
Giudeo Cristianesimo e iniziazione
per una interpretazione “iniziatica” dell’edificio ottagonale raffigurato nel mosaico di Santa Pudenziana
“Siccome i vescovi della circoncisione ebbero termine dopo la rivolta di Bar Kokba, è giusto a questo punto esporre l'elenco dei loro nomi dal principio. Il primo quindi fu Giacomo, il cosiddetto fratello del Signore; il secondo Simeone, il terzo Giusto, il quarto Zaccheo; il quinto Tobia, il sesto Beniamino; il settimo Giovanni; l'ottavo Mattia; il nono Filippo; il decimo Seneca, l'undicesimo Giusto, il dodicesimo Levi, il tredicesimo Efrem, il quattordicesimo Giuseppe, e infine il quindicesimo Giuda. Questi sono i vescovi di Gerusalemme vissuti dal tempo degli apostoli fino a quella data, tutti appartenenti alla circoncisione”.
Eusebio di Cesarea: Storia ecclesiastica, libro IV, capitolo 5,34.
René Guénon: Aperçus sur l’Ésotérisme Chrétien - “molti sono chiamati, ma pochi eletti”.
Malgrado siano trascorsi circa 15 lustri dalla prima pubblicazione di Aperçus sur l’Ésotérisme Chrétien per Les Éditions traditionnelles, giova principiare questa nostra breve esposizione da tale testo che è dedicato al tema del cristianesimo delle origini, argomento di impressionante vastità e al contempo di estrema delicatezza.
Il titolo del libro di Guénon inclina alla trattazione di una materia fortemente tabuizzata, com’è quella dell’esoterismo cristiano, come parimenti è ostracizzata l'iniziazione connessa a questo cristianesimo “interiore” (pneumatico), così come lo ha definito Jean Marie Muni. Al tempo della sua pubblicazione, questo testo ha suscitato furibonde polemiche e severe puntualizzazioni anche da parte di simpatizzanti guénoniani, com'è stato il caso del filosofo e teologo Jean Borella, autore del celebre testo Esotérisme guénonien et mystère chrétien (L'Age d'Homme, Losanna, 1997), scritto in diretta polemica con quanto asserito dal metafisico di Blois in tema di iniziazione e di mistica cristiana, pur egli non avendo affatto negato, anzi il contrario, la presenza organica dell’esoterismo nella dottrina e nella prassi cattolica.
Premesso ciò, per amore di verità, andiamo a porre in evidenza alcuni passaggi della stesura guénoniana che interessano queste pagine, fermo restando che il punto di vista dell’autore sul tema appare in netta anticipazione sugli sviluppi che la tematica dell’esoterismo e della gnosi cristiana assumerà negli anni successivi. Ciò in particolare può dirsi in relazione alla successione petrina cui si contrappone l’elezione gesuana a successore di suo fratello Giacomo (fratello, fratellastro o cugino di sangue secondo le tre note linee interpretative) aprendosi così la diatriba della successione apostolica in contrapposizione alla successione dinastica .
Il testo di Guénon, come si cautela di avvertire lo stesso autore, riprende argomentazioni sul tema dell’esoterismo cristiano che il medesimo aveva sviluppato in altre circostanze, e una delle puntualizzazioni fondamentali, divenuta quasi leit motiv per sintetizzare la trattazione dell’argomento - tanto che proprio a questa ci leghiamo per giustificare il senso del presente lavoro - è questa: “...prima delle quali è l'oscurità pressoché impenetrabile che circonda tutto quel che si riferisce alle origini e ai primi tempi del Cristianesimo; un'oscurità così fitta che, a ben riflettervi, essa non sembra poter essere semplicemente accidentale, ma piuttosto espressamente voluta; questa osservazione sarà d'altronde da ricordare in rapporto con quel che avremo da dire in seguito”.
Ecco quindi che il Guénon, in luogo del celebre evangelico “gridatelo dai tetti” (correttamente: “quello che ascoltate all'orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”, Matteo 10,27), sostituisce un’opposta concezione e, per non deformare il suo verbo, pensiamo sia più corretto riprodurre per intero la sua osservazione:
“Nonostante tutte le difficoltà che provoca un simile stato di cose, vi è tuttavia almeno un punto che sembra non poter essere messo in dubbio, e del resto esso non è stato contestato da nessuno di coloro che ci hanno fatto pervenire le loro osservazioni; da tale punto però, proprio al contrario, certuni hanno preso lo spunto per formulare talune delle loro obiezioni: questo punto è che, lungi dall'essere soltanto la religione o la tradizione exoterica conosciuta attualmente sotto questo nome, il Cristianesimo aveva alle sue origini, come mostrano sia i suoi riti sia la sua dottrina, un carattere essenzialmente esoterico, e di conseguenza iniziatico. Una conferma di ciò si può trovare nel fatto che la tradizione islamica considera che il Cristianesimo primitivo sia stato propriamente una tarîqah, vale a dire tutto sommato una via iniziatica, e non una skariyah, o legislazione di ordine sociale e diretta a tutti; e questo è talmente vero che, in seguito, si dovette supplire a questo fatto con la costituzione di un diritto "canonico" che in realtà non fu se non un adattamento dell'antico diritto romano, perciò qualcosa che proveniva totalmente dall'esterno e non affatto uno sviluppo di quanto fosse contenuto fin dall'inizio nello stesso Cristianesimo. É del resto evidente che nel Vangelo non si trova nessuna prescrizione che si possa considerare di carattere veramente legale nel senso proprio della parola…”.
Infine, saltando un passaggio della sua esposizione, inessenziale, a nostro modo di vedere, ai fini della tematica di cui qui si tratta, mettiamo ben a fuoco il nucleo della soluzione guénoniana espressa con queste parole: “Perché questo sia stato possibile, occorre che la Chiesa cristiana, nei primi tempi, avesse costituito un'organizzazione chiusa o riservata, nella quale non tutti fossero indistintamente ammessi, ma vi avessero accesso solo coloro che possedevano le qualificazioni necessarie per ricevere in modo valido l'iniziazione sotto la forma che può esser detta "cristica"; senza dubbio si potrebbero trovare molti altri indizi a indicare come le cose stessero realmente così, ma essi nella nostra epoca sono generalmente incompresi, e troppo spesso si cerca persino, a causa della moderna tendenza a negare l'esoterismo, di distrarli in modo più o meno cosciente dal loro vero significato”
Ecco dunque che, alla luce dell’espressione “iniziazione cristica” e al correlativo invito di “cercare altri indizi”, rendiamo disponibili nella circostanza diversi elementi corroboranti la linea guénoniana, risultato di alcune ricerche ben successive alla pubblicazione di Aperçus sur l’Ésotérisme Chrétien. Esse, a parer nostro, pongono in luce l’esattezza e la conformità della tradizione dei primi secoli del cristianesimo al proposto orientamento interpretativo del metafisico francese legittimandone appieno la primigenia intuizione.
Simon Claude Mimouni e il cristianesimo nazareno
“I discepoli dissero a Gesù: “Sappiamo che te ne andrai da noi. Chi tra di noi sarà il più grande?”. Gesù rispose loro: “Dal luogo ove sarete, andrete da Giacomo, il Giusto, per il quale sono stati fatti il cielo e la terra” (Vangelo di Tommaso, loghion n. 12
Il primo autore che vogliamo presentare in questa sintetica rassegna è il biblista Simon Claude Mimouni (n. 26/04/1949) che è noto per la sua teoria circa la continuità esistente tra il cristianesimo ebraico primitivo e le successive espressioni dello stesso quali si rinvengono negli Ebioniti e nei Nazareni, comunità di fedeli che rivendicavano entrambe la loro fonte legittimante in Giacomo quale successore del Cristo. Tale costrutto interpretativo è il risultato dell’intera carriera accademica del Mimouni in quanto questi è stato insegnante presso l’École Pratique des Hautes Studies Sciences religieuses, Direction d'études Origines du christianisme dal settembre 1995 all’agosto 2017. I fondamentali risultati del suo lavoro sono esposti principalmente nel suo libro Jacques le Juste frere del Jesus de Nazareth. Histoire de la communauté nazoreene/cretienne de Jerusalemme du I° au IV° sec.
Simon Claude Mimouni, in luogo della più diffusa locuzione presente negli studi sul cristianesimo delle origini che definisce il cristianesimo della Chiesa di Gerusalemme “giudeo-cristianesimo” (binomio su cui non tutti concordano perché, a loro dire, gli appartenenti o sono ebrei o sono cristiani), ha utilizzato un’altra formula, ancora più impegnativa, ovvero cristianesimo nazareno (o nazorei cristiani) che può definirsi come il “cristianesimo della famiglia di Gesù”, intendendo con ciò identificare un vero e proprio “clan” familiare esteso (desposyni)[1] come discende dalla stessa testimonianza evangelica secondo la quale Gesù aveva diversi fratelli e sorelle (a esempio: Marco 6,3).

Fig .1 - Copertina del testo di Simon Claude Mimouni dedicato a Giacomo il Giusto
Come già indicato nelle pagine precedenti nel complesso della vasta cerchia parentale di Gesù assume un particolare rilievo la figura di Giacomo che, come da più fonti dichiarato, sarebbe stato designato quale successore di Gesù e quindi avrebbe assunto la carica di primo vescovo della chiesa gerosolimitana, una “chiesa” quindi antecedente a quella petrina.
Il sottostante brano dell’autore sintetizza al meglio il suo pensiero sul tema: “e infine una terza indicazione Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, fu, dopo la morte di quest'ultimo, il CAPO della comunità nazoreana/cristiana di Gerusalemme. Ma le autorità cristiane, quelle che emergono PROCLAMANDO se stesse come la Chiesa, la Grande Chiesa, sembrano aver minimizzato la sua importanza soprattutto a causa dei suoi scontri con Paolo, cercando di sostituire a lui la figura più SECONDARIA di Pietro – eppure in questi tre casi, sono cristiani di origine giudea, ma che presentano orientamenti ideologici radicalmente diversi”
Ciò pare che sia in perfetta concordia con quanto scrive Henry Corbin sul medesimo tema narrando delle origini della Chiesa gerosolimitana e, conseguentemente, della sua primigenia figura apicale, ovvero Giacomo, un tema questo che sta particolarmente a cuore al predetto autore dal momento che i cristiani ebioniti, suscitati originariamente da Giacomo e rifugiatisi a Pella negli anni della distruzione di Gerusalemme, costituirebbero, a suo dire, le fondamenta di quella linea di gnosi islamica che prosegue gli insegnamenti di questo cristianesimo delle origini e che si distinguerà in due correnti autonome di gnosi, la ismailita (che ha una connotazione di successione all’imamato scandita dall’eptade e che per questo sono detti sciiti settimani) e la iranica (linea di discendenza stavolta duodecimana).
Queste linee gnostiche costituirebbero quindi il prolungamento dei primigeni insegnamenti mantenuti dagli Ebioniti che si trovano ora inseriti in un altro contesto e che conservano il genoma spirituale delle origini che è quello:”.. di un cristianesimo da molto tempo tornato nel paradiso degli archetipi; non solo il cristianesimo della gnosi, il cosiddetto giudeo-cristianesimo o ebionismo - cristianesimo radicalmente ostile ed estraneo al paolinismo che riconosce il primato e la precedenza non a Pietro, ma a Giacomo vescovo di Gerusalemme.” (H. Corbin: 2013, 86).
Riproduciamo un’altra decisa affermazione di Henry Corbin che appare anch’essa perfettamente in sintonia con Simon Claude Mimouni: ”Ma intanto un altro cristianesimo comincia a conquistare il mondo, un cristianesimo ben lontano dalla dottrina e dalla gnosi professate dalla prima comunità apostolica di Gerusalemme fondata da coloro che furono i compagni del Cristo; così lontano che questa dottrina fu descritta e considerata dai Padri della Chiesa come una “abominevole eresia” (H. Corbin:1971, 230).
La canonica Lettera di Giacomo suggerisce come tale possibilità “gnostica”, precedente gli avvenimenti del Golgota e tutta la successiva narrazione evangelica, sia stata praticamente da sempre sotto gli occhi di tutti, ma mai vista (praticamente) da nessuno, così difatti argomentano, in armonica analisi, due insigni studiosi della materia - il primo un laico il secondo un ecclesiastico -, quali sono Claudio Gianotto e Enrico Mazza, cogliendo costoro il senso e il contenuto affatto paolino”dello scritto giacobita.
Andiamo quindi a raccogliere il succo essenziale delle loro interpretazioni della predetta Lettera valorizzandone alcuni passaggi: Scrive Gianotto: “anche se si tratta di un’opera pseudoepigrafica la lettera di Giacomo veicola idee, insegnamenti, valori che dovevano essere caratteristici della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme e di Giacomo che ne era il capo (C. Gianotto: 2013, 102) Questa acuminata puntualizzazione, apre un possibile sipario tendente a dimostrare quanto poteva essere controverso il confronto tra due visioni della successione cristica; tuttavia, dal momento che il vincitore della diatriba è stata la Grande Chiesa romana, risulta di logica evidenza ipotizzare che è stata questa a minimizzare, se non artatamente a sottacere, il ruolo apicale del fratello di Gesù nella Chiesa delle origini, un ruolo che invece è ben evidentemente rappresentato in altre fonti a questi contemporanee. Questa manipolazione storica (se così la si può definire) mostra come la figura di Giacomo, fratello del Cristo, scompaia negli Atti degli Apostoli per far posto a Pietro e Paolo quali colonne della Chiesa delle origini, ma, come si accennava appena prima, a questa cancellazione si contrappone una copiosa letteratura, ovviamente extracanonica, che invece tributa a Giacomo ogni onore, considerandolo a pieno titolo il successore di Cristo assunto a legittimo titolo alla Cattedra della “Chiesa” di Gerusalemme.
Claudio Gianotto sottolinea a tale proposito un passaggio di Clemente Alessandrino, contenuto nel sesto libro delle Ipotiposi, in cui emerge chiaramente la precedenza gerarchica di Giacomo su tutti i personaggi evangelici e a ciò si accompagna la correlativa gerarchica consegna dell’insegnamento pneumatico (la gnosi) come si descrive nel seguente passaggio: ”Pietro, Giacomo e Giovanni, dopo l’Ascensione del Salvatore, non reclamarono (ciascuno per sé) un riconoscimento, quasi si sentissero particolarmente onorati da parte del Salvatore ma scelsero Giacomo il giusto come vescovo di Gerusalemme”. Il medesimo autore, nel settimo libro della stessa opera, si esprime ancora in proposito con queste parole:“ A Giacomo il Giusto a Giovanni e Pietro il Signore, dopo la sua resurrezione trasmise la gnosi (questa la traduzione utilizzata da Gianotto, altrove è tradotto il cauterizzante “dono del sapere”), essi a loro volta, la trasmisero agli altri Apostoli” (Storia ecclesiastica 2.1,3-4). (da C. Gianotto: 2013. 82)
In conclusione, dopo aver letto queste parole di un così importante testimone della Chiesa delle Origini, non può certamente negarsi che chi ha definito Giacomo “fratello pneumatico del Cristo” abbia in qualche modo errato.
Ora passiamo a un altro e forse più spinoso passaggio, che approfondisce la terminologia impiegata da Mimouni per contraddistinguere la primeva chiesa cristiana. La tesi fondante della sua opera riposa sulla convinzione, maturata durante un lungo percorso di studi e insegnamento, che la comunità nazarena/cristiana di Gerusalemme fosse stata fondata, in vista dell'annuncio escatologico, durante la vita stessa di Gesù (quindi prima della Passione e non dopo la Pentecoste, contrariamente a quanto affermano gli Atti degli Apostoli) e per questo il predetto Mimouni suggerisce che non sarebbe affatto impossibile che Giacomo e l'intera famiglia di Gesù appartenessero alla classe sacerdotale come dimostrerebbe l’episodio extrabiblico in cui ai narra che Giacomo, a forza di pregare nel sancta sanctorum del Tempio, avesse le ginocchia ispessite come pelle di cammello.
Tale possibilità svolge un ruolo fondamentale negli assetti successori in quanto con l’investitura di Giacomo si verificherebbe il caso di una successione dinastica e ciò non sarebbe compatibile con la successione apostolica che, ovviamente, è invece regola e prassi della Grande Chiesa da duemila anni. Sappiamo infatti che la successione vescovile della comunità gerosolimitana ebbe una sequenza di 15 vescovi a cominciare da Giacomo alla cui morte violenta subentrò Simeone in quanto questi era cugino del Cristo.
Scrive il predetto Minouni “Al di là di queste ipotesi, alcune delle quali sono più certe e altre meno, è appropriato sottolineare che un conflitto molto presto oppose la famiglia di Gesù ai suoi immediati discepoli, un conflitto di cui i Vangeli canonici, tra gli altri, hanno conservato notevoli echi. Il carattere escatologico del messaggio evangelico di Gesù sembra richiedere che egli stesso fondasse la comunità che gli sarebbe sopravvissuta – questo sarebbe il caso anche per i fondatori di movimenti come Mani (nel III secolo) e Maometto (nel VII secolo) -, ma anche per molte altre figure carismatiche, reali o immaginarie, antiche o moderne”.
Questo “dissapore”, tra la famiglia di Gesù e i discepoli, dovette assumere ai tempi toni molto accesi, come ha evidenziato appena sopra il Mimouni, e come è stato parimenti ben rimarcato dal citato Gianotto il quale afferma:
In particolare, la presentazione dei familiari di Gesù, che emerge soprattutto dal Vangelo di Marco, sembra essere il frutto di una retroproiezione al periodo del ministero pubblico di Gesù dei contrasti che opposero il gruppo dei suoi familiari e quello dei suoi discepoli dopo la sua morte e che avevano per oggetto la legittimazione a raccoglierne l’eredità (C. Gianotto: 2013, 31).
Parimenti, in un altro passaggio del suo testo, si può leggere questa rilevante considerazione: “Il fatto che che i vangeli canonici parlino molto poco dei familiari di Gesù e, quando lo fanno, tendano a metterli in cattiva luce, indica che essi rappresentavano il punto di vista dei gruppi, che si richiamavano a Pietro e ai Dodici. Ciò significa che, sul lungo periodo, questi gruppi risultavano vincenti e riuscirono a imporsi. Ma, almeno nel breve periodo, anche i gruppi che si richiamavano a Giacomo ottennero risultati significativi; segno che la competizione per la successione di Gesù si dovette risolvere con un compromesso che tenesse conto delle esigenze di entrambe le parti” (C. Gianotto 2013, 33).
Ciò può suscitare un certo sconcerto ma la determinazione di Gesù a sconfessare la sua famiglia e le relative pretese è ben caratterizzata nel citato Vangelo di Marco (v.31) dove il Cristo nega qualsiasi valore al legame familiare fondato sul sangue in relazione al valore superiore di fare la volontà di Dio. In questo modo lo stesso Giacomo sarebbe stato esplicitamente esautorato d’ogni eredità del Maestro e quindi d’ogni pretesa successoria. (su ciò: ibidem, 31).
Allora è ben evidente che esiste un contrasto tra la negazione della familiarità come legame di sangue espressa quasi con asprezza da Cristo in questo Vangelo e l’effettività della successione giacobita al soglio gerosolimitano, un contrasto che sarebbe perdurato per secoli e la cui risoluzione parrebbe essersi realizzata solo dopo il concilio di Nicea (in cui non erano presenti membri della “Chiesa Madre” di Gerusalemme) e che troverebbe testimonianza iconografica nel Mosaico di santa Pudenziana in cui si mostra l’accettazione uniformante della visione paolina cui si sottomette la chiesa giudeo cristiana e di cui un poco in avanti si dirà.
In ogni caso questa frattura tra la “tariqa” apostolica e il clan familiare di Gesù (desposyni) è stato congiuntamente evidenziata, oltre che dai predetti Mimouni e Gianotto, anche da Enrico Mazza, un teologo, storico della liturgia e studioso dell’origine e dello sviluppo dell’eucaristia, di recente scomparso, a cui è stata dedicata una fondazione in prosecuzione della sua intensa attività di studio e alla pedissequa incisiva importanza scientifica che hanno assunto le sue pluriennali ricerche sul primigenio cristianesimo.
Si presentano ora alcune delle sue riflessioni sul tema che si sta trattando coordinandole con le precedenti mostrando così come tale combinato disposto, tra autori senz’altro qualificati ma di diversa estrazione culturale, rivesta un’importanza determinante soprattutto alla luce della prospettata possibilità dell’esistenza di un cristianesimo già conformato e operante antecedentemente alla Passione e alla Morte del Cristo, come esplicitamente afferma il Mimouni in una frase che qui, per comodità di lettura, si riproduce nuovamente per una migliore intelligenza del tema: ”...quindi prima della Passione e non dopo la Pentecoste, contrariamente a quanto affermano gli Atti degli Apostoli”
Attesa quindi questa notevole circostanza è il caso di accostarsi nuovamente alla Lettera di Giacomo attraverso l’ausilio delle determinanti riflessioni provenienti dai competenti interpreti appena precedentemente citati.
A Gianotto hanno interessato due aspetti dello scritto di Giacomo: in primis la relazione tra Fede e Opere, e su questo argomento lo studioso sviluppa un convincente ragionamento confrontando l’epistola di Giacomo con la lettera di Paolo, componimenti dedicati allo stesso tema, e nati a commento di un episodio del Vecchio Testamento; in secundis, l’autore rimarca l’assenza, nella lettera di Giacomo, di un qualsiasi allusione al valore redentivo della morte di Gesù, evidente punto di riferimento ineludibile del cristianesimo paolino e d’assoluta centralità nel successivo cristianesimo.[2]
Del primo passaggio, che solitamente è il più sottolineato, qui non ci interessa commentare e quindi lo accantoniamo per porre in evidenza proprio la lapidaria conclusione che accompagna il secondo passo: “Si tratta del patrimonio di credenze e pratiche che furono proprie della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme, di cui Giacomo era la guida; l’insistenza, in una prospettiva opposta a quella di Paolo, più sugli insegnamenti di Gesù che non sull’evento, unico e irripetibile, della sua morte e resurrezione” (G. Gianotto: 2013, 137).
In maniera indipendente il già prima citato teologo Enrico Mazza scrive, a proposito della duplicità (se non triplicità) del cristianesimo delle origini e delle caratteristiche che ne separano le “dottrine”, queste parole:“Si noti che la cosa non riguarda solo elementi marginali del Cristianesimo ma, addirittura, il punto centrale di esso, ossia il valore salvifico della morte di Cristo in croce. Per il Cristianesimo degli Ellenisti la cosa è fondamentale proprio in base all’interpretazione delle profezie di Isaia sul “Servo di Dio sofferente”. Invece, nella lettera di Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme, non c’è nulla di tutto questo; la morte di Gesù non è nemmeno citata. Come negli Atti, la lettera di Giacomo dà grande importanza alla parola del Signore che deve essere applicata. È questo il Cristianesimo di Giacomo: applicare (poiein – fare) la parola del Signore pur restando all’interno del giudaismo con la Legge che conserva la sua importanza.”
Quanta differenza con Paolo, davvero un abisso pare separarli.
Tale combinato disposto di “clamorose” osservazioni rende perfettamente legittima la considerazione del filosofo e studioso di religioni comparate (di cui è stato docente) Sayyed Hossein Nasr, che indica il senso da attribuire alla cristologia originale con queste parole: “Queste (precedenti) forme di cristologia sottolineavano il ruolo di Cristo nell’illuminare la mente umana e nel conferire la conoscenza divina a coloro che ne erano qualificati” (S. H. Nasr: 2021,35).
Una interpretazione, questa del Nasr, davvero di sapore (e di sostanza) gnostica.
Punto, questo citato, davvero essenziale, anzi “essenzialissimo” e quindi tutt’altro che eludibile. Nel confronto tra i due “cristianesimi” proposti l’assenza o la presenza della “teologia del sacrificio” è scaturigine di due linee dottrinali che non solo sono difficilmente armonizzabili, ma sono evidentemente destinate a confliggere.
A questo punto non si può non apporre una conclusione, per certi verso inaspettata, che proviene da Silvano Panunzio il quale, si precisa, è un saggista cattolico che si è affiliato, come oblato, all’ordine benedettino, e questi, in una sua pubblicazione dal titolo Metafisica del Vangelo eterno, presenta Gesù in una veste che può apparire sorprendentemente inedita ma, almeno così ci appare, in sintonia con la piena valorizzazione della “Parola” del Cristo intesa come efficace strumento operativo indirizzato alla rimozione della ignoranza metafisica del praticante e quindi in grado di condurlo alla “illuminazione”.
Scrive l’autore: “Il Signore Gesù Cristo... ci ha liberato dall'ERRORE cosmico (amarthia tu Kosmu), ha sollevato per noi quello che gli indù chiamano ‘velo di Maya’, L'ILLUSIONE CHE CI SEPARA dall'Unità tra di noi, e di noi con il Principio Divino degli esseri. Ecco IL VERO E UNICO ‘PECCATO’, ECCO LA MANCANZA PIÙ' AMPIA, PIÙ DIFFUSA, PIU' PERSISTENTE E PIÙ’ GRAVE. É la mancanza della Verità,…continuare A ROTOLARSI NELL'IGNORANZA DEI MIRAGGI. Risiede qui il significato profondo del gesto della Veronica CHE ASCIUGA GLI OCCHI INSANGUINATI, OTTENEBRATI DAL PESO TERRESTRE, affinché il velo sia tolto e UNA NUOVA SUPERIORE VISTA SIA MIRACOLOSAMENTE RAGGIUNTA. (Silvano Panunzio: 2007, 65)
Il Giudeo Cristianesimo di Padre Emmanuele Testa e l’iniziazione “gnostica”.
“Tutto ciò è lontano dall’idea di gnosi che si fanno oggi i suoi avversari ed è piuttosto a quella fondamentale e autentica che impone un approccio ermeneutico d’ordine spirituale per apprezzare i contenuti di questo viaggio di ritorno (allude nella circostanza all’ermeneutica del Canto della perla, raffrontato con Il racconto dell’esilio di Sorhavardhi n.d,r, ). Quando finalmente lo studio di questi testi sarà sufficientemente progredito, s’imporrà lo studio sistematico delle affinità tra le gnosi praticate nelle religioni del Libro (…) Esse andranno meditate come la scoperta di tracce nel continente perduto” (H. Corbin: 2017, 286)
Il Libro di Emmanuele Testa (O.F.M.) Il simbolismo dei giudeo cristiani ha attraversato quasi tre generazioni di studiosi essendo stato edito nel 1961 dallo Studium Biblicum Franciscanum (e quindi con approvazione dell’Ordine) quale elaborazione della tesi di laurea dell’allora giovane francescano. Le due reimpressioni, una nel 1981 e un’altra nel 2004, hanno seguito tutto il “cursus honorum ecclesiastico” dell’autore che è divenuto professore di Teologia biblica ed Esegesi dell'Antico Testamento presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, successivamente professore alla Pontificia Università Urbaniana, università di cui, negli anni 1975-84, divenne anche rettore. La scomparsa di Padre Testa, avvenuta nel 2011, non ha annullato l’interesse dell’opera che, andata di nuovo esaurita - lo scrivente crede di avere uno degli ultimi esemplari del predetto testo -, verrà a breve ripresentata (così almeno comunica l’editore, Terra Santa, nella sua pagina web).
Pressoché all’inizio del suo lavoro Padre Testa presenta il proponimento “pedagogico” che guida la sua poderosa opera (anzi “immane fatica”, parole sue) e dal momento che il lavoro è dedicato precipuamente ai simboli del giudeo cristianesimo (e assai meno alla sua teologia) egli ci avverte che questi simboli sostengono un itinerario iniziatico che conduce a una meta ben precisa: l’indiamento.[3]
Questa è la frase che, più d’ogni altra, ci ha mosso nel proponimento di elaborare lo scritto che qui si presenta: “I riti d’iniziazione dei vivi e dei morti (presso i giudeo cristiani n.d.r.) avevano lo scopo di facilitare il buon viaggio del mistico o del defunto dalla terra o dalla tomba alla presenza di Dio, attraverso le tre regioni cosmiche: la tomba, l’aria, e i sette cieli che si trovano nel Chenoma e nel Pleroma” (Il c.d. “buon” viaggio cosmico).[4]
Come ben si nota se si elimina la connotazione cristiana che fa da sfondo al “viaggio cosmico” la presentazione di Padre Testa potrebbe benissimo essere adottata per presentare uno del libri del corpus funerario (e iniziatico) della tradizione egizia.
Il rito che, in primis, consentiva il “viaggio cosmico” era il battesimo. Questo era articolato in tre fasi ben documentare archeologicamente a Nazaret dove Gesù, insieme ai suoi numerosi familiari, ha condotto i primi trenta anni della sua vita, un periodo di “occultamento” che è conosciuto come “vita nascosta del Cristo” e in cui, seguendo la prospettata disamina del Mimouni, si sarebbe già precostituita, (almeno presuntivamente in maniera embrionale) la comunità nazorena guidata dal Salvatore.
A Nazaret (ma parimenti anche a Betlemme, cfr. E Testa 2004, 80)) sotto le attuali edificazioni religiose conosciute con il nome di Basilica dell’Annunziata e di Chiesa di San Giuseppe sono presenti diversi ambienti che, solo relativamente di recente, sono stati identificati come possibili contesti rituali di questo cristianesimo che appare al momento del suo esordio così liturgicamente peculiare.
In queste “mistiche spelonche” secondo la definizione dello storico Eusebio, si sarebbero svolti quei riti cui Padre Testa ha attribuito espressamente significato e valore iniziatico. Si tratta di un rito che, sorprendentemente, si articola in tre fasi battesimali: battesimo di fuoco, di acqua e di spirito santo (quello che oggi costituisce il “rito di passaggio” della cresima).
Al solito, anche vista l’assoluta delicatezza della tematica, è meglio far parlare l’autore sull’argomento e quindi si legga questo rilevante passaggio che si trova a pag. 84 del testo citato: “A Nazareth siamo senz’altro dinanzi a un ciclo d’iniziazione, raffigurato secondo i criteri praticati dagli ebrei cristiani, prima del trionfo dei Bizantini in Palestina”.
Una dichiarazione netta e chiara che evidenzia un “prima” e un ”dopo” battesimale in due contesti diversi.
Le testimonianze antiche su questo tema, più o meno coeve, non mancano e sono del resto riscontrabili nelle tuttora presenti vestigia archeologiche nazaretane (e non solo). Per questo avendo citato in precedenza Eusebio qui indirettamente lo riprendiamo per il notevole spessore che mostra di aver assunto la sua testimonianza in proposito: ”È dunque a questi Nazareni che appartenevano le grotte di Nazareth, di cui parla Eusebio lodando Costantino per aver glorificato con i suoi monumenti - cioè le chiese da lui erette nel IV secolo d. c. - le grotte in cui il “Cristo salvatore di tutti, come attesta la verace storia, fece l’iniziazione dei suoi discepoli ai misteri arcani” (altro che proclamazione sui tetti! [n.d.r.], in Laude Cost. IX in Pl 20,137, Vita Const. III 43 in Pl 20 1102).
Misteri Arcani! Si tratta di una espressione davvero sorprendentemente impegnativa se a questa sommiamo la testimonianza di Clemente Alessandrino i contenuti delle cui affermazioni sono stati ripresi e valorizzati da Nuccio D’anna, come mostra questo passaggio di un suo testo: “Clemente d’Alessandria, la cui conoscenza diretta della più arcane tradizioni misteriosofiche e delle forme meno note della gnosi ortodossa” è stata dimostrata da Padre Daniélou…”. Quanto detto è riscontrabile proprio in un significativo scritto del predetto prelato dal titolo Les traditions secretes des apotres, comparso nei Quaderni di Eranos nel 1962 (Cfr. Nuccio D’Anna, 2022, 78)
Si vuole aggiungere, per rincalzare la documentazione di un rilevante contributo, che un confratello di Padre Testa, Jean Briand, (OFM), anch’egli in missione a Gerusalemme, ha compilato su tale tema un prezioso e denso volumetto che ha conosciuto ben quattro edizioni dal titolo La chiesa primitiva nei ricordi di Nazaret. Qui si riprende l’opera del Testa corredandola di materiale fotografico che esplica ottimamente le varie fasi dei passaggi battesimali e ciò al fine di condurre il lettore a una comprensione di questa ritualità, anche con l’ausilio del predetto contributo iconografico, teso a una individuazione e una esplicitazione delle testimonianze archeologica delle varie fasi battesimali accennate in precedenza, in cui, senza soluzione di continuità, si esercitava il mentovato triplice battesimo.
Nazareth fu dunque indubitabilmente il centro della vita gesuana sia prima che dopo il soggiorno alla Sion di Gerusalemme, curando il suo “clan” la memoria del Cristo, dopo la sua ascesa celeste e custodendone, quindi, gelosamente la tradizione per alcuni secoli finché ciò è stato possibile.
Com’è evidente, e come ben si comprende, l’iniziazione battesimale nazaretana è contraddistinta dall’esperienzialità della purificazione dell’anima che si realizza attraverso un entronautico “viaggio cosmico” e che si completa dopo il superamento delle “porte celesti”, penetrando infine nel Pleroma e per questo, come ha scritto, non certo con leggerezza, padre Jean Briand: “l’eletto diventa partecipe della natura divina ed entra nella vita eterna”.
Questa frase sembra indicare un elemento fondamentale, forse finora non messo adeguatamente in risalto, elemento che suggerisce che il triplice battesimo, quale itinerario di passaggio attraverso diverse stazioni, imponesse al neofita di superare attivamente diverse prove, per giungere alla meta descritta, ovvero “entrare nella vita eterna”. Il rito pertanto non era supinamente “subito” dal battezzando ma, affinché potesse raggiungere la sua piena efficacia, abbisognava che l’adepto stesso, (così lo qualifica il Briand) “lottasse” nelle circostanze in cui si trovava con i mezzi messigli a disposizione dalla liturgia iniziatica per ottenere il risultato voluto.
Un altro elemento va assolutamente sottolineato, ovvero la indicazione della presenza di una sorta di “selezione battesimale” espressa dall’impiego, certamente ben ponderato da parte dell’autore, della singolare parola “eletto” e che con una certa evidenza fa riferimento alla qualificazione del soggetto operante e alla sua capacità di agire in questo contesto iniziatico, tanto che ci sembra opportuno richiamare una possibile similitudine con celebre espressione platonica, tratta dal Fedone: “gli interpreti dei misteri dicono che i portatori di ferule son molti, ma i Bacchi sono pochi”.[5]
Questo tanto è vero che, come sottolinea la ricercatrice Maria Luisa Guidetti (che comunque non sta parlando del triplice battesimo nella circostanza espositiva del suo scritto e di cui fra poco si dirà), in questa forma originale e arcaica di Battesimo, l’”Antagonista” (il demonio) si comporta come parrebbe lo concepisse il giudaismo; il candidato difatti per essere considerato qualificato e idoneo a ricevere il sacramento deve sottoporsi a una sorta di esame che può avere anche esito negativo, perché può accadere che qualcuno venga escluso dal proseguire l’iter battesimale a causa del fatto che non ha ascoltato la parola del Vangelo con fede; tale condotta viene imputata all’ ‘Estraneo (alienus)’ il quale “è impossibile che si nasconda sempre” (cit. in V. L, Guidetti: La cena essena, pag . 48)
Tutto il percorso agonico battesimale, non per nulla l’adepto è un atleta dello spirito, come già detto in precedenza detto culmina nell’indiarsi del battezzato, come afferma il Briand, il quale, si ribadisce, portando correttamente a termine il suo percorso entra nella vita eterna, ovvero, diciamo qui, in libera traduzione dell’esposizione dell’autore, realizza la sua escatologia (destino ultimo) al presente attraverso una personale vicenda apocalittica (riveazione)..
Dai concetti non si scappa a meno di fornire significati diversi alle parole
Per conseguenza, per tornare a capo del discorso, quanto descritto mostra come nella sostanza l’affermazione guénoniana, evidenziata all’esordio di questo lavoro, inerente la riservatezza dei riti del primigenio cristianesimo, si mostri pienamente adeguata alle circostanze e quindi pienamente valida.
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Fig.2 (due immagini) La fascia dei segni a Nazaret
Nella “vasca battesimale” posta negli attuali sotterranei della Basilica dell’Annunziata, come in quel reperto conosciuto come “Lavacro di Gesù” a Betlemme, è presente una bizzarra istoriazione incisa circa due millenni fa sulla creta molle (e quindi non posteriormente all’indurimento) che, secondo il giudizio di Padre Testa, ha come scopo quello di fare da guida e/o supporto al viaggio dell’anima fuori dal corpo e conseguentemente abbia la stessa natura di altri mezzi usati per il viaggio dell’anima dalla terra al cielo (cfr. Emmanuele Testa: 2004,81). La cosa, per quanto possa apparire singolare, vista l’elementarità della rappresentazione destinata a uno scopo così importante ed estraneo, per giunta, all’attuale cattolicesimo, trova un supporto in una esposizione indipendente dalla circostanza nazaretana, ovvero in Nucciio D’Anna che scrive: ”Animati dalle operazioni sacre e dalla speciale liturgia incantatoria che ritmava fonemi e suoni, si riteneva che questi grafismi, segni, immagini e figure potessero evocare una determinata entità divina far emergere prospettive cosmologiche, significati e realtà celesti nelle quali ordinare i ritmi di una vita oramai trasfigurata e ricondotta alle sue scaturigini trascendenti” (N. D’Anna: 2020, 29). Purtroppo, per ragioni di spazio, in questa esposizione non si potuto argomentare sul tema dei “cinque Pilastri” (definizione personale) del giudeo cristianesimo che paiono in parte associati alla elencazione del del D’Anna, ovvero: lingua mistica, numeri sacri, sigilli, nomina sacra e infine mysterium asconditum in cui il tema della emissione sonora, specifica della lingua sacra, consente di trovare l’esplicazione della esposizione del citato studioso. Tuttavia, a ulteriore sostegno della circostanza, non si risparmia la ulteriore eloquente affermazione di Sebastiano Fusco, notevole studioso della kabbala ebraica, che scrive: “La lettera richiama Dio nel momento più alto della creazione. In questo modo, ogni lettera diviene, attraverso il suo simbolo grafico, un vero e proprio mandala, cioè un supporto di meditazione che può guidare l’intelletto verso i più alti vertici contemplativi” (S. Fusco: 2020, 91).
Appare necessario aggiungere, onde offrire opportuno tema di confronto, che anche il liturgista Albert Houssiau, (in Julien Ries: 1989, 206) riscontra che l’attuale scansione sacramentale (battesimo, eucarestia e cresima) è difforme da quella delle origini tanto che, in rapporto alla prima e alla terza fase dello stesso afferma: “Non sono all’inizio del Cristianesimo, tappe successive, due riti successivi di passaggio; un unico atto, un unico rito costituisce il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla santità” (Albert Houssiau, in Julien Ries: 1989, 206).[6]
Ovviamente tale descrizione non implica nessun “viaggio cosmico”, nessun superamento del settenario planetario, nessuna travagliata esperienza iniziatica di natura palingenetica con conseguente uscita da sé, così come, per esempio, è descritto nell’Asino d’oro di Apuleio. Sembra di poter affermare che questo accostamento fra Albert Houssiau e Emmanuele Testa abbia davvero esemplificato la possibile differenza tra un “cattolicesimo psichico” e un “cattolicesimo gnostico” che per la sua “operatività” assume dei contenuti anche drammaticamente esperienziali.
Questo suggerimento interpretativo ha tutt’altro che natura forzatamente congetturare, dal momento che più e più volte Padre Testa parlerà del percorso gnostico cristiano,[7] differenziandolo, secondo certi criteri che non si stanno qui ad approfondire, dal cristianesimo come lo si conosce odiernamente. Possiamo concentrare la sua conclusione in questo suo passaggio:“La teologia cristiana dal primo al quarto secolo, amò manifestare la propria fede, più che con formule teologiche e metafisiche (come farà invece la greco - latina) con un sistema simbolico di segni, quasi proiezione della fede creduta. Tale sistema suscitò nel cuore dei fedeli una tendenza pronunziata a una GNOSI più profonda, a un amore sentito del mistero” etc.[8]
Si noti che il Nostro utilizza espressioni quali “sistema simbolico di segni” che evidentemente non può essere ristretto nella cornice della sola allegoresi (testuale e non) ma va ricondotto a una intuizione unitaria di natura predianoetica come fattore determinante che conduce alla contemplazione simbolica, come ben spiega Snodgrass in questo passaggio: “il referente del simbolo non è fisico ma metafisico non è conoscibile dai sensi e dalla mente cognitiva; può essere conosciuto solo in modo immediato e intuitivo, in uno stato indifferenziato di consapevolezza in cui il conoscente, il conosciuto e l’atto di conoscere sono inseparabilmente fusi e indistinti” (Adrian Snodgrass: 2004, 3). [9]
Allo stesso modo è da sottolineare che Padre Testa nel brano antecedente sembra alludere al processo conoscitivo “cardiaco”, proprio della cardiognosis, ma, infine, è da evidenziare, tra questa sintetica serie di indicazioni - dal momento che molte altre sene potrebbero produrre -, quella che tra tutte spicca e che il Nostro ha utilizzato nel commentare, un’altra via iniziatica, che Egli riconnette comunque al giudeo-cristianesimo, ossia l’itinerario enochita che conduce l’adepto, dopo aver superato il settenario planetario, l’Ogdoade, e le porte celesti, alla Croce luminosa, e che è la seguente: “E con questa visione della gloria della croce che terminava la meditazione del vero “gnostico”
A questo punto è lecito chiedersi, a proposito di viaggi tra le sfere celesti, assai “comuni” nelle iniziazioni del mondo classico, quale fosse la fonte onde questi mistici ante litteram traessero le informazioni “operative” necessarie ai loro fini e la risposta a tale domanda sembra fornirla direttamente l’altro fondamentale studioso ecclesiastico del giudeo – cristianesimo ossia Jean Danielou richiamando queste parole riprodotte e commentate da Jean Borella nel suo testo: “È certamente l’apocalittica giudaica che da il quadro cosmologico e la struttura antropologica implicante la descrizione del viaggio dell’anima e la sua ascensione spirituale verso il trono divino”. (J. Borella: 2002, 185). Si tratta di una sottolineatura da tenere ben presente per quanto si dirà in prosieguo.
“Quadro cosmologico” e “struttura antropologica” non sono espressioni secondarie, al contrario esse pesano come macigni sugli aspetti operativi di questo (o di questi) paleocristianesimo suggerendo l’esistenza di una corporeità sottile al servizio della palingenesi iniziatica, fisiologia “occulta” (in quanto non empiricamente evidente) ovviamente “dimenticata” negli sviluppi successivi del cattolicesimo ..ma qui ci si deve fermare.
È quindi scontato che si sta parlando di un viaggio dell’anima che, per grazia e/o per volontà, o per entrambe le circostanze, doveva distaccarsi dal corpo e percorrere autonomamente le rotte ascensionali, fino all’ apex pleromatico, non senza prima aver visitato il “mondo dei vizi”. Non della stessa opinione pare sia stato lo studioso del misticismo ebraico Giulio Busi che, nell’introduzione al suo libro dedicato alla mistica ebraica, non parla di anima ma di mente e lo fa con queste parole: “La letteratura (mistica n.d.r.) presenta un percorso mentale contemplativo o estatico di superamento dei confini spirituali concettuali, che conduce alla consapevolezza di verità trascendenti. Significativo è notare che questo processo e gli obiettivi ottenuti sono esternalizzati, un viaggio sensibile che conduce i Cercatori di Dio ad una sfera tattile celeste in cui egli risiede nei suoi palazzi e regna dal suo trono celeste.
È da domandarsi: ma come si può focalizzare meglio questa capacità di estrazione dal corpo dell’anima che può condurre l’uomo davvero dalle “stalle” del proprio stato individuale, sua prigione nell’immanenza, alle “stelle” della “dimensione trascendente” (ribaltando il noto proverbio)?
La chiave di volta del processo trasfigurativo riposa in quella facoltà, denominata immaginazione attiva, espressione abbondantemente argomentata da Henry Corbin praticamente in tutti i suoi testi ed entrata nel patrimonio degli studi d’ordine storico- religioso. Essa si configura come una attività (dell’anima, appunto) che è stata definita in maniera eccezionalmente sintetica con queste parole “L’immaginazione è una facoltà dell’anima che aiuta l’umano intelletto nella visione delle cose trascendenti” (Costantinius, XIII sec cit. in Mino Gabriele Alchimia e iconologia p.34 [10]
Naturalmente ci sarebbe ancora moltissimo da dire su quanto indicato da Padre Testa, tuttavia pensiamo che il condensato della sua proposta interpretativa sia stato eloquentemente esposto e quindi quanto detto sia sufficientemente esaustivo.
Esseno Cristianesimo da Bargil Pixner a Luisa Vittoria Guidetti
Non deve stupire che i più puri iniziati all’esoterismo biblico, gli Esseni, siano passati, fin da principio al cristianesimo, seguaci della tradizione messianica illuminati preparatori in occulto della venuta di Cristo, erano già qualificati per riconoscerlo e per integrare le antiche conoscenze arcane dell’Antico Testamento, con gli insegnamenti del Figlio di Dio (Paolo Virio: La kabbala cristiana, pag 17)
Un preliminare chiarimento intorno al contenuto della frase di Paolo Virio riportata in esergo. Secondo una assai rilevante sottolineatura di questo studioso, esponente, si può dire, di una linea dell’esoterismo cristiano di fonte gerosolimitana, il nome di Giacomo - Jacob - è seguito dall’appellativo el Hassid, ed el Hassid significherebbe l’esseno (circostanza in verità non riscontrata in altri testi a nostra conoscenza), come, allo steso modo, è denominato Hassid anche Giuseppe d’Arimatea che, quale “discepolo nascosto” è considerato membro di una linea gnostica inaugurante il ciclo graalico che s’installò in Inghilterra della quale abbiamo scritto altrove. Questo accostamento rinforzerebbe la prospettiva dell’esistenza di un nucleo gnostico primigenio all’interno della dottrina cristica.

Fig. 3 - Pianta di Gerusalemme con l’indicazione della “Porta degli Esseni”. Essa immetteva nel loro quartiere dove tra gli edifici v’è l’attuale Anastasis. Tale edificazione si definisce “La "Chiesa degli Apostoli" ma a Gerusalemme tale indicazione non è specifica di una singola chiesa in quanto può riguardare più luoghi significativi legati agli apostoli: la Basilica del Santo Sepolcro, che ospita il luogo della morte e resurrezione di Cristo nonché la Basilica della Dormizione sul Monte Sion, dove in un mosaico sono raffigurati gli apostoli con la Vergine. In alternativa, si potrebbe fare riferimento al Concilio di Gerusalemme o alle chiese costruite sul Monte degli Ulivi, che ospitano altri eventi legati agli Apostoli e a Gesù”
Detto ciò si può riprendere il discorso significando che le considerazioni proposte da Padre Testa, in ordine alle modalità liturgiche dell’iniziazione del giudeo-cristianesimo, si palesano come fulcrate sul viaggio celeste dell’anima distaccata dell’adepto fino al Trono di Dio, o alla Croce luminosa. Queste solide conclusioni del Nostro teologo hanno offerto un sostegno efficace per esaminare un altro aspetto dello sfaccettato poliedro quali si presenta il cristianesimo delle origini, seguendo la particolare interpretazione di un gruppo di studiosi che hanno accostato l’intera famiglia di Cristo all’essenismo.
Tra questi “studiosi” gioca un ruolo apicale, anche per l’importanza che ha assunto la sua posizione di raffinato teologo, il defunto pontefice Benedetto XVI, che, seppur cautamente (ma poi non troppo), si espresse positivamente circa la possibilità di vicinanza, più o meno stretta, della famiglia di Gesù, con Giacomo il Giusto in testa, con l’essenismo (aspetto religioso poi a propria volta particolarmente sfaccettato, un tema, questo, oggetto di infinite controversie).
Il suggerimento del vescovo di Roma è contenuto nel suo testo dedicato a Gesù di Nazareth in questo passaggio “Sembra che Giovanni Battista, ma forse anche Gesù e la sua famiglia fossero vicini a questa comunità degli Esseni” (Benedetto XVI; 2007,34).
Tale apertura è pienamente confermata nell’omelia pronunciata nella Basilica di San Giovanni in Laterano, per la Messa del Giovedì Santo il 5 aprile 2007 (quindi quando era già pontefice) di cui si stralcia un passaggio:“...l’Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale, nella cui forma tradizionale Egli inserì la novità del dono del suo corpo e del suo sangue. Questa contraddizione fino a qualche anno fa sembrava insolubile. La scoperta degli scritti di Qumran (attribuiti agli Esseni) ci ha nel frattempo condotto ad una possibile soluzione convincente che, pur non essendo ancora accettata da tutti, possiede tuttavia un alto grado di probabilità. Egli ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il Calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima e l’ha celebrata senza agnello, come la Comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del Nuovo Tempio...”.
Alla solidità di questo accostamento dell’Ultima Cena alla dottrina essena contribuisce la lettura di una particolare struttura architettonica, presente accanto al primevo cenacolo gerosolimitano ed è stata studiata con particolare attenzione dalla ricercatrice Maria Luisa Guidetti, che ha pubblicato gli esiti della sua investigazione in un felice articolo, la cui importanza sembra essere un poco sfuggita ad altri ricercatori.
L’immagine di questo edifico ottagonale si trova rappresentata nel mosaico absidale presente nell’antica basilica di Santa Pudenziana e la citata costruzione è raffigurata insieme ad altri edifici dell’antica Gerusalemme. Questo fa sì che si sia di fronte a una testimonianza storica di notevole valore, non solo artistico, come appare evidente, quanto, soprattutto, teologico e...ideologico.
Nel già citato testo di Simon Claude Mimouni Jacques le Juste frere del Jesus de Nazareth. Histoire dela communauté nazoreene/cretienne de Jerusalemme du I° au IV° sec., l’autore dedica alcune pagine a questa opera d’arte riconoscendone l’importanza ma non spingendosi oltre nell’indagine circa il possibile significato che tale architettura ottagonale riveste nella dinamica liturgica primigenia. In ogni caso facciamo nostre alcune sue osservazioni e, per conseguenza, dal testo dell’autore citato si stralciano alcuni essenziali passaggi inerenti il tema in cui si descrivono e si interpretano le immagini dell’urbe gerosolimitana che fa da sfondo agli eventi fatti raccontare dal committente del mosaico ai personaggi raffigurati nell’abside.
Questi scrive: “A partire dagli anni 370-380, la Gerusalemme cristiana, che, dopo Costantino e i conflitti sorti dal Concilio di Nicea, era uscita dagli interessi degli imperatori romani e della corte, assunse uno splendore senza precedenti durante la dinastia teodosiana e si affermò come centro dell'universo e sede della Prima Chiesa, come incarnazione escatologica della città celeste”. Posto questo punto fermo, circa lo stato architettonico della città, l’autore prosegue: “Il mosaico della fine del IV o dell'inizio del V secolo dell'abside della chiesa di Santa Pudenziana a Roma, illustra mirabilmente l'interpretazione di questa concezione della Gerusalemme cristiana...dove l'immagine della città eterna si innesta sull'aspetto temporale e spaziale della città, simboleggiato dai suoi principali santuari”.
Proseguiamo nella descrizione, parafrasando stavolta, almeno a tratti, alcuni passaggi del testo dell’autore, su cui sono innestati le riflessioni di altri interpreti, cercando di porci dal punto di vista dell’osservatore del mosaico ai tempi della sua realizzazione.
Questo meravigliato spettatore coglieva al centro della rappresentazione la croce di Cristo, infissa sul Golgota e posta alle spalle del Cristo risorto. Questi, trionfando sulla morte, ne ha come aurificato l’aspetto trasfigurando la croce di legno in croce di luce per cui “Quella croce non è il solito supplizio di legno, ma il segno di una realtà misteriosa, luminosa e vivente; è il Cristo stesso nella sua natura nascosta”, espressione che si ritrova nell’ortodosso, ma non canonico, Vangelo di Pietro. Di questa croce ne descrive il significato simbolico il Corbin affermando che essa separa le cose “che sono” in alto da quelle che “divengono” in basso, com’è indicato in un complesso passaggio narrato degli Atti di Giovanni (H. Corbin: 2013,80). La croce di luce è concepita come l’esoterico della croce di legno, manifestando così l’espressione di una sorta di esodo dalla materialità e recando profonde similitudini con la colonna di luce del manicheismo e per questo è plausibile ritenere che i due simboli potrebbero essere proficuamente accostati uno all’altro riferendosi magari a rare ritmiche astronomiche cui i nostri predecessori conferivano simbolicamente profondi significati spirituali finanche escatologici.
Entrambe questi aspetti paiono raccontati nel mosaico che farebbe riferimento al ritrovamento, pressoché miracoloso, della reliquia della Vera Croce da parte di Elena, madre di Costantino, evento risalente al 326-327, sia all'apparizione di una grandiosa e luminosa croce celeste, un fenomeno che sarebbe avvenuto del 351.
La preziosità del manufatto è incrementata dallo sfolgorio delle pietre preziose di cui essa è ordinatamente cosparsa e che si riconnettono al misterioso linguaggio spirituale delle pietre che grande rilievo ha avuto nel mondo antico e quindi anche nel cristianesimo.
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Fig.4 (tre immagini) - Abside di Santa Pudenziana con l’illustrazione degli eventi narrati in questo testo
Pietro e Paolo, raffigurati in questo mosaico, rappresentano non solo i due pilastri della Chiesa di Roma, ma anche l’accettazione (sottomissione?) da parte della Chiesa di Gerusalemme alla teologia della Grande Chiesa, infatti alle spalle dei due apostoli, quasi “paganamente”, accade che due donne li incoronino in forma vittoriale.
Le due donne sono di età differente, una è una giovane dai neri capelli, l’altra è un’anziana, ed è quindi ritratta con capelli bianchi. La giovane rappresenta la “chiesa dei Gentili”, Ecclesia ex gentibus, ed è quella che incorona Pietro quale successore di Cristo, mentre l’anziana rappresenta la prima Chiesa di Gerusalemme, Ecclesia ex circumcisione. Ella, molto sfrontatamente, nel mosaico è rappresentata nell’atto di “paolinizzarsi”, incoronando colui che mai conobbe il Cristo, contrariamente al fratello del Signore Giacomo che stette accanto a Gesù per tutta la vita e come il Cristo morì perdonando i suoi persecutori. Si è detto “sfrontatamente” perché dal punto di vista dei giudeo-cristiani era stato Giacomo a contrapporsi valorosamente al’insegnamento di Paolo e, all’inizio nella disputa, a trionfare su lui e sui suoi seguaci, i c.d. paoliniani, prima che la situazione descritta fosse ribaltata com’è certificato dal mosaico.
Un ulteriore contributo a favore della declinazione essenica degli eventi proviene da un ecclesiastico, Mario Canciani, il quale al “Cenacolo esseno” ha dedicato una bella pubblicazione dall’eloquente titolo L’ultima cena degli Esseni. Egli così presenta la situazione: “In seguito a ciò, si ebbe sul Sion, l’elezione del primo vescovo cristiano di origine non ebrea. Cominciò allora a sbilanciarsi l’equilibrio tra la Chiesa dei Giudeo Cristiani circoncisi e i Cristiani di origine greca, che si accentuerà poi con la venuta dei Bizantini. È più facile allora pensare come sia finita, come un ramo secco, la Chiesa Giudeo Cristiana che rappresentò sino al quarto secolo una spina nel fianco della Chiesa che aveva invece progetti universalistici” (M. Canciani:1995, 47)
La riconciliazione fra la comunità del Sion, che, probabilmente, era stata scomunicata dal Concilio di Nicea, e quella dell’Anastasis, segna quindi l’omologazione della Chiesa dei familiari di Gesù alla ‘Grande Chiesa’ e questa “confusione” rappresentò un evento davvero epocale, la cui eco risuonò anche a Roma, come appunto ci documenta la testimonianza presente in questa Basilica. Il segno vivo della ferita scaturito da questo paradosso, dovuto al rovesciamento dei ruoli tra le due chiese, con cui a Chiesa di Giacomo che da primaziale passò a essere subordinata e poi da subordinata a scomparsa/scartigliata, è rimasto indelebilmente scolpito nei secoli tanto che ai nostri giorni un qualificato commentatore, Dario Chioli, sintetizza l’evento con queste parole: “C’è anche un altro mistero della storia: è sparita la Chiesa di Giacomo, la chiesa di Gerusalemme, quella dei congiunti di Gesù. Questo è il Graal perduto, la Parola dimenticata, il Castello dalle porte serrate”.

Fig. 5 - Fasi della costruzione di tutto il complesso monumentale rappresentato nel mosaico absidale di Santa Pudenziana
Giunti a questo punto dopo aver preso atto che, salvo errori ed omissioni da parte dello scrivente, della funzione di questo portico ottagonale non ci sia traccia nel lavoro del Mimouni, si deve prendere un’altra strada per comprenderne le funzioni, visto che la sua erezione appare d’importanza essenziale per costruire la figura di Giacomo quale capo della primeva chiesa esseno-cristiana gerosolimitana, secondo la forse audace, ma rigorosa, ricostruzione della citata Guidetti.
Si è di fronte a una ricomposizione degli eventi delle origini che la studiosa da decenni rumina e che si sintetizza in questa categorica e impegnativa ma, al contempo, assai convincente conclusione: “Sappiamo inoltre che nei primi anni del cristianesimo Giacomo, il fratello del Signore, fu a capo della comunità esseno-cristiana che si riuniva sul monte Sion, nello stesso quartiere in cui aveva vissuto la comunità essena al tempo di Gesù” (La cena rituale essena e la comunità della santa Sion p. 17)[11]
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Fig. 6 (2 immagini) Sono a confronto due strutture ottagonali. La prima è la pianta dell’edificio costruito accanto al Cenacolo e non sopravvissuta reputata la traduzione architettonica della“merkavah” e quindi con la chiara indicazione del VIAGGIO COSMICO DELL’ANIMA nel dominio delle sfere. L’altra testimonianza è parimenti significativa in quanto attesterebbe come la struttura ottagonale della Cupola della roccia sia stata anch’essa concepita come la “descrizione” di un possibile itinerario celeste. Difatti ogni lato del portico può essere letto come una tappa del predetto percorso tra le sfere compiuto dal Profeta dell’Islam, mostrando così una struttura estatica comune alle tre religioni. (informazioni e immagini cortesemente fornite dalla d.ssa Vittoria Luisa Guidetti che qui si ha occassione di ringraziare)
Ecco dunque che con queste sole quattro righe, riassuntive di una serqua di studi in proposito, si apre un grande squarcio interpretativo, nato dall’osservazione di uno scorcio visuale dell’antica Gerusalemme teodosiana. Esso ci relaziona circa il legame intercorrente tra le attività del primigenio Cenacolo-Sinagoga del Sion - già accuratamente esaminato dall’autrice in altre occasioni - circostanziando qui i preziosi suggerimenti forniti circa la sua peculiare architettura e della sua primigenia liturgia agapica, che comprendeva letture “teosofiche” quali Giuseppe e Asanet[12],e l’annesso portico ottagonale, posto in ideale continuità con una linea eterodossa qual è l’essenismo (il Cenacolo-Sinagoga sarebbe stato stato difatti “esseno” e quindi in contrasto con il Tempio; da qui il voluto dis-allineamento della “nicchia” dello stesso in opposizione al normale orientamento delle altre sinagoghe gerosolimitane). La sua funzione viene riferita al compimento di un possibile percorso iniziatico, profondamente legato alla pregressa investitura di Giacomo a ”patrono” dell’edificio ben dopo la sua morte “gloriosa” (Giacomo, nella tradizione che lo riguarda, fu assunto in cielo immediatamente dopo il martirio, come san Disma - il buon ladrone -, e come Enoch ed Elia).
In un articolo non si può motivare con argomentazioni adeguatamente estese la innovativa conclusione cui è giunta la ricercatrice, confortata nelle sue deduzioni da numerosi specialisti, ovviamente è necessario rimandare alla fonte; tuttavia non possiamo omettere che la traccia che ha suggerito il risultato annunciato, ossia l’essenicità di Giacomo, nasce direttamente dal Vangelo e dalla figura defilata dell’”uomo con la brocca” nella considerazione che “l’uomo con la brocca”, di cui nel testo evangelico viene taciuta l’identità, potrebbe ben essere un esseno (perché tra gli Esseni gli uomini portavano la brocca, compito altrimenti riservato alle donne) che si muove nel quartiere esseno di Gerusalemme e, soprattutto, è colui che sembra “gestire”, se non addirittura essere, il proprietario della foresteria del Cenacolo.
A questo punto, dopo aver fornito elementi sufficienti circa lo stretto legame che unisce Giacomo agli Esseni, entriamo nella parte più complessa di questa trattazione tesa a indicare sia il legame tra Giacomo e l’edificio a lui molto posteriore, sia gli scopi di questa costruzione utilizzando a tale proposito le stesse indispensabili parole della Autrice. “Fu difatti Cirillo di Gerusalemme, dispiaciuto di non poter accedere alla ‘Chiesa superiore degli Apostoli’ a causa delle tensioni fra i giudeo-cristiani ed i gentili-cristiani, ad ottenere da Teodosio I, al fine della riconciliazione, i finanziamenti per costruire quel portico-chiesa, del quale, nel 381, fu invitato a celebrare gli encaenia[13]. A ciò è davvero necessario aggiungere questo ulteriore passaggio proveniente sempre dalla penna dell’autrice: “Possediamo il testo armeno dell’omelia pronunciata da Cirillo in quell’occasione, che più volte fa riferimento ad una pietra - chiamata Kapporet- posta al centro del portico in funzione di altare. La prima parte dell’omelia commenta il rito che Cirillo inventò per quella circostanza: una specie di Kippur cristiano volto all’espiazione del peccato di ‘odio’ che divide i cristiani. La seconda parte dell’omelia si sviluppa secondo gli schemi di una merkabah, o meglio un’ogdoade giudeo-cristiana, in otto sfere successive che rispecchiano la struttura architettonica del portico e tratteggiano una tipologia dell’aldilà. In ogni sfera si esplica in modo diverso la funzione espiatrice della pietra/Kapporet, che nella quinta sfera riceve un’unzione, ed ogni sfera è un luogo dello spirito da attraversare per giungere alla ‘camera alta’, in cui si celebra il matrimonio tra il divino Sposo e la Chiesa ed in cui sarà da ravvisare la tipologia celeste della stanza superiore (hyperon) citata in At 1,13.) L’omelia è indirizzata ad un misterioso personaggio di nome P’op’or, al quale Cirillo si rivolge per cinque volte e sul quale credo di poter avanzare qualche nuova proposta di identificazione in confronto a quanto emerso fino ad oggi, grazie anche all'aiuto del padre Charles Renoux...”. (Da V. L. Guidetti; Il portico ottagonale annesso alla Chiesa del Sion. Atto Convegno 2017, Storia delle Religioni e Archeologia, II: i Luoghi del Culto. Organization: Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni”)
Arriviamo quindi ora al terzo passaggio, ovvero quello in cui la ricercatrice lega il portico ottagonale a Giacomo, elemento che consente di completare il circuito. Qui si può leggere:
: “Dio aveva poi nuovamente dato il modello del Tempio in Ez. 40-48, e si può dire che Giacomo/P’op’or il quale aveva le sue radici in quella religiosità incentrata sul culto celeste ed ispirata principalmente al libro di Ezechiele - ha operato ‘come Ezechiele [...] secondo la grazia che dà lo Spirito Santo: la comunità che si riunisce nel portico ottagonale di recente costruzione si riconosce erede di quella fondata da Giacomo e Cirillo può affermare che a presiedere alla costruzione del portico e ad accendervi ‘le lampade con l’olio dolce’ è stato P'op'or/Giacomo, esecutore della volontà divina manifestata da Ezechiele, come se la costruzione di quel portico voluto da Cirillo fosse in realtà una sorta di esecuzione testamentaria della volontà di Giacomo e da Giacomo ne fosse partita l'ideazione. Pertanto l’architetto/costruttore celeste di Ezechiele 40,3 viene identificato con P’op’or/Giacomo, ispiratore a sua volta della edificazione del portico ottagonale annesso alla Santa Sion per volere di Cirillo”. (da V.L. Guidetti: Il portico ottagonale annesso alla chiesa del Sion, etc.).
Non possiamo ulteriormente dilungarci nell’argomento ma dopo aver saccheggiato l’inestimabile lavoro della Guidetti ci sembra che le motivazioni idonee ad accostare l’essenismo alla famiglia di Gesù e al Cristo stesso, siano state rese in maniera sufficientemente esaustiva. Per una più ampia trattazione di temi qui sinteticamente proposti, insieme a molti altri attinenti il protocristianesimo e la sua possibile linea di gnosi, si può consultare il nostro scritto Gnosi Protocristiana: Iniziazione dei vivi e dei morti nel giudeo-cristianesimo e, naturalmente, per una ancor più approfondita disamina della materia, la cospicua bibliografia che correda questo articolo.
NB tutte le evidenziazioni del testo sono dell’autore di questo scritto
Bibliografia
C. Bellarmino Bagatti: Nazareth nell'archeologia, Rizzoli, Milano,1998
Valentino Bellucci: La gnosi cristiana, I quaderni di Harmakilis, Arezzo, 2016
Giordano Berti: Enoch l’entronauta, Armenia, Milano, 2000
Alain de Benoist: Gesù e i suoi fratelli. Un mistero nascosto nei vangeli, Diana edizioni, Milano, 2016 .
Daniele Bianchi: L’origine del cristianesimo nel pensiero di Elia Benamozegh Tesi laurea Università degli studi Udine, Anno accademico 2008/2009, disponibile in rete
Jean Borella: Esoterismo guénoniano e mistero cristiano, Arkeios, Roma, 2002
Jean Briand: La chiesa primitiva nei ricordi di Nazaret, Francisacan Printing Press Jelusalem, IV ed., 1993
Giulio Busi: Città di luce. La mistica ebraica dei Palazzi Celesti, Einaudi, Torino, 2019
Giulio Busi: Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino, 1999
Mario Canciani: Ultima cena degli esseni, Mediterranee, Roma, 1995
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[1] Scrive Mimouni: “Il termine "cristianesimo nazareno" si riferisce ai seguaci di Gesù, chiamati nazareni, che possono essere intesi come i primi cristiani di origine ebraica, come i membri della moderna Chiesa del Nazareno, o in senso più ampio, come i credenti nel Cristo storico. L'etimologia del termine è dibattuta, ma può derivare dal nome della città di Nazareth, da un voto di nazireato (consacrazione) oppure da un termine teologico-messianico come "germoglio".Jacques le Juste frere del Jesus de Nazareth. Histoire dela communauté nazoreene/cretienne de Jerusalemme du I° au IV° sec., p. 260]
I "Desposyni" (dal greco δεσπόσυνοι, "appartenenti al Signore") erano i parenti di sangue di Gesù, menzionati nella tradizione cristiana delle origini. Sebbene il termine si riferisse ai parenti di Gesù ancora in vita, in epoche successive venne applicato ai discendenti della famiglia di Gesù, che ebbero un ruolo di rilievo nella Chiesa primitiva. (elaborato da Wikipedia)
[2] “Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor.15)
[3] Padre Testa, nel suo lavoro, utilizzerà più volte il termine indiarsi e per darne piena esplicitazione farà sovente riferimento a Dante, prendendolo come esempio dell’indiarsi del mistico, il che per un francescano è piuttosto rilevante. Dante stesso, del resto, nella Commedia si attribuirà il raggiungimento di una condizione di “quasi isocristicità” e con il Poeta concordano molti commentatori dell’epoca sua che ne parlano “francescanamente” come se Egli fosse un alter Christus, e come pare suggerire lo stesso scritto di Padre Testa. Riportiamo a tal proposito in passaggio a commento di Edi Minguzzi tratto dal suo articolo Lo schema neoplatonico e struttura della Divina Commedia, in Octagon n.3, in cui la ricercatrice scrive: “Allo stesso modo nel Paradiso terrestre all’inizio del viaggio interplanetario il Poeta trasumana alla fine si indìa, cioè s’identifica con il divino”.
[4]ll tema del viaggio cosmico costituisce un vero e proprio leit-motiv di tutta l’iniziazione nazarena e per questo può essere conveniente indicare i punti essenziali perché davvero ci si trova di fronte a una cattedrale di dottrina e prassi inghiottita dalle vicende storiche che va opportunamente resuscitata. Come annota padre Testa si possono identificare tre stati fondamentali di questo complesso itinerario che coincidono poi con le tappe del monachesimo medioevale e che identificano tre “regioni” di passaggio e stazione dell’anima. Le tappe sono purificazione, illuminazione e unione. Quanto la prima essa consisteva in vari passaggi. Il primo di essi si risolve in un esame di coscienza davanti al “Cristo – Sole”, attraverso un esame degli otto vizi capitali e nella liberazione dalle catene di tali vizi, la liberazione era conseguita mediante riti di iniziazione che si compivano dopo dopo le profonde meditazioni nelle spelonche mistiche. Questo però era solo l’esordio del percorso perché l’anima, abbandonando ogni attaccamento, doveva addentrarsi nella tenebra fino a raggiungere un determinato luogo identificato come il Paradiso terrestre, contraddistinto da un’isola dominata da una alta montagna e posta all’estremo occidente della Terra. “L’asceta o il morto”, sottolinea padre Testa, era chiamato a ulteriori meditazioni fino a giungere a contemplare le sette stelle richiamate da Dante e i tre globi fissi del suo itinerario che portano a Dio. Qui inizia la via illuminativa che si compie ascendendo ai sette cieli in cui nell’ultimo l’anima gode della visione degli angeli e dei santi, si potrebbe dire che consegue una visione isoangelica. Ma il settimo cielo è ancora un limite per l’iniziato che può completare il suo itinerario (superando quindi la stessa sfera della santità) penetrando nei tre cieli delle stelle immobili fino a giungere nel regno di Dio e avere una visione facciale dello stesso. È questa la terza tappa l’unione con Dio che determina l’indiarsi dell’asceta. (cfr. E. Testa: 2004, 117,118).
[5] Il periodo completo è il seguente: “E certamente non furono sciocchi coloro che istituirono i Misteri: e in verità ci hanno velatamente rivelato che colui il quale arriva all'Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacerà in mezzo al fango; invece colui che si è iniziato e si è purificato, giungendo colà, abiterà con gli Dei. Infatti, gli interpreti dei misteri dicono che i portatori di ferule son molti, ma i Bacchi sono pochi. E costoro, io penso, non sono se non coloro che praticano rettamente la filosofia” (Platone, Fedone 69C-D.)
[6]Il riconoscimento della santità è il processo, seguito dalla Chiesa cattolica, per cui un fedele defunto viene dichiarato santo attraverso la canonizzazione, che ne sancisce la venerazione da parte di tutta la Chiesa. Questo processo inizia con l'attribuzione del titolo di Servo di Dio, può proseguire con la proclamazione di Venerabile (se le virtù eroiche sono accertate) o Beato (se viene riconosciuto un miracolo), e si conclude con la canonizzazione (ulteriore riconoscimento di un secondo miracolo) che porta all'iscrizione nel catalogo dei santi. (da Wikipedia)
[7] Egli parlando di una specifica categoria di croci - le “croci-stella” esattamente -, scrive che sia la prima che la seconda venuta del Messia è stata (e sarà) anticipata dal comparire di una certa stella nel cielo contraddistinta da una speciale brillantezza e così si esprime in ordine all’annunciato prodigio: “Si identifica pure con la croce gloriosa sbocciata dal germe messia, secondo Is.11,1 per apportare al mondo tenebroso del peccato, la luce della vera gnosi“ (E. Testa: 2004, 282-283), concetto ripetuto nell’interpretazione del brano del Protovangelo di Giacomo che parla della luce della stella di Magi; “perché la stella cometa simbolizza la luce del Messia che dissipa le tenebre; essa non è altro che la vera gnosi” (ibidem, 285). Concludiamo con un altro passaggio tratto dal Testamento di Levi, ripreso sempre da Padre Testa: “La sua stella sorgerà dal cielo, come quella di un re, irraggiando la luce della gnosi, come il sol il giorno...”
[8] La parola “gnosi” getta tanto terrore in ambiente ecclesiastico che gli stessi confratelli del Nostro teologo hanno mutato il senso della parole del suo testo sostituendo, nella loro presentazione del volume sul web, al termine “gnosi” la parola “diagnosi” e restringendo, del tutto erroneamente, il periodo di floridezza del giudeo cristianesimo di ben due secoli. Riportiamo qui per correttezza il consultabile brano “incriminato”: "L’introduzione storica che correda il volume avverte che la teologia giudeo-cristiana, dal primo al secondo secolo, amò manifestare la propria fede più che con formule teologiche e metafisiche (come farà invece quella greco-latina), con un sistema simbolico di segni, quasi a proiezione della fede creduta. Tale sistema suscitò nei cuori dei fedeli una tendenza pronunziata a una DIAGNOSI più profonda e ad un sentito amore del mistero. Il notevole contributo di P. Testa a questo interessante ramo di studi, non vuole essere soltanto un isolato lavoro di indagine storica; esso tende invece alla “riscoperta” delle varie comunità giudeo-cristiane scomparse nel fatale processo storico sotto la duplice pressione dell’Ebraismo ufficiale e del movimento etnico-cristiano più forte e meglio organizzato". Scrive il precedentemente citato Mimouni “Questa ipotesi non è stata difesa da molti ricercatori, oltre a Bellarmino Bagatti e ai membri della Scuola Italiana di Gerusalemme, tra cui Frédéric Manns ed Emmanuele Testa. Possiamo citare anche,e soprattutto, Michel van Esbroeck il cui lavoro fu premonitore, in particolare nel considerare che la distinzione o rottura tra Ebraismo e Cristianesimo non poteva essere antecedente al IV secolo un parametro di ricerca spesso accettato oggi. Tornando a Giacomo il Giusto, ai suoi tempi sembra che fosse una figura relativamente importante, come si evince dallo storiografo Flavio Giuseppe, che lo menziona in un passo delle sue Antichità giudaiche, dichiarandolo evidentemente tenuto in grande stima, poiché alcuni abitanti di Gerusalemme, fedeli alla Legge, si erano indignati per la sua esecuzione senza un vero motivo”.
[9] Non ci si può privare, sul tema del simbolo, quale cornucopia di significati, e della liturgia che ad esso si connette, di una brillante osservazione ricavata dalla lettura dei testi di Nuccio D’Anna di cui qui si propone un significativo passaggio: ”Tutto ciò potrà far ben capire perché ogni simbolo, pur nella sua apparente semplicità grafica e rappresentativa, è complesso ricco di significati vari, non esauribili all’interno di uno schema logico che ne snaturerebbe la funzione e il valore...” (N. D’Anna: 2021, 50).
[10] Il tema dell’esercizio immaginativo nella pratica operativa è assolutamente centrale. Di esso, in relazione alla mistica Ebraica, aveva estesamente parlato G, Scholem rifacendosi a Henry Corbin. Meno noto è il fatto che sul tema avesse molto argomentato anche René Guénon nel lavoro che gli è attribuito dal titolo Psychologie. (Introduction, notes et choix des illustrations par Alessandro Grossato)
[11]La problematica archeologica storica relativa alla sinagoga ebrea e/o giudeo cristiana presente nella colina del Sion, si accompagna a una certa velata “ambiguità” delle figure che in esse agirono ai primordi della vicenda cristiana. Una espressione delle possibili controversie dottrinali che investirono il luogo ci è testimoniato da queste parole di Eusebio: ”Benché è evidente che fu a Gerusalemme e sul Monte Sion ad essa adiacente che nostro Signore e Salvatore diede molti insegnamenti ed ebbe parecchie diatribe”. La vicenda del Sion è appassionante e lo scritto di Vittoria Luisa Guidetti La comunità del Sion e la Didaché, pubblicato in Religione e religioni l’essenza e il Mistero (Atti del Convegno di Simmetria 14 Aprile 2018) è assolutamente raccomandabile per la quantità di ragionate informazioni che esso fornisce su tale tematica.
[12]Un solo breve passaggio per introdurre all’ordine di idee che propone la ricercatrice in ordine al tema dell’escatologia prepartecipata, quale indirizzo di scopo di questo orientamento spirituale, già presente nel Cenacolo e ulteriormente testimoniato dall’architettura del Portico. La lettura del testo citato, Giuseppe e Aseneth, si svolgeva in una comunità di iniziati in cui tale esperienza era partecipata come riappropriazione di una condizione aurorale perduta.
[13] La parola deriva dal latino con significato di dedicazione o consacrazione, e proviene in ultima analisi dal greco antico ἐγκαίνια (enkainia). Il termine fu originariamente utilizzato per indicare gli otto giorni di celebrazione per la dedicazione della Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, celebrazione che comprendeva anche il ritrovamento della Vera Croce da parte dell'imperatrice Elena nel 326. Poiché la Chiesa del Santo Sepolcro fu consacrata il 13 settembre 335, l'encaenia iniziò il 13 settembre, mentre la croce stessa fu portata fuori dalla chiesa il 14 settembre in modo che il clero e i fedeli potessero pregare davanti alla Vera Croce (Festa della Croce). (elaborato da Wikipedia)








