La Croce e il Cranio (1^ parte) (di A.Bonifacio)

La croce, il cranio, la maschera.

La dottrina della fondazione e dell’orientamento dogon e i suoi paralleli con altre tradizioni


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(la Crocifissione di Durer, ai piedi del Cristo il teschio di Adamo)

 

Uno dei massimi studiosi del pensiero dogon, Marcel Griaule nell’introduzione alla sua più celebre pubblicazione, Dio d’acqua, ebbe esplicitamente ad affermare che “la stessa cristologia avrebbe interesse a studiate i Dogon”.(Griaule: 1978,4)

La narrazione mitica che ha per oggetto la realtà del mondo indigeno è molto complessa e articolata e l’avvenimento sul quale è opportuno concentrare l’attenzione è legato a un particolare momento del dispiegamento del racconto della creazione, alludiamo specificamente a quella sezione del racconto mitologico in cui si narra dell’elargizione della terza parola agli uomini da parte del Dio creatore Amma.

Brevemente si dirà, per avere un’idea del decorso cronologico degli eventi mitici di questa tradizione africana, che il Dio Amma, creatore dell’universo, per rimediare ai guasti prodotti da uno dei suoi figli della prima generazione (creature dall’aspetto semianfibio denominati Nommo), si decise a creare direttamente una coppia primordiale di uomini, e da questa coppia nacquero otto capostipiti dell’etnia: quattro maschi e quattro femmine che, per auto-generazione, produssero l’ulteriore discendenza degli uomini.

 

Il frammento del mito che riguarda l’argomento, e che ha dato origine a una serie di incontri tra Griaule e il suo sapiente informatore, narrati nel libro “Dio d’acqua”, riguarda il racconto dell’elargizione della “Terza parola” agli uomini, l’ultima definitiva iniziazione alla comprensione dell’Universo, che il demiurgo concesse agli esseri da lui direttamente creati. In questa versione mitica compresa nel testo del 1947 (poi ripensata in maniera più “complessa” nella successiva stesura del mito incorporata nel libro “Le renard pale”) le otto creature primordiali di Amma, i geni Nommo, dopo varie vicende, furono inviati da Amma, per mezzo di una prodigiosa arca celeste, sulla Terra, al fine di produrre gli atti di fondazione necessari alla nuova condizione degli uomini.
All’epoca la Terra, ancorché già abitata dagli uomini, appariva spoglia e desolata, in essa vivevano pochi esseri del mondo vegetale e animale, si tratta di quella categoria di viventi appartenenti alla prima generazione. La creazione doveva ancora esplodere sulla Terra e la maggior parte delle creature si trovava ancora “in cielo”, allo stato di “idea” nella mente del demiurgo: essi troveranno concretezza al compimento della discesa dell’arca celeste dove le idee, ovverosia i simboli degli esseri, trasportati dall’arca si colmeranno di “sostanza”.
Al posarsi dell’arca sulla terra nel mito dogon avvengono due fatti concomitanti e davvero epocali nella dinamica del pensiero indigeno: da una parte il più vecchio degli uomini, chiamato Lebé, muore e viene sepolto in un campo che dovrà essere seminato da lì a poco con i semi celesti prelevati dall’arca, il suo “sepolcro” è una fossa orientata da nord a sud ed egli viene deposto supino con la testa a Nord, nella posizione della terra e nel suo ombelico medesimo cioè nel suo centro; dall’altra, una delle creature celesti primordiali, il Nommo, in discesa sull’arca e Settimo in ordine di uscita dalla porta del celeste veicolo, viene ucciso (per diversi motivi, narrati in varie versioni del mito) ed il suo corpo offerto agli uomini affinché se ne possano nutrire, mentre la testa viene sepolta sotto il sedile del fabbro primordiale.

Costui, a seguito di tali eventi, inizia a battere il martello sull’incudine e tale suono ritmico produce un insolito movimento nel sottosuolo. La testa decapitata del Nommo divorato si rianima e si dota di un nuovo corpo, serpentiforme dalla vita in giù, e in queste nuove sembianze, danzando all’interno della terra, il Nommo rigenerato si avvicina al cadavere del Lebé, il primo “morto- non morto” per ingerirlo.
Il Lebè (l’ottavo) rappresenta per i Dogon il più vecchio degli uomini e per questo lo si può considerare un vero e proprio “Adamo” sudanese. Questo Lebè-Adamo, viene quindi ingoiato, ma, per la virtù propria di molti serpenti mitici, che possiedono la capacità di rigenerasi e rigenerare, avviene che il corpo dell’uomo, nell’utero del Nommo-serpente, fu restituito in un rigurgito liquido con le membra trasmutate in pietre colorate. Il torrente liquido estromesso dalla bocca del Nommo-serpente fa scaturire cinque fiumi che si orientano dallo spazio della tomba, ponendola al centro del nuovo assetto del mondo. A loro volta le pietre colorate si dispongono al suolo assumendo la sagoma di un profilo umano. Soffermiamoci fugacemente su questo quintuplice effluvio, di cui ci si è occupati altrove (Bonifacio 2005, 117). Nella pubblicazione citata si rilevava come il “cinque”, posto in un sistema di nove caselle proveniente da un mito di sistemazione della Terra di origine cinese, occupi il centro dello schema (il che richiama evocativamente la quintessenza) e tale collocazione si presenta conseguentemente come il fulcro di quell’assetto del mondo che il Settimo desidera offrire agli uomini e di cui le pietre viventi (le dougué) che formano lo schema, costituiscono la trasformazione (forse sarebbe meglio dire la trasmutazione), di un uomo che ha subito una passione e quindi una morte e una resurrezione.

Tale elemento distintivo si presenta foriero di quegli interessanti spunti comparativi accennati nell’introduzione. Nel mito estremo orientale, appena accennato, il cinque occupa un punto centrale nella disposizione delle nove provincie dell’impero, regno che, così diviso, realizzava specularmente l’immagine dell’universo sulla terra dove all’omphalos si trovava il “numero centrale della Terra”, quello ordinatorio dell’intero sistema.

A questo punto è troppo affermare che la crocifissione esprime un simbolismo numerico similare manifestato attraverso le cinque piaghe del Cristo, in cui il numero cinque è centrale ed è assegnato alla ferita del cuore, luogo fisico che esprime appunto il centro dell’essere e nella fattispecie della crocifissione, il centro stesso del mondo; il cuore, del resto, è l’elemento che rappresenta il mezzo della comunicazione con la trascendenza (l’intelletto del cuore). Ancora, e senza forzature, ci poniamo la seguente domanda: qualora riquadrassino lo schema della crocifissione non avremmo, complessivamente, anche qui uno schema geometrico formato da nove caselle?

Non si tratta naturalmente solo di numeri, lo schema dogon, reca alcuni elementi comuni con la passione di Cristo e quindi se pur questi “grumi mitemici” sono composti con regole “grammaticali” diverse, essi sono idonei a comporre strutture simili, anche se naturalmente non identiche. Così il tema delle due nature del Salvatore, oggetto di molteplici riflessioni ai primordi del cristianesimo e di varie scissioni tra chiese, trova qui un suo puntuale parallelo. Nel mito indigeno, infatti, si narra come l’essere umano il Lèbé- Adamo e l’essere divino il Settimo (Salvatore) si fondono insieme nel momento dell’ingestione del Lebé e nella trasformazione nell’utero. Incidentalmente si vuole aggiungere che, molto sottilmente, i Dogon pensano che la vicenda fin qui narrata non sia avvenuta una volta per tutte, che cada cioè nella “storia”, intesa come consumazione entropica del tempo, essa diversamente ha delle caratteristiche esemplari e i Dogon interpretano l’evento come unione perenne delle due nature, umana e divina.

Quindi anche se il racconto reca le sembianze di un accadimento, la natura propria del linguaggio mitico, inteso quale vicenda esemplare, porta i Dogon a concludere in ordine al carattere paradigmatico dell’evento. Le anime del Lebè e del Nommo, con l’atto di ingestione dei primordi, si sono fuse e ne formano una soltanto, di natura divina e umana contemporaneamente e per questo la preghiera dogon relativa all’argomento è la seguente: “Che Nommo e Lebé non cessino mai di essere la stessa cosa che restino la stessa cosa buona, che non si separino da questa qualità di essere la stessa cosa buona” (Griuale: 1978, 66).
Tuttavia ulteriori elementi del mito meritano di essere valorizzati. Si è accostato un certo simbolismo numerico a base nove, proveniente da questa lontana cultura estremo-orientale, perché esiste un certo parallelismo tra il “quadrato magico” cinese, prima appena accennato e una sorta di “quadrato magico” dogon. Infatti, le pietre rigurgitate sulla terra disegnarono una sagoma umana, una sorta di schema tabellare, indicante a mezzo delle relazioni numeriche possibili, lo schema della futura società dogon. Si tratta di un vero “macratropo” litico le cui combinazioni numeriche, a base 9, fondata sulle otto articolazioni del corpo, disegneranno il modello fondamentale dello scambio matrimoniale, nucleo di un ordinato assetto del mondo.
Questa organizzazione va però ben al di là di un mero “organismo sociale”, essa rappresenta piuttosto un’organizzazione spirituale del mondo indigeno, in cui le pietre costituiscono quello che può definirsi il reticolo del “corpo” mistico della intelaiatura delle relazioni dogon, non per nulla Ogotemmeli definisce le pietre come “i pegni d’affetto degli otto antenati, i ricettacoli della loro forza vitale che essi volevano rimettere in circolazione nella loro discendenza”.
Diversamente dal mito diluviale di Decaulione e Pirra in cui le pietre, ossa della madre (anche le pietre nella tradizione dogon quelle pietre portate al collo dai sacerdoti del culto sono costantemente considerate le ossa del Lebé), determineranno la nascita di una nuova schiatta d’individui, qui l’architettura pietriforme scaturente dal diluvio (il rigurgito del Nommo serpente) determinerà la collocazione individuale dei singoli dogon, a seconda della posizione che ogni soggetto occupa all’interno di un determinato clan, lignaggio e famiglia.

Ora, il sacrificio congiunto del Nommo e del Lebé contengono uno specifico messaggio cosmologico che comporta un rinnovamento del creato e un suo nuovo ordinamento, dal momento che: “Il Nommo settimo genio puro, ingoiando il vecchio aveva assimilato la natura umana impura e la seconda parola che aveva perso il suo valore. Nel vomito ritmato dai colpi dell’incudine, egli aveva espulso, insieme alle pietre d’unione, un’acqua che portava in sé la contaminazione” (Griaule: 1968,63).
Questi sono gli elementi essenziali del mito dogon, relativi al periodo della terza parola, le cui molteplici sfaccettature non possono essere indagate in questa circostanza, e partendo da queste nozioni essenziali è opportuno rivolgerci direttamente al tema del possibile accostamento con il tema cristiano del sacrificio per proporne un possibile, ma verosimile, accostamento fra culture davvero molto lontane.

Si è molto opportunamente sottolineato come il sacrificio di Cristo costituisca un atto supremo di carità, in un contesto in cui la parola “carità”, che ha subito un orrendo scivolamento semantico, venga equiparata all’”elemosina” (anch’essa parola degnissima comunque almeno nel senso proprio, per così dire “socialista“, che aveva nel mondo islamico).
In termini rigorosi “carità” altro non significa che “dividere la propria carne”: ebbene tale definizione ben si attaglia a quanto descritto in questa circostanza dove il Nommo, creatura celeste e intermediaria tra il Dio supremo e gli uomini, si fa eucaristicamente mangiare dagli uomini. Anche questo atto costituisce un ulteriore elemento di congiunzione con il tema cristico come si ricava dalle parole con cui Ogotemmeli commenta il carattere “caritatevole” del gesto del Nommo: “Il Nommo settimo…si è sacrificato, soltanto lui poteva farlo. Il Settimo è il Signore della parola, signore del mondo…Il Settimo potrebbe dire: la cosa che io facevo, l’opera che io compivo, la parola che io parlavo è: ‘La mia testa è caduta a causa degli uomini per salvarli’” (Griaule: 1978, 65).

Il senso della vicenda assumerà, nell’ottica dogon, un’importanza fondamentale perché in contemporanea al determinarsi dell’assetto della società indigena si compiranno anche delle operazioni fondamentali d’orientamento spaziale scaturenti esattamente dal centro ombelico.
In futuro ogni nuovo centro dogon riceverà parte di questa terra sepolcrale originale, con essa i Dogon formeranno degli altari in forma conica, nuovi centri contraddistinti da nuovi omphalos e poi da qui, inaugurati nuovi nuclei abitativi, procederanno al dissodamento del suolo, nucleo della cultura autoctona fondato sull’agricoltura, strumento rituale primario di purificazione della terra e solo sussidiariamente scelta alimentare dell’etnìa.

Questi elementi trovano degli interessanti paralleli con altre culture; nel mondo romano, di cui in prosieguo si vedranno altri accostamenti, possono essere colte delle significative similitudini contenute proprio nel racconto mitologico che riguarda il centro dell’Urbe: il Campidoglio. Leggiamo questo interessante passo tratto dall’articolo di Renato Del Ponte “Il Campidoglio e il suo simbolismo assiale”: “…tuttavia potrà essere interessante osservare che la stessa successiva contaminatio fra mito greco e romano, tra Saturno e Kronos, offre un’ulteriore preziosa testimonianza del valore ‘centrale’, omphalico, attribuita a Terminus, poiché esso sarà identificato con quella pietra che ’ pro Iove Saturnus dicitur devorasse’, in base a un singolare processo di fusione che ha luogo tra l’interpretatio romana del mito di Kronos e la tradizione autoctona dell’ostinata resistenza di Terminus sul Capitolium”(Arthos, La tradizione artica n.27-28)

E’ in questo luogo che si trova la colonna del dio Terminus (la pietra restituita da Saturno, si tratta dell’unico sacello presente nel mons Saturnio non exaugurato dopo la consacrazione del tempio), stele confinaria che viene posta, nell’ottica romana, non alla periferia di un proprio territorio, come elemento di separazione tra due regni, ma piuttosto al centro stesso dello Stato, nel punto di irraggiamento che farà di Roma il “caput mundi” e questo a significare che il destino di Roma era concepito come finalizzato all’integrale romanizzazione del territorio senza alcun limite definito che non fosse l’orizzonte: in questa ottica il Campidoglio rappresenta, se così può dirsi, il “centro del centro”, un luogo del resto significativamente posto in relazione con lo stesso asse polare come dimostrato da una ricca simbologia ad esso relativa, simbologia per la verità un poco tarda rispetto a quella che riguarda il Palatino che sembra essere stato l’originale polo di Roma connesso con Ursa Minor (si veda sull’argomento “Riflessi primordiali alle origini di Roma: Il Palatino” di Renato del Ponte).

Anche nella circostanza dalla ri-composizione di alcuni mitemi essenziali sembra scaturire un messaggio, comune a più tradizioni, e quindi nella circostanza troviamo il “dio” Saturno (anch’esso settimo nell’ordine geocentrico antico dei pianeti) che ingoia una pietra, in luogo di Giove, pietra che comunque determinerà l’esistenza o la permanenza di un centro, tanto che Renato del Ponte conclude il suo articolo sul Campidoglio con le seguenti parole, che potrebbero benissimo essere apposte alla descrizione della tomba del Lebé, Nommo “Come Delfi, anche il Campidoglio, nell’ambito della geografia sacra, rappresenta allora una delle culminazioni arcane più sante per la loro antica tradizione: segna simbolicamente il “centro del mondo”. Intorno a questo argomento verranno offerti altri accostamenti nelle pagine successive per completarne la valenza comparativa, soprattutto in relazione al carattere tombale evocato anche dalla citazione delfica compiuta dallo stesso Del Ponte, dal momento che questa località accoglie elementi mitologici accostabili a quanto finora narrato (uccisione del serpente e ombelico, non per nulla Delfi è posta sotto la tutela di Artemide-Ursa Minor-la costellazione polare).

Questo atteggiamento nei confronti del luogo “tombale” costituisce un altro aspetto assai interessante intorno al tema che qui si sta trattando in rapporto alla materia evangelica. Richiamiamo, per l’occasione, un episodio narrato, esclusivamente dal Vangelo di Giovanni, e dai contenuti piuttosto enigmatici che riguarda il sepolcro di Cristo. Gesù, una volta risorto, venne scambiato dalla Maddalena per il giardiniere del luogo, dal momento che il nuovo sepolcro offerto da Giuseppe di Arimatea ai discepoli per contenere il corpo del Cristo appariva posto in un giardino, anziché in un cimitero.
Questa collocazione “insolita” (prescindendo poi dalle virtù risanatrici del Graal di cui secondo certe tradizioni Giuseppe di Arimatea fu il depositario e che si riconnettono evocativamente a questo carattere “rigoglioso” del tema della sepoltura) richiama quella qualità propria della Terra della Resurrezione che si è già incontrata nel mito dogon. Questa terra è l’unica terra in grado di purificare il resto del mondo che è all’epoca di svolgimento della vicenda mitica è intriso di impurità.



La terra della tomba quindi, anziché farsi strumento di corruzione per la presenza di un corpo putrescibile, diviene, proprio a causa del corpo santo che contiene (e che richiama una serie di tradizioni che concernono il profumo delle tombe dei santi), uno strumento di redenzione, il mezzo per procedere a una nuova edenizzazione del creato, dopo la caduta adamica.

Di tale concezione si ha un preciso precedente nella stessa cultura egizia dove la tomba di Osiride (dio, che ha anch’egli subito una “passione”) viene considerato secondo l’interpretazione dell’egittologo Boris de Rachewiltz, come “serbatoio di energia fecondante” e per questo, nell’iconografia di Osiride presente nel tempio di File, il dio, disteso sul suo catafalco, appare circondato da simboli di vita ed il corpo è cosparso di spighe rigogliose.
Questi temi sono ampiamente condivisi e, se così vogliamo dire, enfatizzati dalla cultura dogon, infatti il mito narra che il “campo delle origini” dogon fu diviso in ottanta volte, ottanta quadrati, della dimensione di un cubito di lato, spazi che furono, a propria volta, ripartiti fra le otto famiglie discendenti dagli antenati che avevano continuato il loro destino sulla terra.
Partendo quindi dalla tomba, oggetto della potente trasmutazione dell’ottavo e del Settimo, inizierà la progressiva espansione nello spazio circostante che verrà così progressivamente cosmicizzato (nel caso cristiano “evangelizzato”). Il primo insediamento diverrà quindi la fonte viva e inesauribile di quella sacralità necessaria per procedere a ogni futuro allocamento fornendo, alle future generazioni dogon, il modello ripetitivo dell’assetto urbanistico ideale. Infatti, lungo la mediana nord-sud di questo quadrato delle origini, saranno costruite otto case d’abitazione e il materiale di queste costruzioni sarà costituito da quella stessa calcina trasportata dall’arca, per cui questa terra celeste mescolata alla terra impura formerà un impasto partecipare le nuove abitazioni della purezza del mondo celeste.

 

Il tema del “centro del mondo” connesso alla “montagna-teschio”, di cui abbiamo tracciato qualche elemento comparativo nelle precedenti considerazioni, merita di essere ampliato con altri raffronti, al fine di validare ulteriormente la linea interpretativa scelta per questo intervento. Nel paragrafo precedente abbiamo soffermato l’attenzione sul tema delle pietre di fondamento di una “civiltà” deposte in un luogo ombelicale e si è constata la presenza di una serie di omologie tra varie vicende, raccolte in alcune tradizioni, che attestano la pertinenza di questi accostamenti. Ora si opererà un ulteriore raffronto tra il tema del Teschio, presente nel mito dogon, con alcune tradizioni nelle quali si rintracci la presenza di questo elemento
Un luogo storiograficamente assai noto per avere ospitato una “montagna teschio” è il romano Colle capitolino (da caput olim, secondo la prevalente e quindi non unica etimologia di Varrone) nucleo essenziale della vicenda dell’urbe, luogo altresì enigmaticamente connesso ad un “primo tempo”, dal momento che i destini della stessa Roma arcaica appaiono conferiti, per antico tramandamento, da una “Roma” ancora precedente e, se così si vuole dire, sovratemporale e latente all’attualità storica.

Riprendendo alcune considerazioni già anticipate nelle pagine precedenti a proposito della connotazione tombale del luogo, si vuole qui richiamare la testimonianza di Livio che ci narra l’episodio di Tarquinio Prisco il quale, quando fece scavare le fondamenta per il nuovo tempio di Giove sul colle saturnio, vi scoprì “caput humanum integra facie” e cioè una testa “umana con il volto intatto”. Tuttavia questa citazione è stata interpretata diversamente da alcuni ricercatori e la testimonianza di Livio potrebbe riferirsi al ritrovamento non tanto di una testa quanto di un tempio a forma di cranio, rinvenuto, appunto, intatto. Un’ulteriore annotazione sull’argomento si rende opportuna ed è tratta da una considerazione linguistica proposta dal ricercatore Siro Tacito il quale, nella sua introduzione al libretto di Camillo Ravioli denominato Prima Tellus, così scrive a proposito della parola facie: “Questo è uno dei numerosissimi casi in cui misuriamo la nostra difficoltà a intendere correttamente i classici, rinchiusi in una gabbia di significato definiti in epoca moderna ed accettati per convenzione ed abitudine. Il termine facies, che qui ricorre al caso ablativo, è emblematico. La sua provenienza dalla radice “bha” ampliata con il suffisso “k” a indicare l’atto del “risplendere”, “illuminare” ne rivela il significato profondo.” (Siro Tacito: Prima Tellus, pag 19 nota 3).

Ebbene per cogliere il possibile significato fotico, anche in relazione all’architettura cosmica del Campidoglio e del Golgota, del quale si esprimerà qualche opinione nel prosieguo, è necessario recarsi in un’altra terra e precisamente a Gozo nell’arcipelago maltese, luogo sacrale eccelso al centro del Mar mediterraneo, dove alcuni dei templi più antichi mostrano una precisa forma di teschio. Tra questi ricordiamo il tempio di Hagar Qim che, tra le peculiari caratteristiche che lo riguardano, ne possiede una in particolare che potrebbe riconnettersi in generale il Tempio capitolino menzionato da Livio ma anche a quella caratteristica di “splendore” evocata nell’interpretazione di Siro Tacito. Il tempio maltese, come alcuni altri, posti nello stesso arcipelago, appare, infatti, orientato secondo le linee solstiziali della nascita e del tramonto del sole, oltre che sulle posizioni di levata e tramonto della Luna.

Questa caratteristica architettonica, comune ad altri tumuli megalitici dalle connotazioni architettoniche “craniche”, rafforza il nostro discorso in merito all’orientamento come momento paradigmatico dell’agire rituale sulla terra e quindi fissazione di un centro, una comunanza d’intenti che rende accostabili, pur nella disparità geografica e nella lontananza storica, i simboli fondamentali di civiltà tanto lontane e apparentemente così diverse. Del resto a riprova di una precisa connessione esistente tra il simbolismo polare offerto dalla colonna del Dio Terminus e le relazioni solari (equisolstiziali) del luogo è opportuno ricordare che la riconsacrazione del Tempio capitolino di Giove, distrutto da un incendio, fu scelta come data di inaugurazione il giorno del solstizio d’estate del 70 d.C. un giorno verosimilmente connesso alla celebrazione della liturgia solare.

A proposito di questa circolarità dei simboli osserva Siro Tacito, citando il lavoro del Ravioli sulle origini sacrali dell’Urbe, un’altra annotazione sull’argomento che ci consentirà di rientrare nell’universo dogon: “Per completare le considerazioni intorno all’Asse capitolino (denominato a cagione della sua inamovibilità ‘immobile saxum’), è doveroso accennare a un altro dato di autorità tradizionale, avvio in una direzione che ora non possiamo seguire fino in fondo: è possibile contrapporre, con una concordanza di luoghi e punti persino imbarazzante, la pianta del Colle capitolino con il rituale fegato etrusco di Piacenza; la stessa forma della Gigantèa richiama, oltre che un cranio, anche un fegato”. La precisa circostanza evocata dal ricercatore può essere ritrovata specificamente anche nelle culture sudanesi proprio relazionandola al mito di fondazione e ai riti che a esso si riferiscono. Il luogo da cui Ogotemmeli fa scaturire le sue osservazioni è proprio quell’altare su cui i Dogon compiono il loro sacrificio annuale Questo altare costituito appunto da un ombelico di pietra grigia contiene le zolle di quel terreno prelevato, a propria volta, dall’archetipo originale di questa tipologia di altari, posto nel primo luogo di fondazione della civiltà indigena.

Per il compimento del rito annuale, che non è oggetto delle presenti considerazioni, è necessaria la partecipazione di un “impuro”, si tratta di una categoria di uomini, considerati né morti né vivi, che assumono un ruolo importante nel mondo dogon fornendo un’indispensabile mediazione con regni “pericolosi”, quali quello della morte.
Il rito comprende il sacrificio di una capra (animale cornuto) sull’altare e al compimento di questa uccisione l’impuro, l’unico che tratta impunemente con i morti a beneficio del gruppo, mangia il fegato cotto dell’animale. Tutto il rito è accompagnato dal battito del fabbro sull’incudine, nella convinzione che questo suo percuotimento ritmico aiuti gli spostamenti della forza vitale del Lebé, di cui la terra dell’altare di fondazione è ancora impregnata. Nel suo commento al rito Ogotemmeli scrive: “Quando l’impuro mangia il fegato della bestia è come se mangiasse il cranio del Lebé che passa per l’animale sacrificato” (pag. 150).
Ecco quindi che, anche in un ambito completamente remoto rispetto a quello che si è delineato nelle righe precedenti, il gioco dei riferimenti rimane riconoscibile e rimanda alla medesima sistemazione del cosmo in un reticolo di richiami davvero insospettabili e stabilendo la precisa correlazione simbolica tra fegato e cranio come si era evidenziato nella cultura etrusco-romana.


 

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