, come evidenzia Nuccio d’Anna in un suo scritto dedicato specificamente a Wolfram Von Echembach, che dovrà custodire il Graal portato dagli angeli. Le predette misure che sono anch’esse in relazione con la pietra-coppa, così come con la Gerusalemme celeste. In questo caso oggetto della sua narrazione è il contenitore del Graal ovvero l’edificio stesso che ha il compito di proteggere il suo sacro contenuto ed è davvero mirabolante constatare, grazie a uno studio di Titus Burckhardt. come nella circostanza si sia di fronte a un costante utilizzo di sottomultipli del ciclo precessionale. Siamo quindi passatio da un semplice “piatto” a una costruzione aritmosofica complessa del Graal e del Santuario -Castello che lo ospita 

Giunti a questo punto dell’introduzione appare evidente come essa già appaia gravida di molte premesse che si intrecciano tra loro e, per disegnare una cornice, un perimento che faccia da limite argomentativo ai numerosi approcci che si possono adottare al tema, facciamo nostra una esortazione principiale di H. Corbin intorno all’angolo visuale con cui questi propone di interpretare tale peculiare letteratura. Questi scrive:”Per ‘spiegare’ i vari aspetti del ciclo del Santo Graal sono stati profusi, per molte generazioni, tesori di erudizione filologica. Sfortunatamente il metodo dello storicismo letterario (come i rischiosi virtuosismi della psicanalisi) è inadeguato al compito che qui ci interessa. Bisognerebbe augurarsi che, come la Bibbia, anche il ciclo dei Poemi del Graal   nel suo insieme venisse letto dai “credenti” non come un corpus letterario ma come la “Bibbia del Santo Graal”, e allo stesso modo in cui Filone, un Origene, uno Swedemborg  hanno letto la Bibbia. Molti non vedono o non vogliono vedere nella Bibbia nessun senso esoterico. Tuttavia, secolo dopo secolo, questo senso esoterico, nei suoi molteplici aspetti, si è imposto alla lettura di coloro che sapevano leggere” (H. Corbin 1983, 236).

La “comprensione” del testo “esoterico” non è certamente fine a se stessa ma mira a una precisa finalità: concorrere al mutamento ontologico del “lettore”. Peraltro, anche rimanendo in una dimensione devozionale, possiamo comunque scorgere questa possibilità nelle successive parole di Nuccio D’Anna; “C’è tutta una corrente di alta spiritualità sviluppatasi all’interno dell’Ordine cistercense che mira al superamento di ogni dualismo concettuale, tende a esaurire tutte le possibilità conoscitive della ragione e ad attingere a uno status interiore nel quale si riteneva possibile esperire la radice metafisica delle due ‘Qualità divine’ designate come Conoscenza e Amore“: (Il santo Graal: Mito e realtà, p. 116)   

La chiara proposta di H. Corbin non appaia isolata. In qualche modo l’idea dell’intima connessione dei vari testi che trattano in maniera sapienziale la Materia del Graal, offrendo uno schema rivelativo che appare articolato in ordine progressivo, si palesa esplicitamente nel non recente studio evoliano sul tema. Questi difatti scriveva: ”Così noi dobbiamo partire dall’idea di una fondamentale unità interna dei vari testi, con le varie figure, i vari simboli, e le varie avventure ad essi proprie e dobbiamo scoprire la capacità latente dell’un testo a integrare o continuare l’altro, fino alla completa precisazione di alcuni temi fondamentali” (J. Evola:1962,18)

Un molto più recente studio, giunge, per vie proprie, a conclusioni accostabili a quelle appena riprodotte. Mario Iannarelli, studioso del tema del Graal di dichiarata scuola steineriana, considera difatti le opere dei già nominati quattro poeti come l’espressione di una collana di elementi coordinati gerarchicamente tra loro il cui scopo afferma è di suggestionare i lettori affinché questi ne apprezzino lo sfondo sapienziale dal momento che “non ho timore a definire [questi testi, ndr] come ‘vicini’ ai misteri dell’iniziazione”, iniziazione, insistiamo, prettamente e strettamente cavalleresca che mira alla trasformazione del cavaliere terrestre in cavaliere celeste.

La chiave di lettura del “corpus graalico”, proposta dallo Iannarelli in aderenza al suo sfondo steineriano, rifugge, ovviamente, il ghibellinismo evoliano e incentra le sue argomentazioni sulla concezione propria del suo maestro intorno al significato della ferita al costato del Cristo e sulla successiva dispersione del suo sangue considerato l’evento come “un processo di eterizzazione del sangue di Gesù Cristo”, traendo fonte  per questa citazione da uno scritto dello stesso Steiner dal titolo “Il Cristianesimo esoterico””(Sulla via del Mistero alla sapienza del Graal, in: Antroposofia rivista, anno CXI, n. 6).

Infine non possiamo certo omettere di citare un autore di cui, al di fuori da proprio ambito, non si sente parlare spesso ma che meriterebbe invece maggior attenzione di quanta gliene sia attribuita attualmente nell’ambito dell’esoterismo cristiano. Parliamo qui di Tommaso Palamidessi, che nel suo quaderno Esperienza misterica del Santo Graal - (Quaderno di Archeosofia n.18) delinea il senso della letteratura graalica. la cui sapienzialità l’autore restringe anch’egli a un cinquantennio, in conformità a quanto appena rappresentato in premessa, insistendo sul carattere assolutamente iniziatico delle avventure dei cavalieri e sulla indole pericolosa delle loro avventure come è letterariamente mostrato dai numerosi incidenti, spesso fatali, in cui incorrono tutti gli aspiranti. Tali “avventure” per qualcuno si conclude in maniera ferale a causa della assenza o scarsa qualificazione dell’aspirante

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Fig.1 Icona della Trinità

Questa celeberrima icona di Andrej Rublev denominata la Trinità o la Filossenia di Abramo è considerata come la prefigurazione dell’Eucarestia vista la presenza del calice posato al centro di un tavolo tra le tre figure angelicate Secondo la tradizione, il soggetto raffigurato sulla sinistra è Dio Padre, al centro è collocato Gesù, mentre sulla destra è presente lo Spirito Santo  La geometria del dipinto è concepita secondo le regole della prospettiva inversa in cui non è l’occhio dello spettatore a entrare nella rappresentazione, quanto piuttosto il contrario. Difatti è la stessa coppa, che appare essere il fuoco del dipinto, a “uscire” da esso. D’altronde la sagoma complessiva dei contorni interni delle tre immagini forma a propria volta una coppa che viene così colta da chi osserva quasi in forma subliminale. L’uso della prospettiva inversa suggerisce la bontà dell’interpretazione di Henry Corbin secondo la quale la forma di contemplazione e partecipazione suggerita da questa composizione sarebbe atta a risvegliare la dimensione angelica del contemplante. Richiamando il brano iniziale di questo lavoro, circa l’esistenza all’inizio del tempo di tale  calice, ricordiamo che la vetustà della coppa eucaristica è stata anche “asseverata” dalla mistica visionaria Caterina Emmerich con queste parole: “La parte inferiore del vasetto era di oro puro; vi si ammiravano artistici fregi, tra i quali una serpe e un grappolo di uva; su di esso erano incastonate inoltre pietre preziose. Il calice era stato di Melchisedec e di Abramo; era rimasto dentro l’arca di Noè.”

Prima di iniziare il nostro itinerario converrà ulteriormente precisare un dato chiarificatore preliminare. Il ciclo del Graal, che si può definire sapienziale, nasce nel medioevo ma gli oggetti che fanno parte dei “parafernalia” di questo complesso, almeno nella sua declinazione cristiana, erano già stati reliquie di culto secolare senza che per questo motivo abbiamo generato letterariamente qualcosa di simile a ciò che accadrà nella forbice temporale sopra indicata. Converrà quindi preliminarmente parlare della “preistoria” delle “reliquie” perché sono sostanzialmente questi oggetti i pilastri della successiva narrazione e ciò lo si propone per inquadrare, possibilmente al meglio, il complesso retroterra che sorregge l’esposizione del nostro tema.

Inizieremo perciò a introdurci in un luogo speciale per l’ordine della nostra chiacchierata e il luogo è la basilica di San Lorenzo fuori le mura  che parrebbe sovrabbondare di indizi sul tema. Si tratta di un centro sacro che ha subito molti rimaneggiamenti nei secoli e che conserva anche le spoglie di Santo Stefano, oltre che quelle di San Lorenzo e le catacombe di Santa Ciriaca. Nel massimo del suo splendore questo palinsesto di edifici  divenne un vera e propria cittadella del sacro, per giunta fortificata, denominata Laurenziopoli. L’attuale basilica dedicata al santo, orrendamente giustiziato sulla graticola,   è stata consacrata nel 1217 in quasi perfetta coincidenza con l’apparizione degli scritti di Robert de Boron e Wofram Von Echembach, il che suggerisce la possibilità di ipotizzare gettare un significativo ponte tra “architettura” e “letteratura” un legame che verrà eventualmente rafforzato da quanto si dirà successivamente parlando di “storia” e romanzo “ierostorico”.  

Lo studioso Alfredo Barbagallo ha supposto che l’incipit della grande esplosione del ciclo graalico possa essere rinvenuto proprio in questo ipotetico deposito di reliquie alcune  delle quali, che parrebbero essere state trovate in questi luoghi, saranno poi inviate a  Mantova dove tuttora si conservano e si espongono con grande partecipazione della città. Così’ scrive il Barbagallo: “La reliquia mantovana si pone come di immediata origine della grande leggenda del Santo Graal, che nascerà poi nel secolo XIII in versione nel tempo sempre più cristiana. Per la sua eccezionale conoscenza di massa a livello europeo, appare il caso di non pensare nemmeno che tanti poeti sull’argomento – soprattutto se chierici - non fossero a conoscenza dell’esistenza del Sangue di Cristo-preservato a Mantova

Da qui cominciamo

Chiesa di San Lorenzo fuori le mura 

“Guarda tu che passi, intendi quanto sia breve la vita, e raddrizza il viaggio della tua nave all’approdo con il Paradiso, là dove il tuo porto sarà vedere il Signore. Dica ormai chiunque beva queste specie consacrate: ‘Tu sei la somma gloria, il Signore, il lume, la sapienza, la virtù, il cui [o: vero] sangue è sull’altare e sembra vino; tu nella tua onnipotenza concedi con un ‘opera di mirabile misericordia l’acqua scaturita dal tuo fianco a coloro che sono stati purificati dal battesimo’” (epigrafe presente l'interno dell’edificio e risalente al IV secolo che contiene i principi del dogma della transustanziazione)  

 

Inizieremo il nostro viaggio ideale da Roma dove le ricerche del citato Barbagallo, già attivo divulgatore di tematiche inerenti l’archeologia cristiana, sono state precedute da una intuizione (o folgorazione) circa i significati che potevano assumere alcune locali testimonianze attestanti la profonda sacertà del luogo che egli andò esplorativamente a visitare una ventina d’anni fa. Una serie di indizi convergenti, cui si farà cenno nelle pagine successive, hanno portato a far ritenere al ricercatore che il vaso che raccolse la terra bagnata dal sangue di Cristo, sgorgante dal colpo mortale inferto da Longino, sia stato conservato per secoli e, forse, sia tuttora presente in quella che attualmente è una basilica medioevale, costruzione successiva e risultato di varie modificazioni intercorse nei secoli partendo dall’originale tomba del santo che fu martirizzato nel 258 durante la persecuzione di Valeriano (si rammenta che la basilica di San Lorenzo è una delle sette chiese giubilari), Su questa tomba venne edificata la basilica costantiniana rimaneggiata nei secoli successivi. In ordine al deposito reliquiario laurenziano delle origini annotiamo che Barbagallo sostiene che l’oggetto sacro ivi conservato fosse costituito da una coppa di vetro contenente il terriccio imbibito del sangue di Cristo collocata all’origine insieme alle spoglie del martire. Inoltre, probabilmente, nel deposito  avrebbero dovuto esserci altre probabili reliquie poi disperse:

La vicenda somiglia un poco a quella della lettera scarlatta di Poe in quanto un reperto di tale importanza sarebbe stata per secoli sotto gli occhi degli ignari romani senza che costoro ne fossero a conoscenza. Solo come impressione intuitiva si può pensare che se “Cristo è romano”, se la lancia di Longino è conservata in Vaticano, se i frammenti dei chiodi della croce del Cristo sono presenti in Santa Croce a Gerusalemme, se, infine, anche il Velo della Veronica è serbato in una delle quattro nicchie dei pilastri che sostengono la cupola vaticana, anche la coppa dell’Ultima Cena (e il vaso di Longino), nella logica delle reliquie, dovrebbe trovarsi a Roma (o esservi stata) e alcune indicazioni iconografiche presenti in loco lo ricorderebbe.

È da aggiungere una indicazione importante inerente il fatto che il diacono Lorenzo sia stato nominato custode dei sacri vasi dal Pontefice durante la persecuzione di Valeriano in quanto Tesoriere della prima Chiesa. In sostanza l’ipotesi di Barbagallo, comunque accuratamente documentata ma che certamente, senza riscontri oggettivi, sempre ipotesi rimane, è che il “Santo Graal“ non sia un singolo oggetto quanto piuttosto l’antico e leggendario Patrimonio Apostolico che fu dato in custodia al diacono Lorenzo, e che fu quindi sepolto con lui, e poi, dal 590, disperso in tutta Europa assolvendo alla funzione evangelizzante che le reliquie potevano significativamente sostenere nelle nuove destinazioni missionarie. Tutto questo su disposizione del pontefice Gregorio Magno.

Questo fa si che la ricerca di Barbagallo si interseca con altri reperti reliquiari il tutto ricostruito attraverso una meticolosa documentazione fontale, sviluppata in uno scritto di oltre ottocento pagine e di cui esiste però una edizione condensata (praticamente poco più che una utilissima sinossi dei vari capitoli). Come si può notare dalla sua ricostruzione il tragitto delle reliquie apostoliche sarebbe “centripeto” da Gerusalemme direttamente alla Roma “pagana” degli imperatori e poi da Roma, frammentato il deposito in singole entità, in Europa.

L’indizio più probante della presenza del calice (e lo diciamo adesso prima di inoltrarci con maggior ampiezza nel tema) e quindi di tutta l’impalcatura storiografica che sorregge la tesi del ricercatore, si fonda sulla relazione di uno dei più importanti archeologi cristiani dell’Ottocento ovvero Giovan Battista de Rossi, considerato il padre dell’archeologia cristiana. Questi, al termine dello scavo sotto il pilastro di fondazione, operazione cui aveva assistito lo stesso Pio IX, segnalò il rinvenimento di un calice di vetro posto nel predetto pilastro senza però identificarlo con il calice evangelico ma inviandolo, con il beneplacito di Pio IX, in Vaticano per ulteriori indagini (Giovanni Battista De Rossi, Bullettino di Archeologia Cristiana, 1864, Anno 2, n.5).

Tuttavia, il reperimento di un siffatto oggetto, posto quale fondamento di un luogo sacro di tale importanza, richiama il ruolo “animante” espletato da tali “oggetti e/o persone” la cui funzione spirituale nelle operazioni di fondazione è stata brillantemente analizzata nel testo dell’Eliade I riti del costruire. Questa opera offre precisa contezza di tutta la potenza che scaturisce dall’incorporazione di una “reliquia” (o, comunque, da un elemento di massima sacralità), in un edificio dedicato al culto di un martire, una sacralità che, quasi per sovrannaturale “contagio”, trasforma le mura in uno speciale “organismo di pietra”.

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Fig 2 (varie) Mosaico con il calice

Dal calice sembrano fuoriuscire otto elementi pittografici d’incerta funzione. Da informazioni assunte in loco è stato riferito allo scrivente che il  25 aprile si celebra la giornata mondiale laurenziana e, nella circostanza, viene portato un calice in memoria del martirio del santo  (fonti: archivio personale a e b. L’immagine c è tratta dal testo di Barbagallo p.24 che la riproduce dalla fonte otticentesca

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La basilica di San Lorenzo presenta molte singolarità simboliche che non riguardano il nostro tema ma, seppur qui appena dopo citate alla rinfusa, corroborano l’idea di una speciale sacralità del luogo. Così si osserva, sui gradini del portico d’ingresso, la enigmatica presenza di una incisione richiamante la triplice cinta druidica, così come sono visibili all’interno dell’edificio delle croci templari. Allo stesso modo si può osservare una iscrizione esterna in cui è in nome di san Francesco che attesterebbe il suo passaggio in loco. Certamente, dopo quanto delineato in precedenza, spicca però per interesse di questo studio la insistita presenza dell’iconografia del calice rinvenibile sia all’esterno che all’interno della basilica. All’esterno in un affresco, eseguito accanto alla porta d’ingresso, si distingue la figura di San Lorenzo sopra il cui corpo aleggiano due coppe. Ancora all’esterno, in un altro affresco, si vede l'imperatore Enrico II di Baviera nell'atto di donare una simbolica coppa d'oro a San Lorenzo. Qui sembrano intrecciarsi due tradizioni quella della coppa dell’Ultima Cena e quella del calice di vetro usato da Longino appena convertito per raccogliere da terra il sangue di Cristo mista alla terra. Al centro della navata poi, nella parte sopravvissuta del mosaico pavimentale, è rappresentato un calice su cui il Barbagallo fa interessanti considerazioni d’ordine geometrico matematico che qui non si riprendono. Infine, in fondo alla navata, San Lorenzo è raffigurato mentre stringe a sé il Calice.

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la “quasi” triplice cinta druidica incisa sui gradi sotto il Portico di San Lorenzo (foto dell’autore)

Giunti a questo punto sarà il caso di precisare alcuni ulteriori aspetti del complesso intreccio di vicende che hanno portato il Barbagallo a suggerire l’ubicazione del “Graal” proprio in questo edificio basando la sua ricostruzione sulla oggettiva successione degli eventi storici. Si deve perciò evidenziare un fatto indiscutibile. Nella basilica sono presenti due sepolture papali quella del papa Damaso II, deceduto il 9 agosto 1048, il cui pontificato fu brevissimo, meno di un mese, e quella di Pio IX il cui pontificato, contrariamente, fu invece lunghissimo. Entrambi, per vie diverse, hanno avuto a che fare con il sacro calice. Come appena detto, diversamente da de Boron, che come si vedrà più in avanti, ha unificato i due calici in uno soltanto, il Barbagallo ritiene che i calici sacri siano due. Uno, quello dell’Ultima Cena finito a Valencia per le sue vie, l’altro, di semplice vetro - praticamente un bicchiere - quello in cui appunto sarebbe stato raccolto il terriccio imbibito del sangue di Cristo fuoriuscito dopo la penetrazione nel cuore (o comunque nei grossi vasi) della lancia nel costato di Cristo che sarebbe stato posto come reliquia di fondazione di questa chiesa. Questo terriccio sacro sarebbe finito, separato dal calice, a Mantova dove è conservato ed esposto in certe occasioni con grande devozione.

Ricordiamo che nella sua prudente relazione Giovan Battista de Rossi annoti come il calice rinvenuto si presenti pulito ...ED ERA IVI POSATO E CHIUSO PROBABILMENTE FINO DALL’EPOCA DI COSTANTINO. NIUN INDIZIO DI CROSTA SANGUINOLENTA O D’ALTRO LIQUORE DA’ LUOGO A CONGETTURARE CHE QUESTA SIA UNA RELIQUIA IVI DEPOSTA QUASI PER CONSACRARE LE MURA DELLA BASILICA“, come a dire che sarebbe stata verosimilmente una reliquia se vi fosse stato un “contenuto” ma, siccome il contenuto non c’era, ciò che è stato trovato potrebbe essere un banale bicchiere di vetro dimenticato alla sigillatura della tomba. Tuttavia il possibile contenuto si trova ora verosimilmente altrove (ovvero a Mantova) e questo può far presumere che il contenitore fosse stato accuratamente pulito per evidenti motivi di pietà prima di essere deposto. Come arriva a questa conclusione il ricercatore?

Per rispondere non ci resta che seguire il ragionamento del Barbagallo basato rigorosamente su fonti storiche. Alla passione e morte di Gesù al Calvario si verificano i fatti già raccontati e quindi la preziosa reliquia sarebbe passata da Longino a Tommaso Apostolo per finire per essere consegnata al nominato “tesoriere” il diacono Lorenzo nel 258.

Alla morte martiriale di Lorenzo la reliquia, ossia il calice con il suo contenuto, sono sepolti con il suo cadavere insieme probabilmente ad altri reperti gerolosimitani. Trascorsi circa tre secoli, siano nel 585/590, Papa Pelagio II fa erigere una nuova basilica dedicata al martire. Durante i lavori la tomba di Lorenzo viene aperta e così viene alla luce il corpo del santo e con esso si ritrova la preziosissima reliquia e quindi il calice vitreo con il suo contenuto. Il pontefice a questo punto decide di scindere il contenuto dal suo contenitore separando quindi la reliquia dal vaso. Dal momento che a san Giovanni in Laterano, il Vaticano di allora, esisteva già un oratorio dedicato al santo il “terriccio sacro” sarebbe stato spostato qui, mentre il contenitore vitreo sarebbe rimasto dov’è, incorporato però nella pietra di fondazione a indicazione della massima sacertà dell’oggetto. Secoli dopo il coltissimo Papa Silvestro II, colui che aveva indicato in un suo studio teologico il calice di Valencia come il vero calice dell’Ultima Cena, distinguendolo nettamente dal calice vitreo laurenziano, si trova a confermare l’autenticità della reliquia vaticana conferendogli quindi una sorta di crismatico valore aggiunto.[2] (A. M Barbagallo:2018, 28), Dopo pochi anni, in un momento storico assai turbolento, entra in scena papa Damaso II che, consapevole delle, manovre criminali del deposto pontefice Benedetto IX, che sembra voglia appropriarsi per commercio di una delle massime reliquie della cristianità, fa prudentemente spedire la reliquia a Mantova, sede scelta perché lì trovasi la tomba di Longino e tale reliquia ivi si conserva tuttora con gran devozione,

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Fig.3

Reliquiario mantovano contenente il sangue misto a terra raccolto da Longino. Nell’iconografia corrente inerente il Graal il sangue del Cristo cade direttamente nella coppa, oppure è raccolto dagli Angeli sempre in una coppa mentre esso sgorga copioso. Ci sono immagini che lo mostrano irrorare il suolo e ciò fa scaturire immediatamente delle rose. A nostra conoscenza non ci sono immagini che mostrino Longino (personaggio sconosciuto ai Canonici) nell’atto di raccogliere il terriccio ai piedi della croce. La reliquia comunque è molto venerata e viene esposta il Venerdì Santo e condotta in processione per le vie del centro di Mantova. Anche il 12 marzo, memoria del secondo ritrovamento, e in qualche altra rara occasione, la reliquia viene portata nell’aula della basilica ed esposta alla pubblica venerazione. L’ostensione è preceduta dal suggestivo rito di apertura della cassaforte, che avviene tramite un elaborato sistema di serrature e dodici chiavi in possesso di quattro persone differenti, che devono essere presenti contemporaneamente: il Vescovo, il Presidente del Capitolo dalla Cattedrale, il Parroco di Sant’Andrea e il Prefetto. Ogni volta che si apre la cassaforte viene redatto un atto notarile firmato da testimoni.

Probabilmente è per questo motivo che, significativamente, questo pontefice è sepolto nella Basilica di San Lorenzo. Siamo al termine della vicenda. Nel 1864, come detto, viene rinvenuto dall’archeologo Giovan Batista de Rossi il calice vitreo rimasto sempre in loco.  Questi, incoraggiato nei suoi studi da Papa Pio IX, pur non sbilanciandosi affatto, ha indizi per identificarlo con il calice di Longino tanto che ne pubblica l’immagine in una sua relazione rimettendo il giudizio circa il suo valore alle autorità religiose. A seguito di tutto ciò il calice viene spostato in Vaticano per poi rendersi “irreperibile” (testuale). Pio IX, l’ultimo papa re, disporrà di essere sepolto proprio nel punto in cui è stato trovato la reliquia, cosa che gli riuscirà solo nell’anno 2000 per varie traversie storiche che non si stanno qui a descrivere.[3]

La Lancia di Longino

Infine soltanto tre di essi, Gaalad Perceval e Bort giunsero al castello del Graal presso Pelle, il re pescatore, e là furono testimoni e beneficiari delle più sorprendenti meraviglie, di cui la prima fu la guarigione di questo re Pescatore, poiché Pelle era malato da molto tempo e non poteva muoversi dal suo letto . Quando per una ispirazione divina, Galaad prese la Lancia che sanguinava e lo toccò con essa, la guarigione fu istantanea e completa” 

Un altro reperto connesso strettamente alla vicenda graalica nella sua lettura cristiana è la lancia di Longino l’arma con la quale il centurione trafisse il cuore del Cristo, così come descritto nel Vangelo di San Giovanni (Gv. 19,34). Di essa esistono almeno quattro esemplari di cui è rivendicata l’autenticità. Il primo si trova a Vienna ed è quello entrato nelle turbinose vicende del nazismo e della sua sconfitta, vicende che qui non si ripercorreranno, la seconda è la cosiddetta lancia di Antiochia ed è collocata nel museo della cattedrale di Echmiadzin. La terza, e meno nota, è quella di Izmir (Smirne, Turchia) ed essa fu portata in quella località dai Padri Domenicani di Armenia che ivi cercavano rifugio a causa dell’occupazione persiana, ed è attualmente conservata nella chiesa del Santissimo Rosario di Izmir.

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Fig. 4

Anche san Luigi IX, che durante le crociate portò con sé molte reliquie, identificò una di queste con la lancia di Longino. Ancora, nel 1492 il sultano ottomano Bayezid II regalò a papa Innocenzo VIII parte di una lancia che qualificò espressamente come lancia di Longino, conquistata, si disse, a Costantinopoli nel 1453. ( da Louis Charbonnau Lassay :Il Giardino del Cristo ferito)

La quarta, l’esemplare che interessa questo itinerario, è quello conservato a Roma e a questo reperto Louis Charbonnau Lassay ha dedicato alcune osservazioni nel suo prezioso libro Il Giardino del Cristo ferito accompagnato la sua riflessione da una esatta ricostruzione iconografica che ne riproduce le dimensioni reali. Il noto simbolista cristiano ha dedicato più opere a questo tema tutte basate sulla ricerca e presentazione di oggetti e reperti iconografici di ogni tipo che riguardano il tema della Passione e Morte dei Cristo Qui si parla degli strumenti della sua passione e delle cinque ferite che ne conseguirono. In sintesi si è di fronte a un possente corpus devozionale di supporto a possibili esperienze mistiche.

1365 5 antonio del pollaiolo innocenzo 1365 5 bis Gianlorenzo bernini san longino ridotta

 

Fig – 5, 5 bis

Statua di San Longino del Bernini a San Pietro  https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gianlorenzo_bernini,_san_longino,_1639,_02.jpg Accanto una scultura del Pollaiolo in cui  si vede il  Pontefice che benedice la sacra lancia (https://quattrocentoitalia.artinterp.org/omeka/exhibits/show/collections/item/186)

In particolare alla effusione cardiaca di sangue e acqua causata dalla penetrazione nel costato dalla lancia di Longino, divenuto san Longino (la cui statua di cui è autore il Bernini è in una nicchia ricavata da uno dei quattro pilastro  che reggono la cupola di San Pietro), lo studioso francese dedica ogni attenzione. Nello specifico lo Charbonneau Lassay, assai apprezzato da René Guénon che con lui aveva stretto un rapporto di collaborazione, ha dedicato un capitolo del libro sopraindicato proprio alla “leggenda” del Graal mostrando alcune specifiche iconografie dedicate al tema e osservando come nel Medioevo, e anche successivamente, gli elementi della ierostoria graalica si siano straordinariamente diffusi nella società d’allora tanto che gli stessi nomi dei personaggi sono stati sovente adottati con frequenza nei battesimi dei rampolli delle classi nobiliari. A parte questa osservazione “sociologica”, sociologica poi fino a un certo punto perché il confronto con le attitudini dei nostri tempi mostra lo svuotamento simbolico che si è prodotto nel cuore degli uomini secolo dopo secolo, quello che preme indicare in qualche breve passaggio è il carattere che assume questa ferita nella prospettiva dell’ “esoexoterismo” cristiano come è nelle corde dello Charbonneau Lassay che, per chi qui scrive, assume particolare importanza. In alcuni reperti si mostra infatti come tale ferita lenticolare viene resa anche nella prospettiva dell’apertura dell’Occhio del cuore, un’apertura alla cardiognosis che implica la possibilità di contemplare queste“icone” della Passione in una prospettiva interiorizzata, che varrebbe a dire in una sorta di prospettiva inversa in cui l’immagine si proietta nel “di dentro” del contemplante, al centro del suo stesso cuore un evento che si definisce “apertura dell’occhio del cuore”.

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Fig. 6

Un’immagine tratta dallo Charbonnau Lassay sulla trafittura del cuore di Cristo da cui segue l’apertura dell’Occhio del cuore

Ovviamente questo è solo un accostamento più suggestivo che “tecnico”, perché le immagini che lo Charbonneau ripropone non sono tecnicamente “icone”. Si tratta comunque di un suggerimento interpretativo delle stesse che crediamo corretto dal momento che nel racconto contenuto negli Atti di Pilato, allegato al Vangelo apocrifo di Nicodemo, è scritto che il sangue, sgorgato a spruzzo dalla ferita causata dalla percussione della lancia, bagnerà l’occhio malato di Longino ed immediatamente questi guarirà da una sua oftalmica infermità. Ovviamente l’evento si riferisce a una guarigione che è in primo luogo d’ordine spirituale, come identicamente si mostra curativo il fango sparso sugli occhi del cieco nato guarito dalla poltiglia di argilla e saliva di Gesù applicata sui suoi occhi dal figlio di Dio. Qui si tratta in primis di una infermità metafisica, è il velame dei sensi che impedisce di vedere - e quindi contemplare - la realtà in divinis e quindi, dopo la “cura”, si può affermate con Longino:«Davvero costui era Figlio di Dio!» (Mt 27,54).

Charbonnau Lassay, dopo aver confrontato attentamente il calco della lancia vaticana di cui era venuto in possesso con l’altra somma reliquia del Cristo, ovvero  la Sindone, si è convinto della complementarietà esistente tra i due reperti, in cui una spiegherebbe l’altra e per questo ha scritto, a proposito di questa straordinaria reliquia: “Tenuta provvidenzialmente al riparo di qualsiasi approccio, accessibile solo al cardinale titolare di san Pietro…,che due volte all’anno la mostra al popolo, non se ne può avere una fotografia. Ma grazie all’intercessione di R.P. Leon de Lyon, conservatore del Museo Francescano di Roma, ho tuttavia potuto averne un calco sufficientemente esatto che qui riproduco a grandezza reale

È comunque certamente difficile stabilire l’autenticità di questo straordinario reperto, appare però indubitabile che si tratti di una punta di lancia del I secolo, compatibile con quelle usate dai romani in quell’epoca. Non si può dire lo stesso delle altre lance citate in precedenza. Ai nostri giorni, non diversamente da quanto narrato dallo Charbonnau Lassay e come accade con il Velo della Veronica, la reliquia non è accessibile e neanche è visibile ad una distanza ragionevole. Essa, odiernamente, viene esposta dalla loggia della Veronica la prima domenica di Quaresima, ma la distanza dalla loggia dagli astanti è considerevole, più di dieci metri  ne rende difficoltosa la percezione.

 

PARTE Prima

I luoghi del Graal

Esiste un mondo di luce non solamente nell’uomo ma anche nella natura  E la grazia  deve essere su di noi affinché ci sia dato di seguire questo principio positivo fino alla creazione e sperimentate nei nostri cuori la sua luce, i suoi colori, le sue melodie i suoi accordi. Lì, il “perchè” non ha più senso alcuno; lì non ci poniamo più domande, lì ascoltiamo e apparteniamo al suono dell’universo, lì ci sentiamo tutt’uno con il Dio che si trova al di là del perché, del sì e del no; li partecipiamo all’Unio mystica” (Hans Kayser).

Dopo questa necessaria premessa in cui si è voluta sottolineare l’importanza delle reliquie della coppa e della lancia è giunto il momento di iniziare questo piccolo itinerario partendo da un’altra città che ha anch’essa  per simbolo la lupa e vale a dire la Città di Siena 

Cattedrale di Siena

“Il più bello, grande e magnifico pavimento che mai fusse stato fatto”, Vasari, 1568.

Il grandioso pavimento a tarsie marmoree della cattedrale di Siena, i cui lavori iniziarono nel XIII secolo per concludersi nel XVIII, è uno delle opere tecnicamente più straordinarie mai realizzate e non per nulla esso è stato entusiasticamente lodato dal Vasari. L’intento del capolavoro in relazione alla esaltazione della potenza di Siena appare chiaro. Tale opera avrebbe dovuto magnificare la Città erga omnes e per questo è evidente che l’attenzione iconografica posta su di esso non poteva che essere straordinaria e che il linguaggio espressivo adottato per l’opera non fosse che massimamente curato. Sia come sia, non siamo qui per parlare della pavimentazione ma certo non si può omettere dal far risaltare, l’“inconsueta” presenza nelle tarsie d’ingresso al Duomo, accanto a Mosé, di Ermete Trismegisto, sul cui collocamento sono stati spesi i noti fiumi d’inchiostro. Ermete è figura di protagonista sapiente del mondo pagano che ha precisa relazione con Il Graal .

Seppur già vecchio di secoli il pavimento non ricevette in passato mai l’attenzione di uno studio sistematico che cercasse di individuarne una possibile logica compositiva unitaria. È stato il tedesco Friedrick Ohly, il primo studioso ad occuparsi del significato delle immagini  pavimentali e questi seppe cogliere nel manufatto il nucleo teologico che ne sostiene la narrazione d’insieme così da avanzare l’idea che la realizzazione plurisecolare, rispondesse alla necessità di mostrare il tema fondante e programmato che starebbe alla base dello sviluppo e della sequenza delle 60 tarsie marmoree. Friedrick Ohly ipotizzò difatti che il programma illustrativo fosse tutto indirizzato alla dimostrazione teologica attraverso le immagini della presenza di un ordine della storia voluto da Dio attestante il transito tra il paganesimo e Il cristianesimo con l’ovvia mediazione dell’ebraismo. Accanto a questa interpretazione, assolutamente aderente all’ortodossia, vi sarebbe da constatare la presenza di elementi apparentemente non totalmente coerenti con la rappresentazione teologica della storia umana. La figura di Ermete Trismegisto la presenza delle Sibille, di cui almeno in una (la delfica) sarebbe accentuata l’indicazione epigrafica al “conosci te stesso” in chiave autorealizzativa, renderebbero il percorso tra queste figure mitologiche come un sorta di “labirinto” di non devozionale percorso. Inoltre l’uso significativo di determinati colori, e ancora, ulteriormente, la presenza di elementi non si stanno qui ad elencare hanno indotto a ritenere che il pavimento della cattedrale di Siena si configuri anche come un possibile percorso alchemico-ermetico che, pur non infirmando l’aspetto teologico complessivo, lo sospinge verso una possibile lettura a una “ottava superiore”.

Non entriamo, più di tanto in merito al tema e quindi, al momento, c’intratteniamo solo per un cenno informativo rispetto a quanto si dirà sarà evidenziato successivamente e relativo a questa supposta declinazione ermetica del Duomo e delle sue rappresentazioni. Grazie agli studi dei due ricercatori, Henry e Renée Kahane focalizzati sulla individuazione di un possibile “Ur Parsifal” medioorientale all’origine del ciclo graaliano medioevale, i cui risultati sono stati condivisi e positivamente commentati da Henry Corbin e Nuccio D’Anna, per citare alcuni degli intervenuti, oggi sappiamo come due personaggi presenti nel Parzival di Wolfram Von Echembach appaiano come sapienti declinazioni vernacolari dell’Ermete Trismegisto, come, d’altronde, in alcuni passaggi del Parsifal di Richard Wagner si rileva come questi introduca teatralmente la concezione del tempo acronico risultato di una superiore consapevolezza raggiunta dal Parzival e offerta ai partecipanti al dramma. Non potrebbe quindi essere un caso il che Wagner abbia scelto,  per una sua fondamentale scenografia del suo Parsifal, proprio il coro circolare della cattedrale di Siena in cui, nella rappresentazione del Venerdì Santo, si vede discendere la Colomba sulla coppa che contiene l’ostia. Ricordiamo che anche nel nuovo Titurel di Albrecth, continuatore del Titurel del Wolfram, il Graal è custodito in una costruzione circolare in cui sono presenti 22 cappelle di cui una raddoppiata dedicata allo Spirito Santo[4]

1365 7 1280px Parsifal 1882 Act3 Joukowsky NGO4p119 1365 7 bis Disegno per copertina

 

Fig . 7,7bis

Il finale del terzo atto a Bayreuth nel 1882 Scena di Paul von Joukowsky

La scenografia Paul von Joukowsky “copia” in toto per il suo fondale il coro della cattedrale come desiderato dal suo committente Richarf Wagner. Wagner compiva frequenti visite alla Cattedrale, della quale il musicista confessò di esserne “rimasto affascinato fino alle lacrime”, così da immaginare nell’interno del Duomo di Siena, proprio la scena del ‘Parsifal’ detta dell’Agape. In ragione di ciò il compositore fece venire a Siena l’amico pittore e scenografo Paul Joukowski e gli chiese di disegnare il settore della cupola del duomo di Siena per poterla poi ricostruire nelle scenografie del teatro di Bayreuth. Non sfugga, di passata, che Wagner fece di tutto, pur non riuscendovi, per essere ammesso alla loggia di Bayreuth, diversamente dall’ammirato suo collega Mozart, che invece divenne membro di una loggia. Wagner, comunque, ben conosceva, almeno dall’esterno, i rituali della gerarchia cavalleresca della loggia (Cavaliere Rosacroce) e per conseguenza non era affatto digiuno d’ermetismo. Così H. Corbin descrive l’immagine come la si interpreta dalla lettura de Wofram:”in ogni caso la pietra è il ricettacolo dell’ostia mistica che la ‘colomba celeste’ vi deposita ogni venerdì santo” (2015,170) (immagine da Wikipedia di pubblico dominio)  7 bis Il personaggio di Parsifal per copertina di libretto, disegno di Peter Hoffer per Parsifal (s.d.). Si noti l’insistenza sul tema della colomba come simbolo dello Spirito Santo e parimenti è da notare che Parsifal/Parzival   stringe la lancia che guarirà Amfortas- Archivio Storico Ricordi ICON012446.jpg

Non possiamo chiudere questo breve paragrafo senza ricordare che, oltre a quanto appena detto a proposito della relazione che potrebbe stringere tra loro il Parsifal wagneriano, il duomo senese, l’ermetismo del Parzival del Wolfram, come la concezione temporal-architettonica del castello e della cappella del Graal dell’Albrecht, si trova a Siena un suggerimento specifico piuttosto costante nei racconti graalici. Si tratta  della rappresentazione della cerva bianca, figura che è presente per esempio nel racconto di Gualtiero Map e, in ogni caso, il cervo/cerva è animale protagonista del ciclo arturiano. Il reperto però, per quanto oggi cercato, non è al momento visibile. Questa la comunicazione, sollecitata dallo scrivente, ricevuta sul tema da un competente studioso locale:“La cerva del duomo di Siena non è attualmente visibile. Si tratta di una decorazione all'interno di una cornice di fronte alla Cappella del Voto, se ricordo bene. Quel punto del Duomo è coperto per tutto l'anno e ciò rende impossibile vedere la rappresentazione della cerva bianca

Parlare di un nascondimento voluto è senz’altro troppo “complottista” però, forse, come disse qualcuno: ” A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina

Il volto santo di Lucca

Il corpo del Volto Santo, secondo la leggenda riportata dal diacono Leobino, venne scolpito da Nicodemo, discepolo di Gesù, che non osò, però, realizzare il volto, completato durante la notte da mano divina; rimasto nascosto in Palestina per secoli, nel 742 fu messo su una nave senza equipaggio affinché la Provvidenza lo portasse in un luogo più sicuro.

Lucca è una città le cui architetture trasudano la presenza templare e nella cattedrale  di San Martino, tra i molti tesori, è presente uno straordinario Cristo ligneo (il più antico d’Occidente) il corpo del quale è attribuito a Nicodemo mentre il volto è considerato acheropita; per tale motivo questo crocefisso è conosciuto come il Volto Santo di Lucca.  

Il grande manufatto si presenta ai fedeli in due versioni, vestito con una tunica intera o, diversamente, in caso di certe festività, abbigliato con una sovrapposta ricchissima veste regale mentre il capo del Cristo è coronato. Per questa particolarità l’opera è da considerare uno dei più enigmatici crocefissi della cristianità. La statua lignea comunque è di fattura gotica e si reputa sia quindi una copia dell’originale che sarebbe stato trasportato miracolosamente dalle spiagge della Terrasanta alla città di Lucca da una nave senza nocchiero.[5] La basilica, in cui esso è ospitato risente fortemente dell’influenza della predicazione di San Frediano, monaco irlandese cui è dedicata l’omonima chiesa sempre in Lucca. Singolarmente e significativamente i canonici lucchesi furono definiti Canonici Lucenses, ossia Canonici della Luce.

Diversi particolari iconografici risultano inconsueti rispetto agli standard della crocifissione. In primis si può notare la postura eretta del Cristo che è singolarmente raffigurato con gli occhi aperti e affatto sofferente. Di seguito si può notare che i suoi piedi risultino penduli e quindi non chiodati. Tuttavia, verosimilmente, la particolarità più singolare e che il Cristo indossi la predetta tunica (la tunica "inconsutile"?) che lo copre integralmente. Ciò è in contrasto con quanto è cantato come antifona nell'Ufficio delle Tenebre per il Venerdì Santo: Diviserunt sibi vestimenta mea. ℟ Et super vestem meam miserunt sortem, ed è quindi ben difforme dall’iconografia canonica che ritrae il Cristo cinto con il solo perizoma. Accanto a questa singolarità c’è ne un’altra, di ancor più complessa spiegazione. Nella celebrazione festiva di Cristo Re dell’universo, la grande figura lignea è vestita con abiti regali ed è altresì regalmente incoronato.[6] Ai suoi piedi si pone un’enigmatica minuscola coppa di legno dorato che sembra destinato a raccogliere il suo sangue, quel Sang Real (Sange real per Wolfram Von Echembach) che colerebbe dalla ferita del costato scorrendo fino al piede Tale iconografia è volta a mostrare non l’estrema sofferenza di Cristo quanto piuttosto a confermare che Egli è congiuntamente re e sacerdote e la Croce attesterebbe, non la sua sofferenza ma la sua signoria sull’intero creato. Si può ipotizzare che questa forma cultuale “insolita” sia stata appunto introdotta dai Templari, date le citate numerose testimonianze di presenza dell'ordine a Lucca, tra cui si annovera la Chiesa della Misericordia ricca di croci patenti, ma si sa che i Templari sono un poco come il “prezzemolo” e di fronte a ogni singolarità è consuetudine che li si convochi a suffragio di essa, indipendentemente o meno che ciò sia pertinente alla circostanza. In ogni caso non è men vero che la cattedrale di San Martino abbondi di opere “enigmatiche”, tra cui si annovera, ad esempio, un labirinto sulla facciata che si ritiene riproduca esattamente quello di Minosse a Creta. Com’è noto il labirinto rappresenta un centro sacrale e, nella declinazione cattolica del simbolo, tale centro è Gerusalemme.[7]

Oltre al Volto Santo di Lucca esiste a Sansepolcro un’altra grande statua lignea di Cristo crocifisso risalente al VIII-IX secolo e che è conservata nel locale Duomo parimenti denominata Volto Santo. Si tratta di un manufatto che è praticamente gemello a quello lucchese ed il cui volto è identicamente ritenuto di origine acheropita, credenza .che discende dalla nota leggenda leobiniana, che è base comune anche al Volto Santo di Lucca[8]. Anche questa .scultura è stata attribuita al discepolo ”nascosto” Nicodemo, come “nascosto” sarebbe stato Giuseppe di Arimatea di cui parla il Vangelo di Giovanni (3, 1-21; 7, 45-51; 19, 39-42). La festa liturgica ricorre l'ultima domenica dell'anno liturgico, solennità di Gesù Cristo Re dell'Universo. In quest'occasione l'antico simulacro viene rivestito di abiti regali. La tipologia iconografica è quella del Cristus triumphans, o Cristus rex, rivestito di una nobile veste regale, adornata di ricami preziosi e cinta al petto da una fascia dorata, con riferimento ad Ap. 1, 12-13.17 (simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d'oro). Sulle spalle porta la stola sacerdotale, a significare il Cristus rex et sacerdos che, crocifisso, risorto e asceso al cielo, regna sull'universo in attesa della venuta gloriosa.

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Fig. 8

Il Volto santo di Lucca e Il crocifisso di Sansepolcro è straordinariamente simile ed è correlato ala medesima liturgia. Sotto il piede  destro del crocefisso “regale” lucchese viene collocata un piccolo calice che Danilo Baccini nel Il simbolismo occulto del duomo di Lucca (Giornale dei Misteri 1974 ) riporta che sia  essa spacciata come per “coppa delle elemosine”(?), Date le minuscole dimensioni, come si può notare dal dettaglio, se così fosse, dovrebbe raccoglierne una quantità di offerte davvero insignificante come si vede dal particolare della figura.

 

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Fonti delle immagini fig.8:https://it.wikipedia.org/wiki/Volto_Santo_di_Lucca,https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Arte_carolingia,_volto_santo_di_sansepolcro,_VIIIIX_secolo_circa_con_policromia_del_XII_secolo.JPGThis file is licensed under the Creative Commons Attribution 3.0 Unported license.

In ogni caso e per concludere a Sansepolcro non v’è traccia del posizionamento della minuscola coppa posta sotto il piede destro del Cristo crocifisso 

 

 

[1] Dopo un lungo restauro è tornato nella cattedrale di Genova il “sacro catino” un manufatto ritenuto di smeraldo anziché di vetro bizantino che oggi si presenta finalmente ripristinato nelle condizioni originali ed è conservato nel Museo della predetta cattedrale dedicata non certo a caso a San Lorenzo. Nonostante Jacopo di Voragine lo  attribuito alla celebrazione dell’ultima cena esso è un reperto storico successivo di provenienza bizantina o fatimide. (Fra Gaetano da S. Teresa, Il catino di smeraldo orientale gemma consacrata da N.S. Gesù Cristo nell'ultima cena degli azimi, e custodita con religiosa pietà dalla Ser.ma Rep.ca di Genova, come glorioso trofeo riportato nella conquista di terra santa l'anno 1101, nella stamperia di Giovanni Franchelli, Genova 1726.)

Il reperto è conservato nel Tesoro e, come detto, non è oggetto di culto

Il calice di Valencia gode invece di molto credito perché la tradizione che lo riguarda è assai documentata tanto che Nuccio d’Anna ha ritenuto di utilizzarlo per la copertina del suo libro dedicato al Graal. In sintesi l’autenticità del reperto sarebbe dimostrata da questa linea di trasmissione:”Il calice usato da Gesù Cristo nell'Ultima Cena fu portato da Gerusalemme a Roma da San Pietro e utilizzato da allora da lui e dai successivi Papi  della Chiesa a Roma nelle celebrazioni eucaristiche fino all'anno 258, quando Papa Sisto II, commissionò al suo diacono San Lorenzo di portare il calice fuori Roma per proteggerlo dalla persecuzione dell'imperatore Valeriano. San Lorenzo portò la reliquia a Huesca, dove vivevano i suoi genitori. Il calice finì nascosto nel monastero di San Juan de la Peña e nel 1399 fu donato dai monaci del monastero al re Martino I d'Aragona, dal quale si conservano tre lettere che rivendicano insistentemente la reliquia. Una volta nelle sue mani, Martin I ha portato il Grial nella cappella della sua residenza di Saragozza, il Palacio de la Alfajería. E un altro re, Alfonso il Magnanimo, trasferì il Santo Calice nel 1424 nel Palazzo Reale di Valencia, sua residenza all'epoca. La conquista del regno di Napoli significò che il Magnanimo dovette intraprendere costose campagne militari per le quali aveva bisogno di prestiti, uno dei quali fu contratto dalla gerarchia ecclesiastica. Il re lo sostenne con tutte le sue reliquie, compreso il Santo Calice, che dovette consegnare nel 1437 per saldare il suo debito con la chiesa. Si è conservata e venerata per secoli tra le reliquie della Cattedrale, e fino al XVIII secolo è stata utilizzata per contenere la forma consacrata nel "monumento" del Giovedì Santo, fino a quando è stata finalmente installata nell'antica Sala Capitolare, abilitata come Cappella del Santo Calice nel 1916.”

Abbiamo messo in nota tutte queste notizie perché si tratta di vicende facilmente reperibili su internet che probabilmente non meritavano una voce distinta in questo lavoro. Un aspetto che va sottolineato è la presenza in questa nota della significativa figura di San Lorenzo di cui parleremo un poco più in avanti in relazione alla omonima Chiesa romana di epoca costantiniana. Aggiungiamo di nostro che di recente una giovane ricercatrice spagnola (una storica dell’arte) Ana Marfé Garcia ha pubblicato un libro di grande seguito dal titolo El Santo Grial: Un estudio que nos desvela dónde se encuentra la copa de la última cena dove si troverebbe abbondanre conferma documentale della tradizione sopradescritta

[2]Seppur i due calici siano da considerare separati entrambi comunque sono connessi alla figura del martire Lorenzo. L’antica tradizione aragonese riporta come Lorenzo d’origine iberica, ormai in prossimità del martirio, sia riuscito a trafugare il calice dell’Ultima Cena (oggi identificato con il calice di Valencia) che gli era stato affidato da papa Sisto II, trucidato a propria volta alcuni giorni prima. Alfredo Barbagallo a proposito della storicità di questi calice propone questa osservazione: ”La sua datazione originale risulta dall’archeologia del tutto compatibile, provenendo da una origine area genericamente siriaca e di epoca valutabile tra il II sec a C. e il I sec  a. C”: (2018, 32). Ciò appare in concordanza con quanto asserisce la studiosa spagnola Ana Marfé Garcia precedentemente citata. Per menzione invece sottolineiamo l’avversa opinione dello Charbonnau Lassay che, a proposito del calice di Valencia e di altri esemplari sostiene che esso reliquia non è :“...Malgrado la devozione dei nostri padri si sia lasciata ingannare” (:1995,191 

[3]Questa la disposizione di Pio XII: ”… Il mio corpo divenuto cadavere sarà sepolto nella Chiesa di S. Lorenzo fuori le mura, e precisamente sotto il piccolo arco esistente contro la la così detta graticola, ossia pietra nella quale si designano anche adesso le macchie prodotte dal martirio dell’illustre Levita (San Lorenzo). La spesa del monumento non deve eccedere quattrocento scudi. Fuori del modesto monumento si vedrà scolpito un triregno con le chiavi: poi una epigrafe concepita nei termini seguenti: – Ossa et cineres Pii P.IX Sum: Pont: vixit ann: … in Pontificatu an: … Orate pro eo – Lo stemma gentilizio sarà un teschio di morte

[4]           La concezione temporale espressa dal Wagner nella sua opera risalta proprio in questo passaggio scenografico “A poco per volta, mentre Gurnemanz e Parsifal sembrano camminare, la scena si cambia insensibilmente da sinistra verso destra. Scompare così la foresta. Una porta, che s’apre nelle pareti della roccia, accoglie ora tutti e due. Poi si fanno nuovamente visibili su per sentieri in salita, che hanno l’apparenza di percorrere”.

[5] La tradizione agiografica, riferita dal diacono Leobino e contenuta in più codici del sec. XII, attribuisce la fattura del Simulacro a Nicodemo, discepolo del Signore, aggiungendo che, rivelato al vescovo Gualfredo, pellegrino in Terrasanta, fu da esso affidato alle onde marine e da queste trasportato presso al porto di Luni; della cui spiaggia sarebbe stato subito trasferito a Lucca nel 742, l'anno secondo del regno di Carlo e di Pipino

[6]     La data originaria era l'ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi” (cfr. Enciclica Quas Primas), ma con la nuova riforma del 1969 viene spostata all’ultima domenica dell’Anno Liturgico, divenendo chiaro che Gesù Cristo, il Re, è la meta del nostro pellegrinaggio terreno. I testi biblici cambiano in tutti e tre gli anni, e questo permette di cogliere compiutamente la figura di Gesù.

[7]Sulle innumerevoli testimonianze templari a Lucca si può vedere http://www.sapienzamisterica.it/lucca-templare.html

[8]La singolare iconografia è diffusa ed è spesso associata a San Nicodemo. Un saggio in tal senso è https://www.academia.edu/99125949/Le_Majestats_il_Volto_Santo_e_il_Cristo_di_Beirut_

Utilizziamo un passaggio di questo scritto per mostrare la singolarità si questa iconografia anche altrove presente  “La Catalogna è in effetti incredibilmente ricca di crocifissi lignei, molti dei quali di dimensioni monumentali, che rappresentano Cristo vivo e trionfante sulla croce, vestito di una lunga tunica e caratterizzato da lunghi capelli con una barba biforcuta. Indubbiamente, più che la severa fisionomia, è soprattutto l’abbigliamento ad attrarre l’attenzione dell’osservatore: già nel momento in cui la maggior parte di questi crocifissi fu prodotta, ossia nel XII e XIII secolo, questo modo di rappresentare Gesù crocifisso si distingueva fortemente dall’iconografia abituale, che, più fedele al racconto evangelico, preferiva evocare la passione mostrando il corpo nudo del Salvatore, coperto soltanto da un panno, di solito noto come perizoma, all’altezza dei fianchi”

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