ROMA, ETRURIA E GRECIA (di P. Galiano) - PARTE II - ROMA, GRECIA ED ETRURIA: DIVINITÀ A CONFRONTO

PARTE II - ROMA, GRECIA ED ETRURIA: DIVINITÀ A CONFRONTO

Voler descrivere in modo completo il significato arcaico originale dei principali Dèi di Roma non è possibile in forma abbreviata, per cui per alcuni tra essi rimandiamo a quelle che abbiamo definito “le biografie degli Dèi”, pubblicate nella collana Roma e la Civiltà Mediterranea delle edizioni Simmetria[18], e agli excursus che li riguardano nel saggio sul Calendario e sulle feste romane Il tempo di Roma[19], mentre qui sarà presentato solo un breve riassunto dei principali elementi che differenziano alcune tra le divinità romane, greche ed etrusche sulla base di elementi letterari, filologici e archeologici.

Come diremo, la reale funzione arcaica degli Dèi di Roma può così essere sintetizzata: che Giano è signore del “passare”, spirituale o materiale che sia, Saturno l’ordinatore della realtà nel passaggio dall’indifferenziato di Giano alla civilizzazione delle popolazioni, Vortumno è il Dio del “mutare”, del fluire, del trasformare, Vulcano è il “Fuoco”, fuoco distruttore e fuoco generatore, Vesta il “luogo” dove si manifesta il Fuoco sacro, potenzialità di creazione che genera rimanendo vergine con l’azione creatrice del Fuoco, Marte è la “maschilità” che protegge e difende, Venere la “grazia” che l’uomo ottiene dagli Dèi, il punto di collegamento fra i due mondi, così come, per fare altri esempi, Apollo è il “medico”, colui che previene e ripara i danni che la creatura umana può subire, Cerere il “luogo” dove ciò che muore si tramuta in nuova vita, che siano i semi o gli Antenati, Ercole il guerriero vittorioso.

APOLLO, IL MEDICO

Il Dio originario di Roma[20] va tenuto distinto dall’Apollo greco, mentre alcune funzioni dell’Apollo etrusco, Aplu, lo rendono una figura intermedia tra Roma e Grecia, è guaritore ma anche divinatore, identificato con il sole ma con caratteristiche ctoniche assenti nell’Apollo greco.

A Roma Apollo non ha quella funzione profetica che costituisce la caratteristica probabilmente arcaica dell’Apollo greco (il Dio della profezia, nel periodo monarchico e alto repubblicano, è invece Fauno), come anche il carattere di musico e la sua identificazione come Helios; i miti concernenti l’Apollo greco sono del tutto sconosciuti nella Roma arcaica: i miti concernenti l’opposizione tra Apollo ed Herakles, per la cerva di Cerinea e il tripode della profetessa di Apollo, sono sconosciuti a Roma fino al I sec. a.C. ma presenti in Etruria (anzi, il primo mito costituisce il soggetto del frontone del tempio di Veio).

L’Apollo latino e romano è una divinità arcaica, il suo nome, secondo l’etimologia proposta da Macrobio, deriverebbe da apellens, “colui che respinge”, etimologia che sarebbe concorde con l’attività protettrice del Dio. Al nome dell’Άπόλλων veniva invece dato il significato di “divinità punitrice e vendicatrice” dal verbo ἀπόλλυμι, e aveva duplice aspetto, l’Apollo benevolo e protettore e l’Apollo oscuro e feroce, raffigurato come lo scorticatore di Marsia.

A Roma nei tempi più antichi Apollo è medico e al tempo stesso protettore e purificatore della città:

medico in quanto con le sue frecce aveva il potere di guarire o uccidere gli uomini, protettore dell’Urbe, come si vede in un episodio narrato a proposito dei Ludi Apollinares da Macrobio[21] e purificatore, in quanto il suo tempio era (almeno in età repubblicana) era uno dei punti di riferimento delle processioni dei novendiales, riti che si tenevano in occasione di gravi eventi che colpivano l’Urbe[22].

Apollo e Soranus Pater: gli Hirpi Sorani.

L’Apollo romano è assimilato a molte altre divinità, di cui la più interessante è il Soranus Pater, divinità falisca venerata sul monte Soratte, ai cui piedi si trovava il lucus Feroniae dedicato alla Dèa Feronia, forse la sua paredra.

Soranus è connesso alla funzione mantica e al lupo, animale sacro all’Apollo greco; suoi seguaci o forse suoi sacerdoti sono gli Hirpi Sorani, dove hirpus è termine falisco per lupo (ma anche il nome del popolo degli Irpini). Viene solitamente messo in rapporto con quello dell’etrusco Suri signore degli Inferi, e infatti ha anche caratteri di divinità ctonica (come Feronia), ma non possiamo fare a meno di pensare a un collegamento con l’antico Indiano sū́rya-, sū́ra-, “sole”, dalla radice indoeuropea *sāw-el[23], che si ritrova nel nome del Dio norreno Sur, una forma di Sole distruttore che annienterà la creazione con il fuoco. Per alcuni Autori invece esso potrebbe essere riportato al termine falisco sorex con significato forse di “sacerdote”[24], per cui hirpi sorani potrebbe tradursi sia “lupi di Soranus” che “sacerdoti-lupi” (non è certo che si tratti di un sacerdozio, perché per Servio il nome indicherebbe invece una popolazione, “un piccolo gruppo di immigrati provenienti dall’altra sponda del Tevere, dall’area parlante il sabellico[25]).

Il rapporto tra Apollo e Soranus si trova esplicitamente in Plinio (ma potrebbe essere molto più antico e risalire almeno al V secolo[26]), il quale scrive: “Nell’agro falisco vi sono alcune famiglie che sono chiamate Hirpi, le quali annualmente compiono un rituale in onore di Apollo al monte Soratte camminando sulla cenere della legna bruciata senza ustionarsi; per tale motivo hanno diritto per senatoconsulto all’esenzione dal servizio militare e da altri pesi[27].

Comunque, è da notare che la più antica citazione nel mondo latino del nome di Apollo proviene proprio dall’area falisca, in un’iscrizione del tempio maggiore di Colle di Vignale, il centro cultuale più antico di Falerii Veteres[28].

La connessione tra Apollo e Soranus porta anche a una connessione di Apollo con Dis Pater, in quanto, sempre secondo Servio, gli Hirpi Sorani erano devoti di Dis Pater: “Gli Hirpi Sorani sono così detti da Dite, perché Pater Soranus è chiamato Dite, e quindi gli Hirpi sono quasi i lupi del Padre Dite[29]. Questa sarebbe un’ulteriore conferma del carattere infero di Apollo-Sorano.

 

ERCOLE, IL POTENTE TRIONFATORE

Il suo nome, Hercules, indica come non possa trattarsi di una lati­nizzazione del nome greco di Herakles: questo è nome teoforico, “il vanto (o la gloria) di Hera”, che non può tramutarsi in Ercole per variazioni glottologiche difficilmente spiegabili; inoltre Ercole, essendo per i Romani, come per gli altri popoli italici, un Dio e non un uomo, non può portare un nome composto con quello di altra divinità[30]. A differenza dell’Ercole romano, il nome etrusco Herkle indica la diretta importazione dall’Herakles greco, che entrò in Etruria con tutti i miti che ne abbelliscono la figura, in particolare quelli concernenti le dodici “fatiche di Ercole”, miti assente nel Dio romano.

Che l’Ercole latino sia identificato come mercante è frutto dell’inesatta interpretazione di eventi o luoghi a lui connessi: i suoi templi più impor­tanti, l’Ara Maxima, l’Hercules Invictus presso l’Ara Maxima e l’Hercules ad Portam Trigeminam, erano situati nella zona del Foro Boario e quindi in prossimità del porto di Roma e quindi ciò sembrerebbe giustificare il titolo di Dio dei mercanti che gli viene affibbiato, questo perché non si ha presente il vero ruolo del Foro Boario, che già più di un secolo fa Nispi-Landi aveva correttamente individuato[31]. Per giustificare questa derivazione Dumézil scrive: “Portato sulle banchine di Roma da commercianti greci, Ercole per loro non era il dio del commercio, ma piuttosto dell’energia indispensabile per il suo esercizio[32]. Così Ercole è divenuto un doppione di Mercurius, il quale invece, come dice la radice stessa del suo nome da merx, è colui che propriamente si occupa delle merci e dei commercianti.

Ora anche l’archeologia ufficiale riconosce la particolare antichità del Foro Boario: “La tradizione antica, quasi unanime, fa risalire ad una remota antichità la frequentazione e l’occupazione del Foro Boario, al quale anzi si attribuisce un ruolo preminente anteriormente alla creazione dello stesso centro urbano[33].

Ercole è Dio così antico da comparire agli inizi stessi della storia di Roma: il suo rituale dell’Ara Maxima fondato al tempo di Evandro per i Romani era secondo solo alle are innalzate dagli Aborigeni a Saturnus e a Dis Pater, e la sua funzione è eminentemente guerriera e non mercantile, come testimonia Macrobio sulla base della dottrina dei Pontifices: “Tale Dio anche presso i Pontefici è identificato con Marte[34], il che è confermato dalla statua bronzea di Hercules Triumphalis sulla via del Trionfo, “la quale in occasione del trionfo veniva vestita dell’abito trionfale, e si trovava presso il tempio di Janus dedicato da Numa[35]. Infine il primo lectisternium di cui si abbia notizia, quello del 503 a.C., è offerto ad Ercole e ad altre divinità arcai­che, e non a Juppiter e Juno[36].

 

GIANO, IL PRIMO

Di Giano non esiste né in Grecia un Dio corrispondente, mentre in Etruria la divinità più prossima potrebbe essere Culśanś, il cui nome è derivabile da culs = porta, per cui sarebbe un Dio delle porte e la raffigurazione più antica (circa III sec. a. C.) è un bronzo reperito in uno scavo sotto la Porta Ghibellina di Cortona. A differenza del Giano romano, anziano e barbato, Culśanś è rappresentato come un giovane imberbe con due teste, nudo tranne i calcei e una collana, con la mano destra atteggiata a indicare forse il numero 365 secondo la loquela digitorum, il che lo mette in rapporto con l’anno come “Dio del passaggio del tempo”, e Plinio il Vecchio (Nat Hist XXXIV, 33) descrive una statua di Giano con le dita atteggiate in egual modo; solo in epoca più tarda si trova in Etruria la figura anziana e barbata del romano Janus[37]. Quella che potrebbe essere la sua controparte femminile, data l’etimologia, è Culśu, divinità dell’Oltretomba, il cui nome si trova sul Fegato di Piacenza. Culśanś è quindi una figura ambigua per certi versi somigliante a Giano ma del tutto diverso per figura e attributi e forse paredro di una divinità infera qual’è Culśu.

A Roma Giano è il primo e più antico degli Dèi il quale “su questa terra che ora vien detta Italia, come narra Igino sull’autorità di Protarco di Tralli, divideva paritariamente il potere con Camese, anch'egli indi­geno[38], sì che il paese era chiamato Camesena e la roccaforte Giani­colo[39], dove avrebbe fondato la Prima Roma, che ebbe nome Antipolis.

La sua raffigurazione come Dio bicipite è probabilmente da riferire ad una fase preindoeuropea di occupazione dell’Italia[40], quindi divinità autoctono, e la sua etimologia ne indica la funzione, in quanto Janus si rapporta alla radice indoeuropea *ya con significato di “passaggio” (sanscrito yana = la via, latino ire = andare, come già aveva scritto Macrobio[41]). È il Dio del passaggio, dell’entrare e dell’uscire dal mondo fisico come da quello spirituale, colui che conosce il passato ed il presente, signore dei prima, mentre Giove è signore dei summa[42]. Il suo sacerdote è il Rex Sacrorum, il primo dei sacerdotes, il quale ha nelle cerimonie il posto e i riti che erano propri del Re perché Giano è per eccellenza la fonte della regalità e l’archetipo del Re, funzione che più tardi passerà a Juppiter.

In quanto primo e più antico, Giano è “colui che precede tutti gli altri Dèi, Ja­nus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione[43], forse in origine ritenuto dai Romani come creatore dell’esistente, considerato che Ovidio dice di lui: “Io che ero stato mole rotonda ed informe / presi l’aspetto e il corpo convenienti ad un Dio[44], passaggio dal non-differenziato al differenziato che indica la manifestazione della divinità in una forma comprensibile per l’uomo. Per inciso, le parole di Ovidio sembrano esprimere un concetto molto simile al Big Bang degli astrofisici.

La capacità generatrice di Giano è connessa alla sua identificazione con il Sole e con il Fuoco cosmico grazie al quale viene in essere la creazione: “Certuni vogliono dimostrare che Giano è il sole, e quindi ‘gemino’ o duplice in quanto signore di ambe­due le porte celesti: nascendo apre il giorno e tramontando lo chiude… La sua statua tiene nella mano destra il numero 300 e nella sinistra il 65 a simbolo della durata dell'anno, dominio specifico del sole[45].

MARTE, IL PADRE E IL CUSTODE

Se Venere è figura del potere del Femminile[46], Marte è espressione del potere al maschile: Dio antico e comune a tutti i popoli latini, presso i quali, a quanto è dato sapere, si ritrovano frequentemente sia il Flamen Martialis che i Sacerdotes Saliares che gli sono propri[47]; egli è in origine aniconico, rappresentato da una lancia o da un giavellotto, e solo più tardi, dopo i contatti con Greci ed Etruschi, viene raffigurato con sembianze umane.

Il supposto corrispondente greco è Ares, derivante dal greco αρή, “distruzione”, quindi “il Distruttore”, qualifica assente, come si dirà, nel Marte romano. In Etruria l’identificazione di Marte con Maris è incerta, in quanto Maris sembra essere una divinità connessa all’iniziazione degli adolescenti mentre la funzione guerriera è propria di Laran, però il Marte romano è per il tramite dei suoi Sacerdotes Saliares un Dio iniziatore degli adolescenti e quindi gli Etruschi potrebbero aver recepito Marte in questa specifica qualità, separando la funzione di iniziatore o di iniziando che sembra sia propria di Maris da quella di guerriero rimasta a Laran, divinità la cui festa, secondo la Tabula capuana, cadeva alle Idi di Marzo (Marte era celebrato lungo tutto il mese con diverse cerimonie) e possessore del fulmine[48], così come nel Carmen saliare Marte è detto “Dio dei tuoni”.

Tutte le varianti del nome di Marte nelle diverse lingue latine (Mars, Mamers, Marmar) sono riportabili ad un *Mauors- derivante a sua volta dalla radice indoeuropea *mar- da cui il sanscrito marikis, lucente[49], per cui Mars è “il Dio splendente”, una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce”[50], titoli solitamente propri di una divinità uranica.

Non è un Dio guerriero, come lo è divenuto a causa della interpretatio graeca che lo ha identificato con Ares: Marte è una divinità celeste che esplica la sua attività sul mondo creato mediante il mantenimento dell’ordine, se necessario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che è male, i nemici umani ma anche le forze negative o comunque pericolose: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla na­tura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico[51].

Que­sto lo si vede nel sacrificio privato del suovetaurilia quale custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore, funzione nella quale è chiamato a tenere lontane le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole[52].

Altra azione del Dio è la sua tutela sui giovani maschi, che vengono iniziati come guerrieri sotto la sua potestà e per tale motivo egli è anche la guida divina del ver sacrum, l’emigrazione dei giovani di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacra­zione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza af­finché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato e l’ordine venga così ricostituito.

SATURNO, IL CIVILIZZATORE

Saturno è il Dio della civilizzazione, non è signore del tempo come il greco Kronos e non ne condivide le caratteristiche, quali ad esempio il divorare i suoi figli.

A Saturno venne dedicato alle pendici del Campidoglio il primo altare di Roma al tempo della Seconda Roma, Saturnia, altare a lui dedicato dagli Aborigeni che avevano cacciato i Siculi dalla regione[53]. Il suo nome trae origine dalla radice indoeuropea *sat[54], da cui deri­vano in latino satis e satur, termini indicanti pienezza e soddisfazione, conseguenti all’abbondanza dei campi coltivati grazie alle tecniche da lui insegnate agli uomini, tra cui l’uso del concime[55], e sates[56], i campi seminati, in quanto a lui si attribuiva la conoscenza delle tecniche agricole: “A lui si fa risalire la pratica del trapianto e dell'innesto nella coltivazione degli alberi da frutta e la tecnica di ogni altro procedimento agrario[57]. Da qui trae origine la rappresentazione di Saturno con il falcetto (che diventerà la falce quando Saturno sarà confuso con il greco Kronos), per Macrobio[58] donato dallo stesso Giano al Dio, e segno della ricchezza, perché il falcetto è in rapporto non con la semina dei campi ma con la raccolta di quanto da essi prodotto.

In un certo senso Saturno dà inizio al tempo, in quanto, se Giano è “al di fuori della storia” ed è colui che dà inizio[59] al processo che porterà alla Roma storica assistendo immutabile e imperturbabile agli avvenimenti con una presenza costante ma “al di sopra delle parti”, Saturno è, per così dire, all’inizio della “storia mitica”[60], poiché costitui­sce il principio della civiltà, ed è anche alla fine del tempo, come dimostra la sua posizione calendariale con i Saturnalia posti al centro del mese di Dicembre e subito prima delle celebrazioni dedicate alla Dèa che conclude l’anno, Angerona.

Sua è una “qualità” distruttiva chiarita da Gellio, il quale riferisce[61] di aver trovato nelle preghiere pubbliche riportate nei Libri Pontificales (“conprecationes Deum immortalium, quae ritu Romano fiunt”) e in molte antiche orazioni il nome di una “qualità del Dio”, Lua Saturni, cioè la “Dissoluzione di Saturno”, chiamata da altri Autori Lua Mater[62]. La “qualità” di un Dio corrisponde a una sua fun­zione considerata come divinità a se stante, così come Salacia è lo “Scaturimento” delle sorgenti sotterranee di Nettuno, Neriene Martis è la “Virilità” di Marte, ecc.: questa “qualità” di Saturno entra in modo particolare in azione nella cerimonia con cui si distruggevano le armi prese al nemico.

Può sembrare a prima vista strano che la “dissoluzione” possa essere la “qualità” di una divinità apparentemente pacifica e civilizzatrice per eccellenza, ma Saturno è in realtà un Dio “pericoloso” per il suo essere, come si è detto, il “Dio della fine” temporale dell’anno che coincide con la fine di ogni legge posta a stabilire i limiti della convivenza civile, lasciando aperta la via alla libertà assoluta[63], libertà appunto pericolosa perché può essere mal utilizzata da chi non sa usarne nel modo dovuto.

VENERE, LA GRAZIA DIVINA

Venere è forse la divinità che più di tutte ha subìto gli effetti negativi dell’interpretatio graeca e dei contatti tra Roma e le culture del Vicino e del Medio Oriente, con uno scadimento delle sue funzioni da Dèa della Grazia divina e signora della Vittoria e della regalità al ruolo di protettrice degli accoppiamenti, con tutte le varianti erotiche connesse, dal matrimonio alla prostituzione.

Venere non è Afrodite, “la nata dalla spuma” generata dai testicoli di Urano recisi dal figlio Kronos, e nel nome della Dèa latina ritroviamo il suo più arcaico e profondo significato: non da vincire = “avvincere, unire”[64], etimologia tarda che la collega al mondo dell’eros, il suo nome va riportato ad un neutro astratto *venus sostantivizzato al femminile, il cui significato è espresso dal verbo venerari, come chiarisce Dumézil[65]: “Venerari è ‘cercare di piacere’, ‘rendere dei favori al Dio’, sperando di riceverne in cambio, senza negoziazione, un’altra forma di cortesia, la venia divina. [Venerari] non designa propriamente un atto religioso di amore, di bhakti: la pietà romana non comporta effusioni”, e venerari è letteralmente “esercitare la venus” nei confronti di un Dio, non secondo quel rapporto che potremmo chiamare “giuridico” che lega il romano alle sue divinità né tanto meno fideistico ma chiedendo ad esse un favore, una buona disposizione verso di sé.

Venere è la signora della Grazia come potere magico (venia) che viene incontro alle richieste dei suoi fedeli, e questa forma del potere si rivela nella parola venenum (da venes-uom), che prima di divenire “veleno” nell’accezione attuale del termine è in realtà “filtro”, significante l’azione oscura della pozione magica e per esteso la modalità misteriosa con cui essa agisce. Questa azione di Venere è quella che altrove abbiamo chiamato “il potere venusiano”, che costituisce l’aspetto opposto alla modalità quasi contrattuale con la quale il romano chiede al suo Dio di realizzare ciò che domanda, il do ut des in cui si ha uno scambio potremmo dire alla pari tra uomo e divinità.

Essa è la personificazione del potere femminile di cui parla Valeria alle donne romane per fermare Coriolano nella sua marcia contro la città: “[Noi donne] possediamo una forza che non è posta nelle armi o nella forza delle mani, da questa ce ne esenta la natura, ma nella benevolenza e nella persuasione[66].

 

VERTUMNO, L’ETERNO MUTAMENTO

Vertumno o Vortumno, considerato uno degli Dèi “minori” di Roma (se mai un Dio può essere definito minore), è un Dio così arcaico che di lui poche tracce rimangono nell’archeologia, nella letteratura e nella religione di Roma, tanto da poter pensare che si tratti di quello che gli antropologi definiscono un deus otiosus, una divinità di tale antichità che le sue funzioni sono state trasferite ad altri Dèi e di lui è rimasto il ricordo di poco più che il nome.

Il suo nome secondo Devoto[67] sarebbe passato dal vocabolario protolatino nel vocabolario protoetrusco in una fase antichissima di formazione del linguaggio, dando origine a Voltumna o Veltumna, il Dio venerato nel Fanum Voltumnae a Volsinii, mentre nel mondo greco non esiste una divinità a lui corrispondente (il semidio Proteo è un “mutaforma” ma ha caratteri del tutto diversi da Vertumno).

Ovidio in Metamorfosi XIV e Properzio in Elegie IV, 2 ci dànno gli elementi per comprendere chi sia in realtà Vortumno, un Dio venerato in Roma dal tempo degli ultimi re di Alba Longa della stirpe di Ascanio[68], in origine aniconico[69], non una divinità agricola dell’Autunno come si crede ma il signore dell’eterno mutamento[70]. Il suo nome deriva, secondo Devoto, dalla radice verbale indoeuropea *wert, che dà in latino vertere e vortere “volgere” e in antico indiano parole con significato di “essere” ma anche “esistere”; secondo Radke[71] invece il nome deriverebbe da *vorta, *ur-tā, o da *vortus, *or-tu, indoeuropeo *uŏr, *uĕr, che si ritrova in parole aventi significato di “amicizia, sicurezza, unione fra gli uomini e gli Dèi” e quindi “adempimento, esaudimento, cerimonia religiosa”, per cui Vortumno sarebbe “colui che porta o avvia il *vorta (compimento, esaudimento) del rito”, funzione che lo potrebbe collegare a Giano in quanto questi è il primo Dio invocato nelle formule rituali.

La capacità di Vortumno di “vertere in omnia”, secondo un’altra etimologia del suo nome come Vert-umnus = vert-(in)-omnis[72], non comprende solo la sfera degli esseri ma si estende anche ad una funzione più ampia, quella di tutela sul buono e cattivo andamento delle fortune dell’individuo. Infatti Orazio[73] ci conserva un curioso modo di dire latino: “È nato con tutti i Vertumni sfavorevoli”, chiarito da Elio Donato[74], grammatico del IV secolo d.C., il quale nel suo commento all’opera di Terenzio spiega che la frase “Di bene vertant”, “che gli Dèi la mandino buon fine”, si spiega con il fatto che “il potere che gli eventi vadano nell’uno o nell’altro modo era per gli antichi una prerogativa di Vortumno”, perché “il Dio che presiede agli eventi affinché vadano secondo i desideri di ognuno è Vortumno”.

 

VESTA, IL FUOCO SACRO

La derivazione di Vesta dalla greca Hestia risulta contraddetta dall’esame etimologico dei loro nomi: mentre Hestia deriva da una radice *sueit con significato di “bruciare”, per cui Hestia è *suit-tia “il fuoco che arde (nel focolare)”, Vesta è da *wes[75], “abitare, dimorare” a sottolineare che essa è la divinità della casa stessa, la quale ha il suo centro sacro nel focolare.

Il Giannelli, a evidenziare questa differenza tra le due Dèe, scrive che “sarebbe vano tentare qualsiasi ravvicinamento tra il servizio del focolare di stato in Roma e quello dei Pritanei della Grecia … Le dissomiglianze fra il culto di Vesta presso il popolo Romano e quello delle κοιναι εστιαι nei Pritanei delle città greche sono oltremodo notevoli[76].

Vesta è divinità specifica del mondo religioso dei Latini, i quali, soli tra tutte le popolazioni di ceppo indoeuropeo migrate nella penisola italica, ebbero e conservarono fino ai tempi storici il sacro culto del focolare, assente tra gli altri italici come presso i germani[77], e un corpo di sacerdotesse che di esso fossero le custodi. È l’ultima personificazione divina di una serie di Dèe arcaiche venerate fin dalla più remota antichità, alle quali era attribuita una “specializzazione” del ruolo sacrale: “Vesta appare come la traduzione in culto pubblico e civico di una più antica divinità … culto privato e segreto della casa del re: il culto di Ops[78].

Vesta è l’ultima divinità romana a rimanere aniconica, come lo erano state tutte le altre in precedenza; come scrive Ovidio: “Fui a lungo così stolto da pensare esistesse una statua di Vesta, / ora ho imparato che nulla vi è sotto il tetto emisferico [del suo tempio]”[79].

Nelle preghiere e nei sacrifici il primo posto spetta a Giano, che il Baistrocchi ritiene il suo paredro[80], e l’ultimo a Vesta[81], in quanto il primo apre, essendo questa in modo eminente la sua funzione, e la seconda, punto di contatto tra il mondo degli Dèi e quello degli uomini, chiude ogni atto religioso.

VULCANO, DISTRUTTORE E GENERATORE

Anche nel caso di Vulcano i suoi caratteri originari sono andati perduti con il sopraggiungere della interpretatio graeca con cui Vulcano venne identificato con Efesto diventando un Dio di livello inferiore, il fabbro zoppo al servizio degli altri Dèi.

La connessione di Vulcano[82] con il fuoco è insita nell’etimologia del suo nome: gli Autori moderni lo rapportano alla radice *ulka da cui “tizzone”[83], sottolineandone il carattere igneo; Varrone[84] invece lo fa derivare da fulgur e fulmen: “Vulcano è detto così dalla grande forza e violenza del fuoco”, significato che ben lo connette alla furia vulcanica ma anche al suo essere un “signore dei fulmini” come Giove e Summano, mentre lo Skeat[85] lo fa derivare dal sanscrito varchar con significato di “luminoso”.

Il “fuoco” di Vulcano è un fuoco al tempo stesso protettore e distruttore, il che lo rende un Dio “pericoloso”, ed infatti a lui era stato dedicato un altare antichissimo da Tito Tazio[86] nell’area del Foro Romano prima che esso esistesse, quindi fuori dell’abitato della Roma romulea. Sull’ara Volcani (identificata dal Coarelli[87] con la zona in precedenza chiamata Lapis niger) fin dall’età monarchica venivano bruciate le armi prese al nemico[88] ma in particolare quelle di chi si era offerto nella devotio quando colui che si era votato alla distruzione del nemico offrendo la propria vita era invece sopravissuto all’impresa[89]: qui si rivela il doppio carattere di Vulcano, la cui capacità distruttiva per mezzo del fuoco doveva essere rivolta contro l’esterno, cioè contro il nemico, come anche, sul piano magico, contro le armi “pericolose” del devotus, “pericolose” perché caricate magicamente di volontà distruttiva.

Accanto alla funzione di protettore “magico” di Roma Vulcano aveva presumibilmente anche quella di iniziatore dei giovani, come si potrebbe dedurre dal fatto che il suo omologo greco Efesto era considerato il padre dei Cabìri, degli Onnes e dei Calìbi, “gruppi di personaggi mitici … in rapporto assai stretto con il mondo ctonico (venivano presentati in caverne), con i metalli che lavoravano, con la musica e la danza, con la magia, con i culti misterici e i riti iniziatici giovanili[90].

Vulcano è il Dio del Fuoco sotterraneo, il fuoco dei vulcani ancora attivi al tempo della Roma storica, fuoco ctonico e distruttivo da placare con offerte[91], ma anche fuoco vitale e generatore, potere che anima il cosmo come il singolo individuo e lo rende vivente (il freddo è attributo di ciò che è morto), sul piano metastorico un Dio della guerra, della vittoria e della regalità[92].

 

Articoli simili

Image

Newsletter

Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato sulle novità della Fondazione!

Mappa