Vite parallele
La vita e l’opera di due sciamani amerindiani nel confronto con il mondo moderno: Davi Kopenawa e Archie Fire Lame Deer
Di Antonio Bonifacio
A Claudio Lanzi sciamano e matematico
Gli aerei non voleranno. I razzi non partiranno. La bomba non funzionerà. Qualcuno toglierà la corrente. I computer impazziranno. Tutto il maledetto sistema dei washichu cadrà a pezzi. I comandanti e i generali, i senatori e i milionari, il presidente stesso e tutti gli scienziati, non sapranno cosa fare. Si ridurranno a mangiare serpenti, nient’altro che serpenti! (Henry Crow Dog, medicine men, Riserva di Rosebud, 1981)
Introduzione (Il kali yuga dei popoli nativi)
Voglio sbarazzarmi del problema degli Indiani ... Il nostro obiettivo è proseguire finché non ci sarà nemmeno un indiano in Canada che non sia stato assorbito nel corpo politico e così non ci sarà alcuna questione Indiana e nessun Dipartimento per gli Indiani.
(Duncan Campbell Scott, Ministro degli Affari Indiani del Canada nel 1920)
Le parole sopra riportate relative al martirio dei nativi canadesi sfumano dalla specifica vicenda storica locale, per traslare nella tragedia universale che hanno vissuto e che stanno vivendo gli aborigeni di tutto il mondo. Un mondo che prima invoca ripari alla crisi da lui stesso generata e poi devasta popoli e terre a causa della sua frenetica e inarrestabile bulimia, volendo piegare in tutti i modi ai suoi voleri coloro che coraggiosamente si oppongono a questa opera di devastazione difendendo i loro ancestrali modi di vita.
A giudizio di costoro le culture native, proprio perché difformi e improduttive, rispetto al modello che decantano i corifei delle “magnifiche sorti e progressive”, andrebbero estirpate in ogni dove, anche se in esse permane, in toto o in residuo ma comunque viva e vegeta, una delle diverse forme della “Tradizione”.
Nello stato indiano del Chhattisgarh, per esempio, nonostante vi sia una produzione pressoché sovrabbondante di energia eolica e nonostante il vincolante parere negativo delle popolazioni locali, da sempre ivi residenti, è in atto una distruzione forestale senza pari al fine di estrarre, per i prossimi cinquant'anni, quel carbone che è bandito ormai da molteplici nazioni ma non da quelle con più numerosa e crescente popolazione.[1]Semplificando osserviamo che basterà tenere d’occhio il sito di Survival per avere contezza della situazione disperata dei nativi del pianeta, oggetto di un etnocidio, che si raggiunge tramite l’ecocidio dei loro habitat, tutto ciò a dispetto delle belle parole propalate a iosa e dalla evidente finalità narcolettica da cui siamo quotidianamente bombardati, parole standard volte alla decerebrazione degli “utenti”, tipo: inclusione, biodiversità, rispetto per l’altro, ecologia, sostenibilità e ...bla, bla, bla.
Premesso quanto sopra, quale doloroso quadro di riferimento planetario, in questo intervento vorremmo mettere in vetrina due personalità di quel mondo ormai estraneo alle prevalenti concezioni contemporanee che, sebbene possa apparire in via di estinzione, si dimostra comunque straordinariamente resiliente e intellettualmente assai combattivo. Tale accostamento è dovuto al fatto che i due soggetti di cui si parla sono entrambi “sciamani” e con tale accreditamento internazionalmente conosciuti. Costoro, grazie alla loro caparbietà, sono giunti per vie diverse nelle “stanze del potere” planetario. a denunciare lo stato catatonico del mondo (non del solo loro mondo) e il possibile rimedio per curarlo, rimedio che non può altrimenti che consistere nel ripristino della dimensione spirituale dell’essere umano, una dimensione che però si acquisisce non per una adesione fideistica a un qualche messianico messaggio, ma attraverso l’accoglimento esperienziale della presenza soccorrevole del mondo invisibile, quel mondo che starebbe dietro quello visibile e che sarebbe di abituale frequentazione da parte dei due sciamani.
Prendere come ispirazione per le finalità di questo scritto il celebre lavoro di Plutarco è senz’altro atteggiamento audace, tuttavia riteniamo tale scelta congrua in quanto i due personaggi citati sembrano rispecchiare davvero le caratteristiche attraverso cui il biografo greco ha accostato a due a due personalità storiche del passato, convergendo le sue osservazioni sui fati che assimilano quelle esistenze malgrado esse fossero a volte lontane nel tempo e nello spazio. L’elemento comune che collega Davi Kopenawa[2] e Archie Fire Lame Deer[3], questo è il nome delle due personalità, è costituito dal fatto di essere entrambi, come detto, degli “sciamani”, ma sciamani alquanto singolari in quanto non solo sono “moderni” perché viventi nella nostra epoca, ma anche perché hanno immersivamente vissuto nella poco apprezzata- quando non disprezzata-, cornice della “modernità” una parte affatto trascurabile della loro esistenza. Per conseguenza la finalizzazione delle loro attività di denuncia li rende piuttosto similari, tanto d’avere esercitato una parallela opera di informazione planetaria pur originando da due emisferi distinti dello stesso continente. Inoltre, il fatto di essere sciamani che vivono tra due ambiti esistenziali completamente in contraddizione tra loro, ossia quello “moderno”[4] e quello “tradizionale”, da cui provengono, consente loro di esercitare una critica a ragion veduta intorno ai “valori” della contemporaneità mostrando la cecità degli uomini di questa epoca che non paiono vedere il mondo inabissarsi a velocità crescente nel buco nero della propria, quasi programmata, autodistruzione.
Per comprendere meglio il valore di questo iato è necessario fare una breve premessa di valore estremamente generico.
La storia religiosa dell’Europa e del Vicino Oriente, pur con tutti i distinguo possibili, ha caratteristiche molto specifiche avendo alcuni dei popoli che vi abitavano attraversato tutte quelle fasi in cui, di solito, nei trattati si evidenziano i percorsi di “evoluzione” dell’umanità, iniziando evidentemente dalla remota antichità per giungere infine ai nostri giorni, accostando tra loro, in questi passaggi epocali, il presunto progresso “civile” a quello religioso. Si principia perciò dalla presunta “brutalità” delle origini (società senza stato) per arrivare, sempre più rapidamente, alla “civile” (sic!) società statale contemporanea. A questi mutamenti, illuminati dal bel sol dell’avvenire, si accompagnerebbe l’evolversi della religione che da “naturale” si fa (anzi si farebbe) soprannaturale. Ciò sarebbe d’incanto avvenuto circa tremila anni, a far data dalla contemporaneità, per cui nell’arco di pochi secoli diversi popoli di questo vasto bacino di civiltà sarebbero passati, dopo un primitivo “animismo”, al politeismo [5]per infine concludere il loro percorso ascendente nel monoteismo espresso dalle tre (o quattro se comprendiamo i Sabei) religioni abramitiche. Naturalmente il quadro, qui approssimativamente delineato, è molto più articolato di quanto si sia tratteggiato in queste tre righe, tuttavia, pur nella sua grossolanità, esso è indubitabilmente veritiero. Difatti, prendendo spunto dalla storia che conosciamo, si riscontra l’evidenza di certi passaggi del sentimento religioso, in particolare si osserva la frattura che contraddistingue l’avvenuto mutamento tra il politeismo dei Gentili e il monoteismo ebraico-cristiano. Tale contrapposizione in Occidente, o meglio, nel mondo romanizzato, condusse a un conflitto molto aspro, soprattutto nel IV sec. d.C., tra due forme di pensiero apparentemente inconciliabili. Se sostiamo per un’ulteriore riflessione nel mondo greco arcaico si può osservare che anche in questo ambito vi fu un certo attrito tra l’antico sciamanesimo ellenico, evidentemente contraddistinto da un forte carattere operativo e solo moderatamente speculativo. Si conoscono bene alcuni degli scritti di alcuni grandi esponenti di questa fase limbica che si trovano proprio al crepuscolo del trapasso epocale con il successivo periodo che sarà appannaggio di quella forma religiosa propria della Grecia classica. In ordine a questa fase di transizione menzioniamo, senza criterio alcuno, degli “apollinei” quali Eraclito, Parmenide, Pitagora, Abari, Empedocle etc. (Apollo è stato definito il dio sciamano giunto dagli Iperborei) appena precedenti a quella Koiné in cui si consoliderebbe il vero e proprio politeismo greco.[6]
Ecco dunque un punto di riflessione su cui sostare. In quel trapasso epocale che nel mondo greco si verificò attorno al VII-Vi sec a. C. cogliamo l’esistenza di una sorta di un ancora ben udibile “rumore di fondo” che ci rivela l’esistenza d’un antico e spesso sostrato religioso in cui domina la figura di un mediatore sacrale, un pontifex tra Terra e Cielo e quindi tra mondo umano e “mondo degli spiriti”, tra il visibile empirico e l’invisibile che si svela a chi ha il “potere”, ossia a colui che possiede “sensi spirituali” sufficientemente ricettivi da poter penetrare in una dimensione a noi moderni oramai pressoché inaccessibile. Qualcuno, con felice argomentazione, ha voluto definire questa via sciamanica come una possibilità d’accesso a una molteplicità di universi o altrimenti a un multiverso spirituale in cui si palesano gli enti che presiedono al telaio su cui è intessuta la realtà. (Luigi Lafasciano Misteri, fotismi ed epifanie nella Grecia antica, Krater, n. 1).
Tale capacità di “visione”, che supporrebbe la capacità di distacco dell’anima dal corpo, distinguerebbe quindi questo mediatore sacrale, altrimenti detto “sciamano”, dall’”uomo comune“ e questo istmo stigmatizza l’ispessimento calloso che separa quest’ultimo dallo spirituale. Si tratta di una caratteristica che è propria del cammino discensivo delle ere, proprio in questa epoca si sarebbero narcotizzate certe innate attitudini che purtuttavia sono tuttora latentemente presenti in qualche individuo “eletto” che è comunque immerso in una società che considera patologica ogni forma di esperienza “mistica”. Purtroppo la società stessa, per come funziona in essa la “cultura”, non è affatto propensa a dare seguito a queste innate “vocazioni”, non si adottano per gli estatici quei protocolli della psicologia affermativa che con gran disinvoltura si utilizzano per forse altre meno nobili cause, e per conseguenza fin dall’infanzia, si addomesticherebbero, i potenziali “divergenti” narcotizzando le loro eventuali vocazioni, irregolarmente insorte, irreggimentando terapeuticamente i soggetti. V’è un inflessibile apparato scientista caratterizzato da un insolito atteggiamento clericale, che fonda la sua autorità dogmatica su propri libri sacri da cui scaturiscono quelle liturgie destinate a inquisire i portatoti di quelle irregolarità che appaiono disfunzionali al sistema, punendo severamente ogni “deviazione” dal verbo-pensiero unico, concepito per ostacolare la possibilità percettiva integrale. In semplici parole: gli sciamani non sono affatto un prodotto storico di determinate civiltà destinato alla naturale estinzione cessate le cause che li hanno “prodotti”, la loro assenza nella nostra “modernità” è dovuta alla precoce “castrazione chimica” delle inclinazioni di coloro che, almeno in potenza, sono sciamani dalla nascita.
Davi Kopenawa e Archie Fire Lame Deer
D'altronde, benché l’autore non si reputi competente per penetrare in modo adeguato la metafisica dei riti e dei simboli, questi appaiono un’espressione pienamente eloquente della Rivelazione universale, una delle vie autentiche tracciate per l’uomo affinché raggiunga il suo Signore
(Jean Louis Michon, arabista e studioso del mondo nativo nord americano)
In questo paragrafo si intende proporre un portrait delle due personalità, oggetto dello scritto, intrecciandole tra loro e man mano che si procederà nell’esposizione; si affronterà perciò la modalità del dispiegamento della loro chiamata sciamanica e l'acquisizione progressiva della loro “confidenza” con gli “spiriti”, chiave di volta che apre l’accesso a una dimensione della realtà che si fa tangibile ad una sensorialità diversa e quindi non più solo empirica. In effetti, di solito, l’”occidentale” cerca il suo “guru” esotico per motivazioni personali, qui. Diversamente, sono i due “uomini spirituali” che esportano i loro saperi e soprattutto la loro visione del mondo all'esterno delle culture d’appartenenza, per mettere in guardia, non il singolo individuo di un qualche pericolo che incombe su di lui, quanto piuttosto l’intera collettività in ordine alle conseguenze che comporterà il procedere seguendo passivamente le orme del pifferaio di Hamelin.
Fig. 1 – Le Badlands
Il paesaggio impervio delle Badlands, dove Archie Fire Lame Deer ha trascorso l’infanzia, è per i nativi un luogo ancora impregnato degli eventi mitici del “primo tempo”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Chinle_Badlands.jpg (pubblico dominio)
A questo punto, per quanto insolito ciò possa apparire, onde fornire idoneo propellente all’argomento, è necessario fare ancora una piccola sosta in Grecia perché, proprio lì, l’affermarsi dell’aristotelismo produsse una netta cesura, un vero e proprio discrimine, con molta parte del passato arcaico e con ciò cadde la comprensione di quella che ormai si definisce, con abituale locuzione, la “realtà sottile”, la “retrorealtà” che sostiene il mondo empiricamente sperimentabile. È questa una dimensione spirituale cui accede l’”animista” qualificato e addestrato e che, per comodità convenzionale, si definisce genericamente sciamano, una figura che ha dominato il pensiero arcaico per una pluralità di secoli impossibile da quantificare.
Al momento in cui queste forme di “religione secondaria” sono venute progressivamente meno e sono rimaste relegate negli angoli più remoti della “cultura” ufficiale, sul “mondo” è caduto un velo d’incomprensione che lo ha reificato e i cui soggetti (animali e piante e anche “cose”), prima percepiti come viventi e comunicanti, sono divenuti oggetti pressoché inerti producendosi così una assai severa amputazione spirituale. Si è parlato esemplarmente del trapasso avvenuto in Grecia tra “animismo” sciamanico e successivo politeismo, un salto epocale che comunque è caratterizzato da una dinamica di sostituzione spirituale piuttosto sfumata e graduale. Diversamente l’incontro delle culture “animiste” (in realtà si dovrebbe parlare di “panenteismo” seguendo la logica delle etichette) del Nuovo mondo con i portatori del monoteismo coloniale, imposto attraverso un’invasione ingorda e brutale, non poteva assumere che caratteri drammatici. Si può dire che la sceneggiatura del dramma era già scritta a causa dalla congenita difformità che rende irriducibili due mondi d’opposte visioni che, dopo il contatto, andarono inevitabilmente a scontrarsi e di cui quello che attiene al costrutto nativo - esemplarmente qui espresso da Davi Kopenawa e da Archie Fire Lame Deer, entrambi continuativamente alludenti al nostalgico tema di una antecedente felicità perduta -, era destinato a perdere in partenza.
Fig. 2 – Munch Sera sul viale Karl Johan
La descrizione che fa Davi Kopenawa delle nostre metropoli, visitate per diffondere il grido di dolore del suo popolo all’universo mondo, somiglia assai strettamente alla visione spettrale del “visionario” E. Swedemborg delle strade di Stoccolma e, quasi pari pari, tradotta in immagine in questo quadro di E. Munch dal titolo la Sera sul viale Karl Johan. Così Munch: “Mi ritrovai sul Boulevard des Italiens - con le lampade elettriche bianche e i becchi a gas gialli - con migliaia di volti estranei che alla luce elettrica avevano l'aria di fantasmi”.
(da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Sera_sul_viale_Karl_Johan; pubblico dominio)
Questi due testimoni della presente travagliata epoca hanno vissuto parte delle le loro esistenze in sovrapposizione temporale ma, come detto, in due ambiti geografici profondamente diversi e in habitat egualmente difformi, come si può desumere dalle due sintetiche biografie poste precedentemente in nota a questo scritto.
Davi è uno sciamano che è dovuto uscire temporaneamente dalla sua foresta,[7] l’unico mondo accettato come esistenzialmente valido, per manifestare all’intero pianeta i soprusi che il suo popolo, gli Yanomami, stanno subendo da circa mezzo secolo, soffrendo con loro molte stirpi indigene alcune delle quali si sono addirittura estinte nel quasi totale silenzio dei media. Ciò è accaduto a causa dell’insensato disboscamento delle foreste e dell’inquinamento, purtroppo irreversibile, dei suoli e delle acque.[8] La protesta di Davi, però, non vuole essere una doglianza, per così dire endogena, ma nelle sue parole è contenuto anche un severo monito che è rivolto ad una umanità ormai irrimediabilmente distratta che va incontro a un destino ineluttabile, comportandosi i contemporanei come gli orchestrali del Titanic, come sottolineano queste parole tratte dalla presentazione del suo cospicuo “libro”:[9] “La foresta è viva. Può morire solo se i Bianchi si ostinano a distruggerla. Se ci riescono, i fiumi scompariranno sotto la terra, il suolo diventerà friabile, gli alberi rinsecchiranno e le pietre si spaccheranno per il calore. La terra inaridita diventerà vuota e silenziosa. Gli spiriti xapiri che scendevano dalle montagne per venire a giocare sui propri specchi fuggiranno lontano. I loro padri, gli sciamani, non potranno più chiamarli e farli danzare per proteggerci. Non saranno in grado di respingere i fumi d’epidemia che ci divorano. Non riusciranno più a contenere gli esseri malefici che faranno volgere al caos la foresta. Allora moriremo gli uni dopo gli altri e così anche i Bianchi. Tutti gli sciamani periranno. Quindi, se nessuno di loro sopravvive per trattenerlo, il cielo crollerà” (:2018,9).
Il “popolo delle merci” è ormai un popolo spettrale, straniero, lontano che, preso dalla propria ingordigia, che ha radice nel morbo materialistico del mito progressista, non vede la prossimità di una fine causata dalla sua stessa sordità spirituale che lo rende insensibile a tutto ciò che vive; questa inudibilità del mondo è la causa determinante dei suoi comportamenti irresponsabili, che, nel caso di specie, riguardano lo spezzarsi del legame tra suolo e foresta. Il destino dell’umanità - secondo Davi e secondo un certa contemporanea botanica “animista” (si veda il testo di Monica Gagliano), per la quale, in accordo con il pensiero nativo, sono le foreste a creare la pioggia e non viceversa -, è strettamente collegato al declino e alla consumazione del manto arboreo che nutre la vita tutta, perché la definizione di mondo, alle latitudini amazzoniche, è “terra foresta”, come a dire che tale binomio è talmente stretto e inscindibile che l’una non può vivere senza l’altra. Difatti è evidente che, togliendo la foresta, il terreno impoverisce e muore nel giro di pochi anni.[10]
Archie Fire Lame Deer, sciamano sioux/lakota, è invece nato e cresciuto in un mondo già profondamente mutato rispetto a quello dei suoi predecessori, in una terra impoverita e ormai senza più bisonti che, per un sioux, equivale a dire una terra-foresta senza più alberi. La sua infanzia, per vicende familiari che qui non si riprendono, è stata contrassegnata dalla costante presenza del nonno, anch’egli grande e stimatissimo uomo-medicina che, però, non ha trasmesso al nipote alcun “potere”, ma solo i principi dell’educazione tradizionale sioux e la correlativa diffidenza, se non avversione, verso il mondo dei pellebianca, compreso lo scetticismo verso la loro religione.
Archie è quindi dalla nascita uno sradicato e se il luogo d’origine di Davi è la foresta e in questa egli sostanzialmente è rimasto e rimane, per l’altro, diversamente, l’ambiente di crescita è stato prima quello rurale, quindi già ampiamente modificato, per poi seguire il proprio destino nel cuore del sistema stesso: la metropoli. Alla morte del nonno, giunto il fanciullo alle soglie dell’adolescenza e non avendo egli altra tutela, è stato collocato in una scuola residenziale dove ha ricevuto, senza successo, un insegnamento cattolico in piena contrapposizione con quanto il giovane indiano aveva appreso fino ad allora.
Lame Deer, fuggito ancora adolescente dalla scuola che doveva istruirlo, poi è passato a lavorare in città, addirittura a Hollywood, nella fabbrica dei miti di cartapesta, dove ha esercitato vari ruoli nei film degli “Indiani” e dove la vocazione sciamanica l’ha colto all’improvviso al momento della morte del padre, il celebre Jonh Fire Lame Deer, mutando così completamente il proprio destino di scapestrato attaccabrighe in quello di medicin men, in una sorta di radicale conversione sulla “via di Damasco”.[11] Reduce dal suo stesso passato e malgrado il Nostro possa apparire oramai come in uomo ben integrato nel sistema Usa (avendo anche questi prestato il servizio militare quale paracadutista ed essendo stato impegnato in azioni belliche), pienamente a suo agio nella mecca del cinema, dopo l’iniziazione paterna il latente sostrato nativo è totalmente riemerso alla luce, senza per questo far di lui un “marrano”. La cosmovisione sciamanica che ha conseguito in forma esperienziale da quella data, affinatasi poi negli anni a venire, appare ben confrontabile con quella del nativo amazzonico, perché, similarmente a questi, il suo agire si è proiettato anche ben al di fuori delle riserve e lo scopo degli incontri con altre autorità spirituali, reputate ai massimi livelli, si è risolto nel tentativo di offrire il rimedio giusto per porre ostacolo al declino non solo delle etnie native locali, ma dell’intero mondo, un tentativo che parrebbe non aver avuto convincente successo con il Pontefice d’allora, diversamente dal premuroso ascolto ottenuto da parte del Dalai Lama.
Archie, sulle orme del padre - che aveva interpretato la danza dei fantasmi non negandone il sostanziale principio ispiratore d’ordine universale, e quindi non respingendo l’escatologica profezia di Wovoca che parlava di un universo riavvolto come una coperta da cui scaturirà un mondo nuovo, in cui i bisonti finalmente ritorneranno - ha abbracciato in toto il cuore rituale che ne è alla base, riattivando i culti millenari e segnatamente la danza del Sole e consegnando, per successione spirituale, al figlio Jonh quell’influenza spirituale che aveva precedentemente ricevuto[12].
Per Archie il simbolo del ritorno all’aurea verginità delle origine si sostanzia nell’escatologico riapparire delle mandrie di bisonti, rifugiatisi al momento nella caverna cosmica, prima della loro (quasi) completa decimazione (tema questo comune praticamente a tutti i movimenti nativisti sioux-lakota ed evidenziato da Alce Nero nel suo libro dedicato ai Sette riti dei sioux oglala in cui ha paragonato il ritorno di donna bisonte bianco al cristiano ritorno di Cristo sulla Terra, giunta la fine del tempo.
Per Davi, come giù visto, l’universo reale è conchiuso nella terra-foresta, espressione perfetta della bontà del Creatore (Omama), un habitat che è esperito come un organismo integralmente vivente a similitudine del corpo umano (l’ipotesi Gaia ripresa da James Lovelock) e su cui sono concepibili soltanto alcuni essenziali interventi per non mutarne l’equilibrio millenario. Non diversamente altrove da qui; difatti è ben noto che nella concezione sioux si personalizzi identicamente la Terra (“nonna terra”) e i suoi abitanti in un non-antropocentrismo del tutto ignoto alle nostre latitudini e, quindi, indubitabilmente duro da digerire. Non per nulla in una conversazione con uno dei sacerdoti più propensi a stabilire delle correlazioni tra l’insegnamento cristiano e la locale religione, il sacerdote interpellato non poté rispondere che negativamente alla domanda di Archie circa il fatto che gli animali abbiano un’anima
Queste le linee guida che caratterizzano le similitudini tra i due personaggi ma, giunti a questo punto, è il caso di approfondire l’ancestrale concezione che gli amazzonici hanno della foresta perché il supposto carattere meramente superstizioso del locale animismo trova poi delle sponde “imbarazzanti” negli studi botanici contemporanei e a ciò si accompagna il tema, che parrebbe d’indole esclusivamente romantica, di una foresta non solo respirante ma anche “cantante”. Gli attuali studi di etnomusicologia, l’”auscultazione” dei paesaggi sonori, ad esempio, ci conducono a una comprensione “musicale” della realtà così come proposta da Elemire Zolla nel suo pionieristico capitolo de I Mistici dell’occidente intitolato “Il misticismo come acusticità”. Nella circostanza si richiamano anche gli insuperati studi di Marius Schneider sulla radice acustica dell’universo, come si espliciterà con maggiore ampiezza nel paragrafo successivo. In sintesi: un mondo tutto da scoprire ...e da ascoltare.
La terra foresta
“Una volta che i racconti dell’ecologia sono sorti nelle città, anche le nostre parole sulla foresta sono divenute comprensibili”
Davi Kopenawa
La “visione” che ha degli spiriti lo sciamano ha carattere fondamentalmente acustico in quanto, al suo iniziale manifestarsi, la “realtà nascosta” si percepisce in una “confusione” sinestetica dei sensi, come dire: è un “vedere udendo”[13]. Davi Kopenawa così commenta l’esperienza del suo primo contatto con gli “spiriti”:” La forza e la violenza della loro marcia ci fanno cadere il ventre dalla paura. Tuttavia malgrado il terribile chiasso, si inizia a percepire l’avvicinarsi dei loro clamori, e poi sempre più nitidamente, il suono melodioso delle loro voci. Si riescono allora a distinguere i canti magnifici degli spiriti dei merli...dei cacicchi...e degli uccelli […] E così gli xapiri si rivelano finalmente ai nostri occhi terrorizzati. Brandiscono delle immense sciabole che proiettano lampi di luce in tutte le direzioni, come se intorno al loro agitassero degli specchi... Cominciamo allora la loro danza di presentazione sullo specchio della piazza centrale con movimenti molto lenti... Intonano uno dopo l’altro dei canti melodiosi...” (:2018,182). Allo stesso modo anche Lame Deer conferma la realtà sinestetica di questa conoscenza dell’invisibile, di cui è ben nota la descrizione biblica e lo fa con queste parole: “È possibile inoltre udire una visione invece di vederla” (:2018, 285)
Per un probabile ma certamente arduo parallelo non ci si sorprenda per la presenza di “sciabole lucenti”; è questa un’immagine non certo estranea alla religione cristiana dove la milizia celeste è formata da arcangeli e angeli armati di tutto punto tanto da apparire quasi come se fossero fusi con le loro stesse armi (per Michele si parla della sua spada come Ferrum Sidereum), del resto gli stessi xapiri appaiono impegnati in una lotta pressoché “qumranica” contro i “figli delle tenebre”, ovvero gli invasori bianchi che portano con loro ”i fumi dell’epidemia”. A parte questo inciso lo scopo di questa pagina è, come appena anticipato, legato al tema, sollevato da Elemire Zolla, dell’acusticità della visione, oggetto di un paragrafo presente nel suo monumentale I mistici dell’Occidente. Tale presupposizione trova operativa esplicazione nella descrizione della discesa dei “primi spiriti” chiamati in adunanza dal novello sciamano. Citiamo, a tal proposito, questo significativo passaggio di Zolla che scrive: ”Il mago di tipo sciamanico deve, per entrare in contatto con l’essenza della vita, imparare a discernere la musica occulta dell’universo, a riprodurre con la sua voce quella musica segreta” (:1997, 78).
Questo breve passaggio va a coincidere con l’esperienza iniziatica di Davi quando questi, procedendo nella sua penetrazione visionaria, inizia a comprendere la lingua degli spiriti, tanto da smettere di parlare “come uno spettro” e così ne scrive in questo passaggio:” E allora che le parole degli spiriti gli si rivelano veramente. Man mano che lo sentono rispondere ai loro richiami, non smettono più di intonare i loro canti gli uni dopo gli altri… Le loro parole, venute dagli alberi dei canti ai confini della terra, non hanno mai fine. Ma come ho già detto affinché l’iniziato possa conoscere dei canti così belli, occorre che gli xapiri sostituiscano a poco a poco la sua gola con la loro. Se non accadesse questo, continuerebbe a cantare male come fanno i Bianchi”(: 2018, 200)[14]. Nella suggestiva esposizione di Davi sono contenute molte informazioni rilevanti in cui non ci inoltriamo, ma, a una di esse, si vuole dare il giusto risalto. Si tratta di quella che stabilisce un’omologia operativa tra il corpo dello sciamano, con la conformazione della costruenda casa degli spiriti, un’abitazione che lo sciamano assembla progressivamente all’avanzare del suo sapere; nello specifico tale omologia è dinamica dal momento che la sua cassa toracica si modificherebbe a mano che nuovi spiriti prendono posto nella loro abitazione mostrando quindi ulteriormente la stretta relazione tra pneuma e visione(:2018, 188).[15]
Fig. 3 – La Casa degli Spiriti (abitazione, cammini e specchi degli spiriti)
La casa degli spiriti che si “costruisce” al di sopra di una radura che fa da specchio ed è in precisa omologia con il corpo dello sciamano, in particolare con la sua cassa toracica, Man mano che nuovi spiriti scendono essa si amplia per ospitarli conservandone così le voci. (Immagine rielaborata dall’originale presente in D. Kopenawa 2018, 175).
Lo sciamanesimo dei nativi yanomami poggia su un “dogma” fondamentale circa la natura degli sciamani e il loro ruolo di mediatori e, a tal proposito, si potrebbe correttamente parlare di una funzione realmente e indispensabilmente pontificale”. Per questo è bene riprodurre su ciò l’intero brano di Davi perché contiene plurimi insegnamenti che possono essere apprezzati solo leggendoli alla fonte: ”Così gli sciamani rivelano a coloro che le ignorano le cose che hanno visto in stato di spettro accompagnando il volo i loro spiriti. Queste parole, innumerevoli, hanno un immenso valore. Ecco perché gli sciamani le fanno ascoltare così a lungo, le une dopo le altre, Vedendo le loro immagini, evocano le parole degli antenati animali trasformati agli inizi del tempo, quelle degli esseri del cielo e del mondo sotterraneo o quelle di Omama (il Creatore n.d.r.) che ha creato gli xapiri e fatto di suo figlio il primo sciamano” (2018, 193).
Il brano, come ognun vede, è certamente cospicuo nelle dimensioni e nei contenuti e questi ultimi appaiono davvero di grande sostanza, anche se in questa occasione non si possono commentare, per questo, al fine di non banalizzare l’argomento con una eccessiva semplificazione che sopprime l’empatia che si tende a instaurare tra il lettore e il testo che questi consulta, ci si focalizza su un aspetto particolarmente pregnante. Non sarà sfuggita la circostanza che il “figlio di Dio”, l’unico mediatore tra gli umani e gli esseri della realtà extraumana è lo sciamano che quindi è il legittimo successore e vicario del “figlio di Dio”. Egli, pertanto, è l’unico qualificato, dopo un impegnativo addestramento accompagnato dall’investitura di uno sciamano anziano, a far “scendere” gli xapiri utilizzando un mezzo, per l’appunto, di provenienza “botanica”, in grado di “costruire” un intero intermondo comunicativo con le predette entità che resterebbero altrimenti inaccessibili e inoperanti. Non sfugga che questi sentieri di comunicazione/convocazione sono dei veritieri axis mundi di esclusiva competenza sciamanica, per conseguenza se la stirpe di questi mediatori sacrali venisse meno, si spezzerebbe lo stesso axis mundi e con esso la catena di trasmissione della sapienza e, qualora ciò dovesse accadere, sul mondo yanomami e sul mondo intero “cadrebbe il cielo”, determinando la totale rovina.
In assenza di sciamani, quindi, ogni via è “chiusa”.
Nonna Terra, Madre Terra: Pianeta vivente
Quando ho compreso che l’enigma della comunicazione vegetale era un punto debole per la scienza, mi sono sentito spinto a condurre un’indagine approfondita sull’argomento (Jeremy Narby).
La “sostanza” assunta dagli sciamani yanomami per diventare “altri” è una polvere d’origine arborea, detta yakoana e nonostante il fatto che questa sia inalata attraverso le narici di essa si dice che è “bevuta”. Attraverso questo non occasionale trattamento, una vera e propria prolungata “dieta”, l’aspirante sciamano è in grado aprire le vie agli Xapiri che, dalle lontane “montagne”, scendono nelle loro “case” (poste a livello intermedio tra Cielo e Terra) che continuano ad ampliarsi con l’accrescersi della potenza sciamanica e che sono sovrastanti quegli “specchi”, dove le loro alate immagini luminose, gioiose e danzanti, possono essere colte. Lo scopo precipuo di queste convocazioni sta sostanzialmente nell’aiutare gli uomini nel loro quotidiano, portando altresì nei loro cuori anche una profonda e superiore gioia altrimenti irraggiungibile. Davi Kopenawa narra costantemente nel suo testo della grande beatitudine che arreca l’apparizione di questi spiriti nello “specchio” sottostante le loro abitazioni immaginali (osiamo dirlo!) cantando e ballando pressoché incessantemente, quasi fossero un inesausto coro angelico[16].
Fig. 4 – La Terra Vivente dell’Atalanta fugiens
Questa immagine dell’Atalanta Fugens, che mostra una Terra Vivente che da la vita e la nutre in tutte le sue forme, è forse la più rappresentativamente accostabile al pensiero delle culture native. (Da Wikipedia https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a7/Atalanta_Fugiens_-_Emblem_2d.jpg. pubblico dominio)
Alla fine di questa descrizione si potrebbe ritenere che tutto l’armamentario descritto non sia altro che frutto di illusioni percettive facendo leva per questa affermazione sulla facile equazione per cui le sostanze psicoattive contenute nelle piante condurrebbero ad alterazioni di coscienza e, a causa di ciò, si scambierebbe, per così dire, il “dito con la luna”, ovvero ci si troverebbe di fronte a mere allucinazioni senza alcun contenuto spirituale. Tale è l’opinione della muraglia cinese scientifica eretta a difesa del dogma che le “piante non comunicano”. Diciamo che, nella scusabilissima ignoranza scientifica che riguardava secoli fa l’argomento sull’opposta diagnosi ci “presero” piuttosto i missionari che attribuirono le predette alterazioni non alle “molecole” della pianta, ovviamente non potevano, ma direttamente alla presenza di uno “spirito”, ancorché diabolico, presente nella pianta stessa (in specie nei funghi allucinogeni) come mostrano alcuni disegni realizzati allora dai predetti missionari in cui i “funghi” estatici sono sormontati da un diavoletto “ballerino”.
La scienza avrebbe successivamente dimostrato come la pianta, pressoché meccanicamente, sottoposta a certi trattamenti e sotto certe condizioni, rilascerebbe dei principi attivi in grado di produrre le predette alterazioni, senza che però la scienza possa dimostrare come si sia giunti alla composizione, spesso complicatissima, delle pozioni e degli antidoti necessari per gestire questi potenti elementi. Su tale singolarità basti pensare, seppur concettualmente ciò sia in parte fuori sacco, alla gestione “intelligente” di un veleno come il curaro. Si tratta di essere in grado di controllare complesse nozioni concernenti il delicato equilibrio dei dosaggi che i nativi si ostinano a riferire a istruzioni ricevute dalla pianta stessa invertendo così il senso della vulgata corrente[17].
Per capire meglio la sostanza del problema è necessario fare un passo indietro. Si diceva, appena prima, del peso che indubitabilmente ha avuto il contributo la filosofia aristotelica nella formazione della mentalità occidentale, anche considerando il successivo apporto della Chiesa che, teologicamente, ha incorporato lo Stagirita tra le sue “fonti”. A tal proposito, si riassumono qui le importanti riflessioni di Monica Gagliano, nota studiosa del comportamento delle piante, inerenti il tema dell’”intelligenza” botanica. Ella, difatti, dopo un complesso percorso personale, corredato però da sicure conferme scientifiche, si è trovata a sollecitare una riflessione sul lungo e ingiustificato seguito che ha avuto tale visione aristotelica, in ordine al fatto che le piante fossero reputate passive e insensibili. Dogma rivelatosi, attraverso l’accennata sperimentazione, verosimilmente privo di fondamento, mentre affatto infondata sarebbe la credenza circa la presenza di uno “spirito della pianta” ben in grado di comunicare a chi possiede “orecchi” idonei all’ascolto (“Chi ha orecchi per intendere intenda!” Marco, 4:1-25).
A tale proposito si pensi che un collega di ricerca della Gagliano, Stefano Mancuso, in associazione con un’altra studiosa, Alessandra Viola, ha pubblicato, quasi una decina d’anni fa, un libro dal titolo Verde brillante, il cui impegnativo sottotitolo è Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale. Con ciò si è di fronte a una posizione davvero nettamente antiaristotelica, in quanto lo Stagirita mai si sarebbe sognato di attribuire queste proprietà al mondo botanico. A causa del “non ascolto” delle credenze altrui, soprattutto se le voci dissidenti provengono dai “non civilizzati”, da millenni coltiviamo questa inossidabile presunzione narcisistica che ci separa da tutto ciò che vive. La possibile demolizione di questa “sovranità” antropocentrica è però pericolosa in quanto infrange totalmente la nostra concezione del mondo, e, con esso, l’illusione del nostro senso dell’io e la sostanziale nostra inaccessibilità psico-fisica, dal momento che la pianta può “vivere” in noi e portarci forme di conoscenza diversamente irraggiungibili. Non per nulla nel libro di Kopenawa il coautore Bruce Albert ha aggiunto in esergo del primo capitolo la significativa frase di Walt Whitman: “...sono vasto, contengo moltitudini”.
La posizione assertiva di Aristotele, assunta aprioristicamente nel decorso dei secoli, anzi dei millenni, ha quindi il sapore di una indiscutibile verità, una verità che ha determinato innumerevoli e nefaste conseguenze sull’ecosistema (si pensi agli organismi non umani modificati attraverso l'ingegneria genetica, OGM, su cui molto ha inveito la citata Gagliano definendo, tout court, la bioingegneria: demonìa) che qui non ne è neanche il caso di accennare rinviando alle argomentazioni presenti nel testo dell’autrice. Quello che interessa prioritariamente queste note è il fatto che certi popoli nativi, quelli considerati sprezzatamene “animisti”, riconoscendo nelle piante la presenza di un principio spirituale a queste immanente, hanno ininterrottamente “dialogato” con loro, traendo, tra “sussurri e grida”, tutte le “informazioni” botaniche necessarie alla loro sussistenza materiale ma, soprattutto, indicazioni circa i principi che sostengono l’intelaiatura invisibile che è dietro a tutta la realtà.
Non è un caso che Arthur Vilnius nel suo libro Terra Sacra, ricordi come le popolazioni agricole del Nuovo Mondo accedano iniziaticamente ai misteri del granturco, certamente pianta alimentare ma, con identica certezza, anche pianta “mistica”.[18] Presupposto indefettibile di questo “dialogare”, a sfondo iniziatico, è il predetto regime alimentare denominato dieta, ovvero l’assunzione controllata del vegetale che si vuole, davvero biblicamente, “conoscere”. Si tratta di un’assimilazione che necessita l’osservazione di un certo protocollo cerimoniale e di un adeguato regime di vita (nutrizionale e sessuale), pena l’insuccesso. Se la presenza dello “spirito della pianta” certamente non può essere “scientificamente” dimostrato, anche se la sua presenza è vissuta in via esperienziale dall’iniziato come capacità che questi incorpora stabilmente in sé, è stata da tempo invece ben dimostrata la presenza di “caratteristiche” che le piante hanno e che invece non potrebbero avere, vista l’assenza di un cervello e di un sistema nervoso centrale. Tale capacità comunicativa, nel caso dello sciamano e, lo ripetiamo, della Gagliano che si è sottoposta alla dieta,[19] è quindi la costatazione dell’esistenza di una comunicazione interspecie senza barriere tra i “regni”, il che rende molto problematico il ruolo del nostrano posto nel mondo e, altresì, assai dubitabile il nostro concetto di realtà come, parimenti, appare fragile il nostro, vero o presunto, libero arbitrio, posto che ci saremmo storicamente autoamputati parti delle nostre capacità/possibilità cognitive[20].
Ciò va considerato non isolatamente ma unito a varie altre “impossibilità” che attualmente non trovano spiegazione. Per questo è sorta un nuovo campo di investigazione scientifica, seppur di controversa accettazione, denominata neurobiologia vegetale (la cui importanza negli studi attuali è stata più volte sottolineata dal ricercatore botanico Vito Mancuso in alcune sue pubblicazioni).
In base a tutto ciò appare evidente il motivo per cui i nativi amazzonici, di cui idealmente Davi Kopenawa è portavoce “nazionale”, difendano in ogni modo possibile il proprio habitat dal “popolo spettrale delle merci”.[21]
Lo sciamanesimo, pur essendo categoria universale di difficile catalogazione, è certamente costituito su una base che, secondo le nostre categorie classificatorie, sarebbe da ritenere “animista” e quindi la sua collocazione nello “sviluppo della civiltà”, concepita per stadi di affrancamento da un precedente inferiore, precederebbe evidentemente sia il politeismo che il monoteismo, come la forma economica della caccia-raccolta precede l’agricoltura e l’allevamento. Nei popoli della foresta la caccia-raccolta si accompagna all’orticoltura e alla tubericoltura, con la costruzione di orti realizzati con la tecnica del “taglia e brucia”, intervenendo però in un’area accuratamente limitata che non danneggia l’habitat complessivo. Tuttavia queste forme di coltivazione sono prioritariamente forme di attività simbolica e, per così dire, di riflesso, sono rivolte alla mera sussistenza.
Davi Kopenawa ha ampiamente trattato tutto ciò nel suo citato libro La caduta del Cielo, un testo salutato con il massimo plauso dagli studiosi ritenuta un’opera talmente importante che senza dubbio merita un “posto d‘onore nel pantheon dell’antropologia”. Tale è la sua autorevolezza che lo scritto è impegnativamente qualificato come Bibbia sciamanica (così Emmanuel de Vienne: “A sciamanic Bible and its Enunciation”).
In questo testo i ruoli del monoteismo e dell’animismo sono invertiti in quanto il dio cristiano denominato “Teosi” (deformazione del termine “Dio” in lingua portoghese) appare descritto come antagonista del suo creatore Omama.
Il “dio biblico”, difatti, è stato dolorosamente sperimentato dagli autoctoni quale “portatore dei fumi dell’epidemia”, un anti-dio che sta cacciando gli spiriti dalla foresta, uccidendola giorno dopo giorno e sostituendo un orizzonte di morte, cupezza, tristezza e disgrazia in piena contrapposizione alla gioiosità della vita precedente.
La foresta dis-animata
Quello che I Bianchi chiamano il mondo intero si deteriora a causa delle fabbriche che producono tutte le loro merci, le macchine e i motori. Per quanto la terra e il cielo siano vasti, questi fumi finiscono per propagarsi in ogni direzione e tutti ne sono colpiti gli esseri umani, gli animali e la foresta. È vero. Persino gli alberi si ammalano, Divenuti spettri, perdono le foglie, si seccano e si spezzano da soli (Davi Kopenawa).
Attraverso la “cacciata degli spiriti”, che sostengono la vita della foresta- mondo, non si compie solo un ecocidio ma, altresì, uno ierocidio perché ogni forma rituale tradizionalmente efficace è sostituita da un insegnamento astratto fondato su una teologia che non presuppone l’esperibilità dei contenuti che professa.[22]In questa “Bibbia amazzonica” sono quindi enunciati in maniera efficace i principi della radicale contrapposizione dell’architettura spirituale degli Yanomami che viene messa a confronto quella dei Bianchi, così come questa architettura, concepita fondamentalmente come riscatto dal peccato delle origini, è stata conosciuta attraverso i missionari di diverse confessioni. Il contrasto si rileva particolarmente evidente in questo stralcio del lungo testo di Davi Kopenawa: ”Forse l’immagine di Teosi si prende cura dei Bianchi. Loro devono saperlo. In compenso sappiamo bene che non protegge affatto gli abitanti della foresta! I missionari in passato hanno sostenuto che Teosi avesse creato la terra e il cielo, gli alberi e le montagne. Ma ai nostri occhi, le sue parole ci hanno portato solo gli spiriti dell’epidemia, che hanno mangiato i nostri anziani, e tutti gli esseri malefici, che, da allora, ci bruciano con le loro febbri e ci divorano il petto, gli occhi, il ventre. Ecco perché per noi Teosi è un nome di Yoasi, il fratello cattivo di Omama colui che ci ha insegnato a morire. Omama ...invece con saggezza, ha voluto difendere gli abitanti della foresta contro Nomasiri, l’essere della morte” (:2018,336).
A questo punto si comprende come il termine “Bibbia sciamanica” non sia usato affatto suggestivamente, no, non lo è affatto. Il compito che si propone Davi, in sintonia con Bruce Albert, non è solo quello di “informare” circa gli eventi di un sopruso in atto, ma altresì quello di convertire l’universo mondo, ossia quello che professa l’ecologia come religione universale, amputandola però del suo sostrato spirituale, mostrando invece come un pensiero integralmente spirituale, come quello indigeno, possa rivelarsi davvero efficace per risolvere la crisi “ecologica” del mondo di cui appare davvero tragicamente eclatante la repentina trasformazione ambientale. Del resto, come ha più volte ripetuto Hossein Nasr, la radice della tragedia ecologica va in primo luogo ricercata nel franare della dimensione spirituale.
Le parole di un decano dell’antropologia, qual è stato Claude Lavi-Strauss, apposte appena all’esordio del libro La caduta del cielo, sono, sul tema, inequivocabili: “Cercando disperatamente di preservare le sue credenze e i suoi riti, lo sciamano yanomami crede di adoperarsi anche per la salvezza dei suoi più crudeli nemici. Formulata nei termini di una metafisica che non è più la nostra, questa concezione della solidarietà e della diversità umane, e della loro mutua implicazione, colpisce per la sua grandezza. In essa vi è come un simbolo. Poiché spetta a uno degli ultimi portavoce di una società che, come tante altre, è in via d’estinzione a causa nostra enunciare i principi di una saggezza da cui dipende, e siamo ancora in pochi a comprenderlo, anche la nostra stessa sopravvivenza.”.
Nel mondo riconosciuto come “civilizzato” la trasformazione ambientale è avvenuta gradualmente operandosi cambiamenti, praticamente inavvertiti, a ogni passaggio generazionale; diversamente il mondo degli Indios è mutato praticamente da un giorno all’altro. Oggi sia i nativi che i contemporanei “civilizzati” sembrano essere consapevoli, seppur con una consapevolezza sopraggiunta loro per vie diverse, di essere pervenuti al capolinea dello sfruttamento ambientale (così ormai si sostiene) e per questo la proposta di cambiamento integrale indicata da Davi Kopenawa coinvolge logicamente l’intero globo terracqueo, praticabile o meno che essa sia. Tuttavia, come anticipato, la soluzione della crisi non è legata alle “buone pratiche” proposte da un mondo che vede la natura comunque “disaminata”, mero oggetto da preservare solo per la propria utilità, quanto piuttosto dall’accoglimento di una “visione del mondo” che non è certamente isolata all’ambito amazzonico e che proviene da quelle culture native che, pur con diverse espressioni, vedono la natura totalmente animata e interagente. Si potrebbe davvero parlare a questo punto di un ritorno, anzi di un prepotente ritorno, del disprezzato “animismo”. Esso è la chiave di volta per la comprensione integrale della realtà creata in quanto presuppone l’esistenza di “forme formanti” che plasmano la realtà fisica degli esseri senzienti e quindi l’aspetto delle piante e degli animali e anche... delle “cose”.
A proposito di animali - come ancora suggerisce Claude Levi-Strauss, attraverso la mediazione delle parole di un suo interprete, Emanuele Coccia - , il rapporto che i nativi stabiliscono con il mondo “altro”, quello degli animali, mostra quanto il nostro approccio si sia sregolato al punto tale da diventare totalmente distopico. Difatti il predetto Coccia annota: ”Levi Strauss non si limitava a fare dell’antropologia la scienza che cerca di capire come e in quali forme il sapere sulla nostra identità con gli animali è stato costruito, articolato e diffuso in forme diverse da quelle della biologia occidentale. Con un gesto quasi inavvertito ha indirettamente smascherato il complesso mitologico giudaico-cristiano come una sorta di tentativo di reprimere illusoriamente questa intimità, suggerendone al contempo le ragioni: se le religioni adottate dall’Occidente hanno preferito concentrarsi sulla storia di una divisione netta o assoluta con il mondo animale, se hanno fatto dell’uomo una specie superiore rispetto a tutte le altre, è stato per palliare la tragedia dell’incomunicabilità con esse”. La distanza tra la posizione corrente e quella nativa è quindi indubbiamente enorme, e probabilmente insanabile, se si pensa che il citato Levi Struss, interpellato circa la definizione di mito nel contesto nativo americano, ha affermato che è molto probabile che un nativo interpellato su questo concetto affermerebbe verosimilmente che: “... il mito è la storia di un tempo in cui uomini e animali non erano ancora distinti”[23]. I precedenti estratti dall’opera di Kopenawa mostrano infatti la presenza inequivocabile di questa indistinzione come conclamato in esergo al paragrafo.
Davi Kopenawa e Archie Fire Lame Deer, per una difesa dell’”animismo”
C'è stato un tempo in cui ballavamo
allegri nei colori variopinti della foresta
molte foglie e rami ombreggiati
e il cielo in alto era azzurro
La magia era così sottile
e la strada era chiara
a differenza del nostro mondo così tragico
in cui viviamo oggi
L’Età Oscura alza la sua brutta testa
e lacrime alle nostre anime
se una volta trovi i tuoi piedi
mantieni la rotta e sii audace
Sun Vessel
Un pensiero di Archie Fire Lame Deer potrebbe davvero far da guida e insieme da chiusa a questo breve paragrafo e allo scritto tutto. Si tratta di una riflessione che condensa la differenza incolmabile tra due posture spirituali, quando, addirittura, non statuisca una vera e propria diversità ontologica tra nativi e “civilizzati”. Sta scritto: “Le vere visioni possiedono una realtà distinta da ciò ché l’uomo bianco chiama realtà. Un uomo che non ha mai ricevuto una visione è davvero più povero.” (2018, 294).
È bene ribadire che la “religione” lakota è tutta centrato sulla ricerca della visione al punto da ritenersi che non si è pienamente umani se non si partecipa di questa ineffabile esperienza spirituale. Tra i Nativi del nord e il sud dell’America esistono comunque uomini particolarmente qualificati - quelli che si denominano con l’universale termine di “sciamano”, traduzione imperfetta per il Nord America della locale locuzione Wichachia wakan -, che possiedono un rapporto privilegiato con il “sacro” al punto di dialogarci correntemente.[24] Questi infatti è congiuntamente uno sciamano, un guaritore, un “sognatore”, uno stregone, e quindi tutte queste cose ma altro ancora. Egli, sostanzialmente, è un “uomo spirituale”, un “uomo sacro”, un medicine men e questa sua spiccata sensibilità, unita a una fatale vocazione, lo porta a isolarsi dagli altri e quindi a scegliere luoghi remoti dove percepisce l’onnipresenza del Grande Misterioso, perché egli, infine, ha uno sguardo speciale e vede con “l'occhio del cuore” e quindi vede/ode ciò che gli altri non vedono e non odono.
È questa inclinazione al silenzio interiore che gli permette di comunicare addirittura con le piante (come già visto tra gli amazzonici) che gli rispondono, così come parla con tutti coloro che si muovono sulla terra, ossia gli animali Archie sottopone all’attenzione una riflessione sul senso d’identità che ha di se stesso il “nativo” contrapposto al “civilizzato”: ”Qualcosa di ogni essere vivente scorre in lui e qualcosa scorre fuori di lui”.
il Wichachia wakan è colui che ha ottenuto la Grande Visione, un “dono” che spesso viene inseguito tutta la vita ma che non sempre ottiene chi lo cerca. In ogni caso a prescindere dall’incerto risultato si tratta di percorrere una via estremamente impegnativa che viene significativamente denominata “Piangere per un sogno”. Il riuscito compimento di questa sorta di ordalia solitaria, condotta in condizioni fisiche e ambientali estremamente severe, è ben al disopra a quanto ottiene normalmente il giovane giunto alla pubertà, il quale, attraverso la visione, conoscerà “solo” la via che deve seguire nella sua vita da adulto. [25]
Attraverso i sogni e le visioni, si riceve quindi il potere e il dono di “vedere avanti”, di essere partecipati alla lacerazione del tempo, rivelandosi così scorci di futuro. La prima ricerca di Visione di un giovane determina spesso il tipo di vita che egli condurrà. Tali visioni, come si preme di informarci Archie, non sono solo oniriche, come non sono frutto di una fantasia anarchicamente galoppante, piuttosto discendono dall’”Immaginazione vera” (per dirla alla Corbin), sono cioè messaggi provenienti da Esseri soprannaturali che si incontrano in questo stato “purificato” della coscienza. Per questo le vere visioni possiedono una realtà distinta da ciò che comunemente nei nostri lidi s’intende per “realtà”, posto che a queste nostre latitudini la totalità della coscienza è stata da “altri” usucapita (:2018 294).
La partecipazione al mondo spirituale, che, come appena prima si diceva, costituisce il fine che ci si prospetta di raggiungere con qualsiasi rituale comportante un personale sacrificio, è un fatto che, letto nella modalità dell’ottica cristiana e nonostante che le invocazioni pellerossa esordiscano con le parole Grande misterioso abbi pietà di me, assumerebbe addirittura caratteristiche diaboliche perché i suggerimenti personalmente ricevuti o quelli che offre lo sciamano, vista la fonte da cui vengono attinti, sono ritenuti come scaturenti da entità infere, entità magari acconciamente mascherate, copia dei famosi “angeli di luce” dell’apostolo Paolo. Del resto il Wichachia wakan (uomo spirituale) dichiara lui stesso di avere poteri che sono incompatibili con il credo cristiano.
Il Wichachia wakan, difatti, non solo è in grado di viaggiare nei mondi e nel tempo ma, parimenti, è in grado di comunicare con le altre creature, visibili e invisibili, che animano l’universo e quindi, implicitamente, con gli animali e con le piante, entrambi i “regni” dotati di gradi diversi di “potere” (l’illustrazione di ciò richiederebbe un saggio a sé), senza che nulla di ciò appaia allo sguardo addormentato dei pellebianca. Come si vede nulla distingue in questa capacità d’accesso l’”uomo medicina” sioux dallo sciamano amazzonico se non le modalità d’accesso all’”Altrove”, meri strumenti d’occasione legati a contingenze storiche e ambientali. Per conseguenza la prospettiva narcisista può essere facilmente rovesciata. La miopia spirituale, se non una vera e propria diminuzione ontologica. è propria dei pellebianca che non concepiscono che l’Altrove esista e sia accessibile in vita, semmai ciò accada avviene in particolarissime circostanze per una “grazia” occasionalmente concessa, circostanze, comunque, anch’esse guardate con molta diffidenza. Riguardo ciò basti pensare alla lotta contro la mistica dell’apparato dogmatico compiuta per alcuni secoli presso i nostri lidi. È da ricordare che Elemire Zolla ha scolpito una lapidaria epigrafe all’esordio del suo libro dedicato al misticismo planetario, quasi ne costituisse un assioma, questo: Lo stato mistico come norma dell’uomo. [26]Della qual cosa Archie è pienamente consapevole quando ricorda le parole del nonno Quick Bear: “L’uomo bianco ha occhi ma non vede, Ha orecchie ma non ascolta. Tocca ma non percepisce niente, Ma tu ascolta! Se ascolti attentamente la notte, sentirai le creature dell’oscurità. Le quali sono tutte sacre i gufi, i grilli, le rane, gli uccelli notturni e sentirai benissimo i canti, canti che non aveva mai sentito prima: ascolta con il cuore. Non smettere mai di ascoltarlo”.
Per conseguenza appare lampante che per i Nativi la “Natura” è cosa ben diversa da ciò che la si intende dalle nostre parti. Il “rispetto della natura” è uno slogan ossessivo che la fa concepire quasi come un abbellimento estetico ad uso umano e per questo se ne chiede la “civilizzazione” adattando la medesima alla “cultura” e alle umane necessità. La natura per il “pensiero selvaggio” è di suo integralmente sacra e per questo genera “timore e tremore”, in quanto Wakan Tanka (nel caso indiano) è anche in essa, In particolare gli animali selvaggi (quindi non quelli domesticati) non hanno “padroni” ma interlocutori umani e difatti Archie ne scrive: “Gli indiani rispettano il potere e lo spirito dei fratelli e delle sorelle a quattro zampe e alate. Gli Indiani uccidono per mangiare, catturano la selvaggina al solo scopo di sopravvivere e sono sempre consapevoli che prendere la vita è un atto grave che richiede d’essere perdonato”. (:2018, 222)
Proprio per tutto quello che si è finora sinteticamente raccontato la tradizione nativa ha estremamente “infastidito” lo “zio Sam”, che, ricordiamo il paradosso, è fuggito nel Nuovo Mondo per poter esercitare liberamente la propria “religione”, che all’epoca si poneva in contrasto con quelle dominanti in Europa, trovandosi così di fronte a delle forme di spiritualità verosimilmente abbandonate, anche obtorto collo, da millenni nelle terre di sua provenienza. Liberali con loro stessi, ma non certo con chi li ospitava nel continente Tartaruga, i nuovi venuti hanno deciso di reprimere ed eliminare senza particolari rimorsi tutto ciò che non garbava loro e che magari ostacolava i loro piani, giungendo tranquillamente a programmare l’etnocidio degli autoctoni pur dormendo tranquillamente sopra questa efferata decisione.
Qui cade bene un’osservazione di Jean Louis Michon, arabista ed etnologo, anch’egli influenzato dagli insegnamenti di René Guénon sui Nativi nord Americani, che, nel suo articolo La Grande Medicina degli Ojibwa, scrive: “Degli osservatori superficiali hanno potuto ingannarsi in buona fede; la reticenza dell’indiano a parlare del Grande Spirito, unita al suo rispetto per tutte le forze della natura l’hanno fatto ritenere un pagano politeista. Il più delle colte c’è stato tutto l’interesse a mantenere questa favola. Sia per giustificare lo sforzo missionario, sia per motivi assai meno confessabili; sembra infatti che a un pagano si possa fare di tutto, spogliarlo, corromperlo, e massacrarlo senza rimorsi” (:2015, 88).
Fig. 5 - La Statua della libertà
“... La Statua della libertà! Ne parlano sempre. Ma guarda dalla parte sbagliata, Volta le spalle al Signor Indiano. Dice all’uomo bianco dall’altra parte dell’oceano. Venite a rubare un altro po’ di terra indiana” (John Fire Lame Deer). https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/37/Liberty-statue-from-below.jpg, pubblico dominio
I pellebianca, accantonato culturalmente da millenni l’”animismo” e i suoi veri o presunti orrori teologici dal loro orizzonte, non tanto volevano eliminare gli uomini (questo era un mezzo non un fine), piuttosto erano massimamente occupati a estinguere ogni tradizione spirituale locale, improntata allo “sciamanesimo”, e ciò è stato fatto utilizzando tutti i mezzi a disposizione, compiendo un vero e proprio feroce genocidio (anche) culturale o, in altre parole, uno ierocidio. Il cambio di connotati conseguente a questa coattiva plastica facciale alle nazioni native, è però solo parzialmente riuscito. La connaturata resilienza ha consentito ai Sioux, come ad altre compagini del continente, di superare questo oscuro periodo in cui tutti i lontani fantasmi dell’Inquisizione europea avevano ripreso forma e vigore in altri lidi, mutandosi in diverse forme di persecuzione di non minore intransigenza teologica/ideologica. Difatti, segretamente, le cerimonie native continuarono ad esser eseguite e quando finalmente, dopo molte sofferenze, si tornò a una certa “normalità”, seppur condizionata da un mutamento totale dei modi di vita indigeni, non solo le cerimonie ripresero spazi ma, purtroppo, a causa di diverse contaminazioni subite, in molto casi esse divennero di “moda”, adattandosi alla cattiva coscienza dei pellebianca, concretando così addirittura un fine contrario a quelli che erano i propositi fondativi che ne sorreggevano l’istituzione.
Tuttavia, malgrado queste palesi deviazioni e davvero ostinatamente, la sacralità di tali pratiche non si era totalmente spenta nelle due generazioni che furono interessate a questo lungo periodo di intolleranza religiosa. Le linee di trasmissione autenticamente sacrali continuarono a tramandare i caratteri spirituali e i “poteri” ad essi connessi e anzi questi riti, tornati alla luce, si posero in carico un compito ancora più vasto e universale di natura escatologica, proponendosi di rafforzare quel legame con la Terra, quale madre di tutto ciò che vive, che si avvertiva come giunta allo stremo delle forze e perciò necessitata di essere rinvigorita[27].
La ‘fulcanelliana’ ”inversione dei poli”, cui seguirà la rinascita ciclica, è immaginata in quei paraggi realizzarsi attraverso il “ritorno dei bisonte”, l’animale prototipico, simbolo inossidabile del legame che la nazione Lakota ha stretto con esso all’origine del tempo. Ora questi possenti esseri si sono rifugiati nella grotta mitica delle origini (come i sette dormienti di Efeso) - quella caverna da cui erano scaturiti i primi esemplari, che avevamo riempito le grandi pianure donando prosperità alle nazioni –, giunto però il termine del ciclo discensivo le mandrie delle origini sarebbero riapparse in forma copiosa per inaugurare una nuova età del mondo in una forma di apocatastasi nativa.
A futura memoria Archie Fire Lame Deer ricorda nel suo testo il gratuito accanimento che si riversò su tutto ciò che caratterizzava la vita spirituale del sioux-lakota e tale acrimonia non poteva che focalizzarsi sulla cerimonia identitaria collettiva dei Sioux, ovvero la Danza del Sole “il più sacro dei rituali”, “l’antenato di tutte le cerimonie indiane”, dal momento che nella circostanza “tutto il popolo comunica con tutti gli spiriti”[28].
“Tra il 1890 e il 1940, la Danza del Sole, così come tutte le altre cerimonie native, venne proibita dall’Indian Offenses Act (Legge sui crimini indiani): si poteva finire in prigione soltanto per aver fatto un Inipi (capanna sudatoria) o aver pregato secondo la tradizione lakota. Il governo e i missionari cercarono in tutti i modi di cancellare tutte le nostre antiche credenze alo scopo di farci diventare cristiani “civilizzati”, anche se di carnagione un poco più scura” (: 2018, 337).[29]
L’importanza di questo rito per sostenere l’esperienza religiosa nativa assurge a una dimensione inequivocabilmente vitale, soffocarne l’esecuzione comporta lo spegnere la vita spirituale di un intero popolo, di intere nazioni indigene, perché senza l’esecuzione della danza del Sole, secondo la concezione non solo lakota ma praticamente pan-indiana, la vita intera, nella sua interezza, non avrebbe impulso a rinnovarsi. La Danza del Sole è come una grande preghiera, dai tratti quasi teurgici, alla cui celebrazione i prescelti si preparano per buona parte dell’esistenza. Proprio per questo suo carattere, pressoché sacramentario, essa è definita preghiera in movimento. Si è detto teurgica perché attraverso l’esplicarsi delle sue modalità rituali si innesca un rapporto con la Terra, Terra che è da intendersi, riproponendola nella concezione dei nostri lidi, come Anima mundi. Per questo tutti gli esseri traggono da questo rito vitale beneficio, come ben illustra Archie in questo passaggio “Le nostre preghiere in lakota includono tutta l’umanità e ogni essere vivente su questa terra. Il Cerchio Sacro abbraccia tutti e tutto. Le bandiere nere, rossa gialla e bianca sventolano sulla cima dell’albero sacro della vita rappresentano le quatto direzioni dell’universo. E grazie all’universalità delle nostre preghiere, molte persone ora pensano che questi colori rappresentino le quattro razze umane” (:2018, 348).
Fig. 6 – Scuola per Nativi canadesi
Immagine di una scuola per Nativi canadesi che evidenzia il contrasto architettonico tra la “circolarità”, caratteristica del pensiero aborigeno, e la “rettangolarità” propria dell’ordine concepito/percepito staticamente dai coloni. Ciò è dimostrazione del contrasto radicale tra due concezioni diametralmente opposte del mondo e la conseguente irriducibile opposizione dei due insegnamenti.
Allo stesso modo, in evidente polemica con il cristianesimo, di cui l’autore, per tradizione familiare e per esperienza personale, non pare abbia affatto stima, descrive un altro dei numerosi risvolti spirituali della Danza del Sole, un risvolto che si potrebbe tranquillamente definire “eucaristico”, facendo riferimento alle parole apprese da Archie dal proprio padre che sono queste:” I cristiani bianchi lasciano che sia Gesù a soffrire per loro, ma gli Indiani danno la propria carne, prendono la sofferenza su se stessi, fanno del proprio corpo un altare sacrificale. Se offriamo al Creatore un cavallo, del tabacco, cibo per i bisognosi, gli stiamo dando ciò che egli già possiede. Ogni cosa su questa terra è stata creata da Wakan Tanka ed è parte di lui. L’unico vero sacrificio, l’unico vero dono che possiamo fare di noi stessi è quello della nostra carne, del nostro sangue, del nostro dolore. Come possiamo fare qualcosa di meno?” (2018: 332).
Bene, ci fermiamo qui perché l’essenziale di questo confronto ci sembra che sia stato sufficientemente esplicitato ed è di tutta evidenza che questi due “sciamani” portavoce dei loro popoli, benché non convertiti, manifestino uno spirito inequivocabilmente “cristiano”, pregando e operando non solo per se stessi ma anche per il ravvedimento consapevole dei loro persecutori, perché senza questo ravvedimento, secondo il loro sentire, il mondo non conoscerà salvezza.
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[1] Si veda su ciò l’impressionante immagine della desertificazione dei luoghi presente in https://www.survival.it/campagne/Adivasi-contro-il-carbone. Qui sono ritratti degli autoctoni Adivasi che osservano lo scavo della grande miniera di carbone PEKB che ha distrutto gran parte della loro terra ancestrale nella Foresta di Hasdeo, Chhattisgarh. Nonostante l’evidente scempio da poco ne è stata “approvata” l’ulteriore espansione.
[2]Davi è nato alla fine degli anni '50 in un villaggio alle sorgenti del rio Tootobi, nello stato di Amazonas, in Brasile. Fu soprannominato 'Kopenawa', un tipo di vespa amazzonica, per il suo coraggio e la sua perspicacia. A causa delle epidemie che si diffusero tra la tribù nel 1959 e nel 1967, la comunità di Davi fu decimata ed entrambi i suoi genitori morirono. Grazie alla conoscenza del portoghese, Davi da giovane lavorò per il Dipartimento brasiliano agli Affari Indigeni FUNAI come guida e interprete per i medici che lavoravano con le comunità yanomami. Negli anni '70 conobbe uno sciamano yanomami molto rispettato che lo introdusse allo sciamanesimo, diventando così questi suo mentore e maestro. Negli anni '80 iniziò a lottare per la demarcazione ufficiale di una vasto territorio abitato dagli Yanomami negli stati brasiliani di Roraima e Amazonas. I cercatori d'oro, infatti, avevano invaso illegalmente l'area e molti Indiani morirono per malattie portate dall'esterno, germi patogeni verso cui non avevano sviluppato alcuna difesa immunitaria. A seguito di un'importante campagna internazionale guidata da Davi Kopenawa, Survival International (il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni) e CCPY (Commissione Pro-Yanomami), accadde che nel 1992 il governo brasiliano demarcò ufficialmente il territorio yanomami, evento che fu così commentato da Davi: "Ho sognato molto e combattuto per 25 anni... È stata molto dura ma sono stato aiutato anche da altri. È stata la vittoria del popolo yanomami. Se non avessi combattuto, oggi non sarei qui”. Dagli anni '80 ad oggi, Davi ha compiuto molti viaggi all'estero per portare in tutto il mondo il suo messaggio centrato sull'importanza del rispetto dei diritti indigeni e la salvaguardia della foresta pluviale a beneficio di tutta l'umanità. Nel 1988 ha ricevuto il premio Global 500, assegnatogli dalle Nazioni Unite proprio per il suo contributo alla difesa dell'ambiente. Nel 1989 ha ritirato a nome di tutti i popoli indigeni il prestigioso Right Livelihood Award, il premio Nobel alternativo, assegnato a Survival International per il suo “strenuo, coerente e costante impegno” per i popoli più minacciati della terra. Insieme ad altri Yanomami del Brasile, Davi Kopenawa ha fondato Hutukara, un'organizzazione che difende i diritti del popolo Yanomami e propone diversi progetti educativi. Oggi Davi continua a difendere i diritti indigeni e l'ambiente. Di recente si è schierato contro un progetto di legge che, se venisse approvato dal Congresso brasiliano, aprirebbe i territori indigeni ad attività minerarie. "Le miniere non porteranno nulla di buono" ha detto. "Porteranno molti problemi, molte malattie e tanta gente cattiva che uccide gli Indiani... Non abbiamo intenzione di accettare questa legge...La terra è il nostro patrimonio, un patrimonio che ci protegge. Per noi Indiani la terra appartiene a noi, perché possiamo coltivare, cacciare e stare in salute: è la nostra casa.". Nel 2013 ha pubblicato "The falling sky - Words of a Yanomami Shaman" - il primo libro mai scritto da uno Yanomami - in cui racconta la sua vita, dall'iniziazione come sciamano all'impatto con la cultura occidentale. Il libro è stato scritto in collaborazione con l'antropologo francese Bruce Albert. Nel luglio 2014 Davi ha denunciato di aver ricevuto minacce di morte da parte di criminali armati, si tratta dii uomini che sarebbero stati assoldati dai minatori che hanno invaso illegalmente il territorio yanomami. (elaborato da Wikipedia).
[3] Archie Fire Lame Deer (10 aprile 1935 - 16 gennaio 2001) è nato Archie Percy Let Them Have Enough a Corn Creek, South Dakota, nella riserva indiana di Rosebud. Suo padre era John Fire Lame Deer (alias John Let Them Have Enough), un noto “uomo sacro” qualificato come heyokam, ossia un “contrario”, dai lakota. Archie è nato dalla sua terza moglie, Josephine Quick Bear. Il bambino è cresciuto con la guida e gli insegnamenti di suo nonno, Henry Quick Bear e poi, allo sviluppo. ha frequentato la scuola presso la St. Francis Indian School, da cui è fuggito all'età di 14 anni dopo molti tentativi di evasione e innumerevoli cinghiate di punizione. Personaggio assai irregolare si è arruolato due volte nell'esercito ed è stato veterano della guerra di Corea quale membro delle forze speciali; una volta catturato divenne prigioniero di guerra. Tra le altre carriere temporanee, Archie ricordiamo che è stato un addetto in numerosi ranch del Sud Dakota, cacciatore di serpenti a sonagli, stuntman di Hollywood, cavaliere di rodeo e caposquadra in un ranch di Hollywood. In quegli anni vorticosi Archie lavorava e viveva da alcolizzato fino al giorno in cui fu chiamato al capezzale del padre morente il quale gli consegnò il “potere” che nel figlio era solo latente. Fu l’esordio di una “conversione” comportamentale pressoché immediata, difatti Archie abbandonò immediatamente la dipendenza dall’alcol che da anni lo accompagnava. Si era nel 1971 e da quel fatidico giorno divenne anche consulente in materia di droga e alcol per aiutare altri indiani che ne erano dipendenti. Attraverso il Los Angeles Indian Center ha gestito un programma per i nativi americani imprigionati sia nelle istituzioni statali che federali in California. Archie è stato determinante nel portare le cerimonie di purificazione lakota nelle carceri di tutti gli Stati Uniti (attività interdetta in precedenza) e ha anche contribuito a fondare e gestire il Centro indiano di Santa Barbara.Negli ultimi vent'anni della sua vita Archie Fire Lame Deer ha viaggiato in tutto il mondo insegnando le credenze spirituali e lo stile di vita lakota. Nei suoi viaggi incontrò e parlò, per perorare la causa dei nativi nord americani, con numerosi leader spirituali tra cui il Dalai Lama e il Papa. Nel 1980 parlò anche a Rotterdam al Quarto Tribunale Russell sui diritti dei popoli indigeni.Per molti anni Chief Lame Deer è stato l'intercessore all'annuale Crow Dog's Sundance nella riserva indiana di Rosebud proprio come suo padre prima di lui. Suo figlio John, alla sua morte, ha preso il suo posto come capo e sciamano e porta avanti le tradizioni della famiglia Lame Deer (testo rielaborato da Wikipedia).
[4] La qual cosa è particolarmente evidente in Davi Kopenawa perché questi è stato il primo sciamano amazzonico a scrivere in prima persona di tutti gli accadimenti che hanno coinvolto la sua persona e la sua etnia nel doloroso periodo della colonizzazione della foresta nel libro di oltre mille pagine “La caduta del cielo”
[5] Monoteismo e politeismo sarebbero due modi di concepire il divino tra loro apparentemente inconciliabili, Ovviamente il tema è di tale complessità che non è affrontabile in questa sede e men che mai in una nota, tuttavia questo non impedisce di proporre all’attenzione un piccolo saggio in cui la lettura del politeismo è affrontata in maniera inedita. Il testo di cui qui si parla è Il nuovo politeismo ed è frutto del lavoro di due autori David L. Miller e James Hillman ed è arricchito dalla brillante prefazione di H. Corbin in cui questi riassume le prospettive d’indagine su tale tematica delineate nel suo Il paradosso del monoteismo. La “teologia” dei Sioux appare un’esplicitazione esemplare di questo “paradosso”, difatti nel testo di Archie Fire Lame Deer Il dono del potere troviamo due passaggi indicativi della circostanza. Quanto di nostro interesse si trova nel capitolo XX intitolato Taku Wakan. Tale locuzione indica “qualcosa di misterioso “, “qualcosa di sacro”, che è attributo dell’onnipotente “Grande Misterioso” o “Grande spirito” il quale crea in continuazione. In questa incessante opera creativa sono venuti in essere i Wakampi, i “Sacri”, i “Sedici grandi misteri”, o “Esseri soprannaturali” che non sono divinità o comunque Enti separati da chi li ha creati (p. 365). Aggiunge Archie Fire Lame: “Per parlare del Creatore e dei suoi “Grandi Misteri”, un uomo dovrebbe essere un wichasha wakan, un uomo spirituale che parla l’Hanbloglaka, il linguaggio sacro e segreto, le cui parole provengono dal mondo del sogno. Egli dovrebbe vedere con l’occhio dello spirito invece che con i due occhi della testa, Egli dovrebbe parlare “attraverso la pipa”. Cioè non dire nulla al di fuori della verità” (p. 366). Nella complessa elencazione discendente della scala degli esseri, che qui non si può riassumere, sono presenti anche gli “animali di potere” (solo la selvaggina è carica di potere non gli animali d’allevamento) e per la comprensione del tema assai pertinente è questo passaggio: ”Ciò non significa che il Bisonte e l’Orso vennero creati materialmente, come i bisonti e gli orsi che si vedono negli zoo. Esistettero prima come spiriti non corporei. Si potrebbe dire che in principio esistevano come pensieri nella mente di Wakan Tanka”. Non è quindi per caso che il nostro autore abbia visitato in Europa quelle grotte preistoriche ricche di figure artistiche parietali e ne abbia colto il segno soprannaturale. Gli animali ivi rappresentati sono parte di quella arcaica cultura europea definita da caratteristiche sciamaniche e gli animali rappresentati, segnatamente il bisonte, costituiscono degli indicatori metafisici più che rappresentazioni realistiche. Anche Davi Kopenawa compì’ viaggi in Europa visitando, al pari di Archie, famosi siti megalitici. Entrambi riportarono la forte impressione di trovarsi in comunanza spirituale con coloro che avevano ideato e realizzato tali manufatti quasi fossero comuni antenati, nonostante i millenni che li separavano. Del resto, vestigia megalitiche sono parimenti sparse in America di cui molte sepolte nella foresta amazzonica. Concludiamo le osservazioni con quest’ultimo passaggio davvero esplicativo. “Il numero 16 simboleggia i Sedici Misteri, i Sedici Grandi Esseri Soprannaturali. Per mancanza di un termine questi vengono talvolta chiamati ‘dei’, ma sono tutte manifestazioni di Wakan Tanka il Creatore” (2018, 261)
Il principio è unico ma si manifesta con diverse modalità espressive.
[6] L'argomento è sterminato e quindi parimenti sterminata ne è la bibliografia, e questo nostro è evidentemente solo un appunto. Si suggerisce per un approfondimento l’ottimo e recente testo di Nuccio d’Anna Pitagora e il pitagorismo, nonché dello stesso autore, il parimenti indispensabile Sapienza sacra e esperienze estatiche.
[7] L’idea che gli Amazzonici vivano nella foresta vergine come gli uomini “dell’età della pietra” senza storia e senza cultura in una sorta di dimensione rousseauiana è preconcetto comodo da coltivare e quindi duro a morire. In realtà i delicati suoli dei luoghi, che non possono essere utilizzati con i metodi dell’allevamento e della agricoltura intensiva, mostrano cospicue tracce di un intervento antropico millenario che ha sostenuto una fertile agricoltura locale. Si tratta dell’impiego della fertilissima terra preta de Indio (terra nera dell’India, così definita dagli europei), argomento assai stuzzicante e trattato da G Hancock, insieme alla ricchezza archeologica della preistoria amazzonica nel suo ben documentato Il Mistero della Civiltà perduta p. 142 e segg.
[8] Nonostante le promesse generate dal cambio politico in Brasile, nulla, in un anno da allora, è cambiato per gli autoctoni se non in peggio, come si legge in questo passaggio; “Il governo non è riuscito a risolvere la situazione nemmeno con il decreto d’emergenza di un anno fa” ha dichiarato Dario Kopenawa, vice-presidente dell’Associazione Yanomami Hutukara “I minatori sono ancora nella terra yanomami. E oggi le attività minerarie sono più distruttive di quanto non lo fossero negli anni ’80 e ’90 perché ora a cercare l’oro nel territorio Yanomami ci sono le bande criminali, il crimine organizzato...Per gli Yanomami è una situazione molto, molto grave e di grande vulnerabilità. Noi continueremo a lottare e a criticare i governi statali e quello federale.” Nel febbraio del 2023 difatti è stata condotta una grande operazioni militare di difesa dei confini ma, malgrado ciò, la situazione non è cambiata e Survival è stata costretta a ri-denunciare la sistematica occupazione delle terre e l’uccisione dei suoi abitanti. L’ennesimo genocidio che non indigna praticamente nessuno. Gli Yanomami hanno trovato in Davi e nell’antropologo Bruce Albert dei portavoce autorevoli, ma gli immensi disastri e i genocidi finora perpetrati sono passati sotto silenzio, basti pensare che ben dodicimila nativi amazzonici sono morti sottoposti a un vero e proprio durissimo regime di encomienda nell’epoca d’oro dell’estrazione del caucciù che ha arricchito in misura incalcolabile pochi speculatori.
[9]Da quando è cominciato il disboscamento e l’inquinamento della foresta in cui vivono gli Yanomami, ovvero intorno agli anni ‘70 in Brasile si sono succeduti molti governi di opposte fazioni ma nessuno è riuscito a fermare i cercatori d’oro clandestini, ormai un vero e proprio partito armato e, tutto ciò, nonostante il riconoscimento giuridico della Terra Indigena Yanomami (per le cartine che ne mostrano collazione e estensione si veda: La caduta del cielo, pp. 27-34).
[10] “Non possiamo sottrarre all’attenzione del lettore questa rilevante osservazione: “Le ultime ricerche sul metabolismo degli alberi ci spingono, nuovamente, a dare a queste osservazioni sciamaniche più credito di quanto non fossimo abituati a conferirgli. In effetti il rapido e sostenuto innalzamento delle concentrazioni atmosferiche di CO2, a partire dal XIX secolo sembra non avere indotto, come si poteva sperare, una stimolazione della crescita degli alberi. Al contrario, ciò ha dato luogo a una progressiva saturazione della loro capacità di assorbimento del diossido di carbonio così come un'accelerazione del loro invecchiamento”. (B. Albert; D. Kopenawa: 2023,166).
[11] Il termine “conversione” è in realtà inadeguato alla circostanza perché per ricevere il “potere” dal padre. Archie doveva infatti, per fato, preliminarmente scendere nell’abisso della terra “più sotto di un verme”, e ciò affinché potesse poi volare nel cielo più alto, al di sopra della stessa aquila. Dal verificarsi di tali circostanze può asserirsi che era venuto il momento giusto per procedere alla “successione”.
[12] Singolare coincidenza con alcuni immagini dell’arte cristiana dove nella raffigurazione dell’Apocalisse si vede il mondo riannodato come una coperta. Del resto la “consegna” del potere fu davvero immediata così come ne narra Archie: ”Quando mio padre stava per morire mi fece chiamare. Mise le sue mani sopra la mia testa, mi diede la sua Sacra Pipa, e passò a me il suo potere, perché continuassi come uomo medicina “.
[13] L’idea che il “mondo degli spiriti” faccia parte del bagaglio di superstizioni di cui la parte dell'umanità civilizzata si è da un pezzo liberata, si arena di fronte alle conversazioni tenute dai matematici Michel Cassé e Cedric Villani con Davi Kopernava e con la mediazione dell’antropologo Bruce Albert al bistrot parigino Raspail Vert di Montparnasse. Qui i qualificati interlocutori dello sciamano hanno stretto una rete di similitudini tra il “pensare” (o sognare) matematico e il “pensare” (o sognare) sciamanico per la condivisione onirica che genera il successivo “prodotto”. A tal proposito stralciamo questo significativo passaggio di Michel Cassé:” Mi sembra che la profonda intuizione di questa prossimità cognitiva che Davi Kopenawa ha colto in ciò ha intravisto del lavoro di Cedric Villani. Quindi per farla breve, lo spirito delle immagini-equazioni non arriva ai matematici così come le immagini spirito arrivano agli sciamani?” (B. Albert, D. Kopenawa:2023, 117).
[14] Scrive Jeremy Narby: “Questi sciamani insistono, con disarmante costanza, nell’affermare l’esistenza di essenze (spiriti madri) animate, comuni a tutte le forme di vita... Difatti nel pensiero yaminahua (un’etnia amazzonica n.d.r.) tutte le cose presenti sono animate e caratterizzate con le loro peculiarità di yoshi (spirito ed essenza animata). La conoscenza sciamanica è soprattutto conoscenza di queste entità, che sono anche le fonti di tutti i poteri, rivendicate dallo sciamanesimo per se stesso … è attraverso il concetto di Yoschi che si stabilisce l’identità fondamentale tra ciò che è umano e ciò che non lo è” (Jeremy Narby; 2006, 58).
[15] A specchio di ciò è da aggiungere un’indispensabile integrazione legata allo specifico Yanomami: “Gli sciamani yanomami “uomini spirito” hanno il compito quotidiano di convocare una miriade di spiriti ausiliari, esseri-immagine originari con cui poi si identificano, sia nei loro viaggi onirici sia durante le trance indotte dall’inalazione di una polvere vegetale, la yakoana a il cui principio attivo, costituisce uno psicotropo molto potente. Questi esseri immagine dell’”inizio dei tempi” sono le forme umanoidi originarie degli attuali esistenti della foresta, animali e vegetali, ma anche una serie di entità cosmo-ecologiche diverse. Trattandosi di un popolo di cacciatori, gli spiriti animali hanno ovviamente il ruolo più importante. Tuttavia gli spiriti pianta non sono certo da meno” (B. Albert, D, Kopenawa :2023, 158).
[16] Fiztcarraldo, la bizzarra pellicola di Werner Herzog che vede il protagonista ossessivamente intenzionato a portare la musica lirica nel profondo della foresta amazzonica, con Klaus Kinsky che diffonde compiaciuto attraverso un grammofono le note di un’opera interpretata da Caruso solcando su una nave le acque del Rio delle Amazzoni, ha colto, forse involontariamente, nel segno individuando il succo “musicale” dell’anima nativa, palesandosi nella pellicola l’inclinazione spontanea che le popolazioni di queste latitudini manifestano per il “canto” e per l’arte coreutica.
[17]Questo argomento è assai ben trattato, tra altri identicamente “intonati” ricercatori, da Jeremy Narby ne: ll Serpente cosmico. In questo testo l’antropologo giunge a conclusioni davvero coinvolgenti in ordine ai saperi degli sciamani amazzonici tutt’altro che “stregoni”.
[18] ‘Madre Grano” è al centro del lungo e complesso rituale di iniziazione dei Pawnee. Si tratta di un rito che l’antropologa Alice C. Fletcher aveva studiato per anni, recuperandolo proprio presso i citati Pawnee, dopo la morte del suo principale informatore. Elemire Zolla ha, come d’abitudine, presentato eccelsamente il lavoro dell’ostinata ricercatrice che reca il titolo Il Rito Hako. Queste le parole d’introduzione del Zolla in cui sicuramente si coglieranno dei nessi con quanto si sta esponendo in queste pagine: “L’atto preliminare dello Hako è un canto invitante alla contemplazione alla rescissione dal visibile e quotidiano, esso propizia uno spirito reverente presso le potenze minori o manifestazioni di Dio, o podestà angeliche rettrici che si voglia dire” (in Alice C. Fletcher 1970, 9).
[19] “Curiosamente” la predetta studiosa, sempre al fine di ottenere la “visione”, si è sottoposta al rito della capanna sudatoria ed è rimasta poi, per i quattro giorni prescritti dopo questa purificazione, in cima alla collina senza bere, né mangiare (M Gagliano:2022, 71-75). Questo è uno dei riti lakota (il fondamentale tra tutti) condotto “istituzionalmente” da Archie Fire Lame Deer. Amazzonia e Sud Dakota s’incotrano!
[20] Il portato di questa sintetica esposizione può essere convertito nelle parole espresse in questa “nuova” teoresi “L’ecologia può diventare etnografia solo affermando la fine della divisione tra natura e cultura e trasformando la natura in un sistema di differenze culturali” (E. Coccia: 2013;11).
[21] In Brasile la controversia sulla concezione dell’indigenismo è molto vivace e una autorevole rivista cattolica Cultura.it il 10 ottobre 2019, ha pubblicato un’intervista all’avvocato indigeno Jonas Marcolino Macuxi dal titolo Una parola chiara sulla Amazzonia. (https://www.culturacattolica.it/attualit%C3%A0/in-rilievo/abbiamo-detto-gli-editoriali/una). Macuxi si presenta quasi come un affrancato dalla sua pregressa odiosa primitività in quanto è passato dalla condizione di aborigeno arretrato a quella di professionista e, dall’alto di questa sua nuova posizione, si è fatto interprete e portavoce (visto il titolo) dei sentimenti di tutto il bacino amazzonico, anche se in realtà può parlare della volontà di ’integrazione del solo gruppo da cui proviene: i Macuxi. Costoro, a suo dire, respingerebbero l’idea della “riserva”, concepita come un’area nella quale possono vivere secondo le arcaiche tradizioni e, anzi, gli indigeni vorrebbero esattamente l’opposto di quanto rivendicano gli Yanomami. I Macuxi, infatti, rifiutano l’idea di costringesi in questa “recinzione verde“ e sollecitano l’integrazione piena nella effervescente società brasiliana. In questa circostanza ci giungono in mente le ironiche parole di Archie Fire Lame Deer che sembrano scritte per l’occasione della (comunque lecita) prolusione progressista del nostro avvocato: “Quindi raccogli l’erba che ti risponde e ti comunica qualcosa di buono. Se non hai il sesto senso per comunicare con quell’erba fermati. Smetti di cercare di essere un guaritore. Diventa un venditore d’auto o un avvocato” (:2018, 239).
Osserviamo subito che le affermazioni presentate, almeno per quelle che sono le nostre attuali conoscenze sul tema, sono nettamente agli antipodi dalle conclusioni degli studi di Gerardo Reichel Dolmatoff, di Jeremy Narby e di quelli del duo Bruce Albert e Davi Kopenawa intorno alla presunta inclinazione progressista degli autoctoni amazzonici. L’intervista da cui abbiamo tratto le notizie sopra e sotto riportate è stata realizzata durante un convegno organizzato dall’Instituto Plinio Corrêa de Oliveira e questo spiega l’attacco al sandinismo e alla pedissequa “teologia della liberazione” che presiede l’articolo. Tale orientamento non riguarda la nostra impostazione tematica, dal momento che gli autori, che si sono appena citati, non pare abbiano nulla a che vedere con tale movimento politico. Detto ciò in sintesi prendiamo due passaggi significativi dello scritto. Sul primo di essi si legge: “Noi siamo e vogliamo vivere con i confort della civiltà, usare l’energia elettrica, l’automobile, l’autobus e abbiamo villaggi dove ci sono attività produttive. Rivendichiamo il diritto di avere accesso a questi strumenti della civilizzazione e di poter progredire”. Queste parole, che possono essere valide per singoli individui o gruppi etnici, non rivestono, come detto, un carattere universale in quanto sono totalmente difformi dalle risultanze etnografiche riconducibili agli Yanomami ed ad altri gruppi etnici locali. Chi ha letto il testo di Davi Kopenawa sa bene cosa pensa il “popolo della foresta”, il quale disdegna la possibile omologazione con il “bianco”, per quanto seducente questa circostanza possa apparire, volendo mantenere la propria identità culturale che si estrinseca solo nel proprio habitat. Nel secondo passaggio che qui si propone c’è il riferimento a questa “teologia sudamericana” che sarebbe ostacolatrice di quel naturale processo di emancipazione benevolmente innescato dal “popolo delle merci”. Così si legge: “In poco tempo arrivarono a distruggere tutto quello che i loro predecessori missionari avevano costruito nel corso un secolo, in nome di un assurdo primitivismo. Non ci misero davvero molto a smantellare la prosperità che gli indigeni integrati avevano raggiunto attraverso un sistema basato sulla libertà economica, sulla proprietà privata, sull’economia di mercato e sulla libertà di lavoro. Utilizzarono, poi, anche la tecnica della divisione dei villaggi, per creare comunità sempre più piccole in territori sempre più vasti, determinando, tra l’altro, anche la scomparsa delle piccole aziende agricole”. Si ribadisce che l’”assurdo primitivismo” animista degli indios nasconde un tesoro di molte sapienze millenarie e che sempre, per quello che è il racconto di Davi Kopenawa e che documenta Bruce Albert suo inseparabile interprete, l’esperienza degli Yanomami con la “civiltà” è stata ed è attualmente un’esperienza di morte e di estinzione, come del resto si sono estinte molte popolazioni ad essi viciniori. Contro i fatti non vale l’opinione.
[22] Tale rescissione dal mondo spirituale, che, come appena prima si diceva, è il fine che ci si prospetta di raggiungere con qualsiasi mezzo è una finalità che, volendola definire in termini cristiani, assume caratteri diabolici perché una volta compiuta la separazione dal daimon custode, per usare un’immagine, il soggetto diviene così come uno spettro. A proposito di tale ierocidio si meditino queste parole di Davi Kopenawa:” Prima dell’arrivo dei Bianchi, le case degli spiriti erano molto numerose nel petto del cielo. Ora molte di esse sono bruciate e abbandonate. I fumi dell’epidemia xavara hanno divorato la maggior parte dei nostri anziani. Ecco perché, quando i miei pensieri sono tristi, a volte mi chiedo se in futuro ci saranno ancora gli sciamani Forse no. Allora i nostri figli avranno la mente così ingarbugliata che non vedranno più gli spiriti e non potranno più ascoltarne i canti. Senza sciamani, resteranno privi di protezione e l’oscurità s’impossesserà del loro pensiero.” (:2023, 128).
[23] Emanuele Coccia, prefazione a Bruce Albert, Davi Kopenawa: Lo spirito della foresta. p. 15.
[24] Wichasha Wakan è l’”uomo medicina”, locuzione che potrebbe essere meglio compresa sostituendola altrimenti con “uomo sacro” o “uomo spirituale”. Tuttavia anche queste espressioni sono sintesi di retrostanti concetti ben più complessi. Ci sembra che sia il caso di proporre delle distinzioni più sottili riprendendo direttamente il testo di Archie: “Prima di tutto vi è il wichaha wakan, lo sciamano vero e proprio (neanche sciamano è la parola esatta, ma non riesco a trovare qualcosa di meglio). Quindi abbiamo il pejuta wichasha che per curare fa uso del potere delle erbe. Poi c’è lo yuwipi lo “scopritore”, il “legato”, che lavora con il potere di Inyan la roccia. Abbiamo inoltre il Waayatan, il profeta, colui che è in grado di vedere nel futuro e di predire ciò che accadrà. Anche l’heyoka, il buffone sacro o sognatore del tuono, è potente egli ride in lacrime e fa tutto al contrario, Tenuto e ammirato al tempo stesso è il wapiya, stregone e mago. Con la sua natura positiva egli guarisce i malati, mentre nel suo aspetto negativo è il “custode delle ossa”, il medico stregone malefico che provoca le malattie”. (:2018.224)
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[25] Così difatti annota Archie Fire Lame Deed: “Un ragazzo parte per la ricerca della visione per trovare il proprio cammino, che percorrerà fino alla fine della sua vita. Torna uomo dalla collina. Ma il piangere per una Visione non finisce lì, non si va in cima a una montagna una sola volta. So di uomini che hanno intrapreso questa prova di quattro giorni per più di una dozzine di volte e persino di uomini molto vecchi che continuano a piangere per una visione fino alla fine dei propri giorni” (:2018, 282). Richard Erdoes, coautore del libro di Lame Deer: Il dono del potere, ha dedicato a questo tema un’intera pubblicazione, molto ben illustrata, dal titolo Piangere per un sogno.
[26] L’espressione zolliana non è certo sfuggita ai suoi avversari ideologici, come ci ricorda Grazia Marchianò nella sua introduzione al libro del coniuge “Nel clima avverso di quegli anni, il teorema dello stato mistico come norma dell'uomo non potè che sconcertare un po' tutti i critici di Zolla, conservatori e progressisti, cattolici e laici indifferentemente. Se la rivista ‘Renovatio’ del cardinale Siri additò Zolla come uno dei capi occulti della congiura gnostica contro la Chiesa cattolica, - e a poco servì in quel frangente la difesa di Augusto Del Noce, Enzo Siciliano dal canto suo rinvigoriva la polemica attorno a Zolla scorgendo nella svolta inopinata verso l'ideale ascetico il fantasma di una ‘vague conservativa’, di un ‘hegelismo destrorso’ semplicemente inaccettabili“ (Le potenze dell’anima, anatomia dell’uomo spirituale, p.6, 7). Evidentemente se ne deve concludere che i pellerossa “visionari” siano degli gnostici d’oltreoceano o, diversamente, degli “hegeliani destrorsi”.
[27] Solo in un cenno è da rilevare che, a causa dello sguardo occhiuto dei missionari, si pongono tuttora impedimenti alla celebrazione della Danza del Sole, ove questa si effettui pubblicamente, in quanto proprio per sollecitare le energie della terra si richiede la presenza di una grande profusione di simboli sessuali il cui impiego è però severamente interdetto.
[28] È da ricordare, per comprendere il grado di disprezzo che i nuovi venuti riservavano alla spiritualità nativa, che, fino a tempi relativamente recenti, gli Indiani detenuti nelle prigioni americane non potevano ricevere alcun conforto religioso dai correligionari, diversamente dai Cristiani e dagli Ebrei, perché i loro riti erano considerati mere superstizioni senza alcun valore spirituale.
[29] Se si era bambini o preadolescenti ci pensavano le scuole dei “preti” a “uccidere” l’indiano che era in loro e ciò avveniva anche attraverso la somministrazione di robuste dosi di cinghiate distribuite alla prima manifestazione di sauvagerie, come ci ricorda il medesimo autore, che ha potuto apprezzare, letteralmente sulla sua pelle, i metodi e le finalità adottate quali antidoti all’indianità, in questo significativo passaggio: “L’amore viene dal cuore non è possibile istillare l’amore per Gesù attraverso le natiche”. Il tema, ironicamente trattato da Archie Fire Lame Deer, è in realtà estremamente serio perché è parte del “sistema genocidio” messo in atto nelle Americhe per ridurre al silenzio l’anima nativa spegnendo, se non la vita, ma spesso anche questa, ogni legame con la cultura tradizionale d’appartenenza. L’attivissima regista nativa Georgina Lightning ha fatto vivere le dolorose vicende delle scuole residenziali del nord America, basandosi sulle esperienze del padre, nel film Segreti dal passato. Questo è un vero diario della memoria che dovrebbe davvero essere ampiamente conosciuto. Parole queste affatto inventate per drammatizzare ma che nascono dalla seguente folgorante frase “koan” di un navajo Ginger Hillis: “Vennero con la Bibbia in una mano e la pistola nell’altra. Dapprima rubarono oro, poi rubarono la terra, quindi rubarono anime” (R. Erdoes:1997,95).
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Elemire Zolla: I mistici d’occidente, Adelphi, Milano, 2010
Elemire Zolla: Le potenze dell’anima, anatomia dell’uomo spirituale, Rizzoli, Milano, 2008