ROMA, ETRURIA E GRECIA (di P. Galiano)

 PARTE I - UN CONFRONTO TRA ROMA E L’ETRURIA

I rapporti tra Roma e l’Etruria comportano una serie di problematiche sintetizzate da Carmine Ampolo nel titolo di un suo saggio del 2009: “Presenze etrusche, koiné culturale o dominio etrusco a Roma e nel Latium vetus in età arcaica?[1]. Tra Roma e più ampiamente tra i Latini e l’Etruria vi è stato solo uno scambio di conoscenze e di usi, com’è normale che avvenga tra popolazioni confinanti? O gli Etruschi hanno dominato per un certo periodo di tempo non solo su Roma con la dinastia dei Tarquini ma sul Lazio (cioè sul territorio a sud del Tevere) imponendo la loro cultura civile, politica e religiosa? Il loro dominio si è esteso alla formazione del pantheon romano e latino?

È opinione presso molti studiosi di Storia delle Religioni che le divinità di Roma siano state plasmate a partire da quelle degli Etruschi e dei Greci, se non addirittura di popolazioni mesopotamiche (come per la Venere detentrice del Nome segreto di Roma secondo Marcello De Martino[2]), quasi che il popolo romano fosse stato incapace di avere una qualche idea su come si concepiscano gli Dèi, e che queste divinità altro non siano, nel migliore dei casi, che personificazioni delle forze della natura, dei procedimenti agricoli o di atti particolari della vita quotidiana.

1333 1 Giano e prua aes grave bronzo circa 240 225 a C

Fig. 1: Moneta con il volto di Giano sul recto e la prua di nave sul verso; aes grave, bronzo, circa 240-225 a. C.

(C C Attribution-Share Alike 3.0 Unported license, http://www.cngcoins.com).

 

Sulla base di questa errata concezione Giano Fig. 1 è un portiere che sorveglia chi entra e chi esce, Saturno è un protettore dell’agricoltura, Vertumno si occupa dei frutti autunnali, Vulcano è un fabbro zoppo, Vesta una brava donna che bada che il fuoco di casa rimanga acceso, Marte un guerriero coperto del sangue dei suoi nemici e Venere una donnina allegra.

In Italia già da alcuni decenni è iniziata la revisione di questa erronea concezione della dipendenza della civiltà di Roma da quella dell’Etruria.

Pallottino nella sua Etruscologia[3] osservava che “può essere significativo il rapporto di queste radici [vel, lar, tarχ] … con una copiosa materia di termini toponomastici e onomastici di substrato o di ambienti linguistici differenti dall’etrusco”, in particolare il termine lar è “quasi esclusivamente tardo e limitato all’Etruria settentrionale, mentre in latino Lar è ben noto nome di divinità”, di fondamentale rilievo nella religione romana e nei culti a livello di stato, di vicus e di famiglia. Un numero “piuttosto rilevante di voci onomastiche etrusche, specialmente gentilizi e cognomina, [derivano] da parole indoeuropee delle lingue italiche” e, per quanto qui ci interessa, i nomi delle divinità etrusche solo in parte sono autoctoni e in parte importati dal greco, mentre altri, quali Menerva, Maris, Neθuns, Uni sono “denominazioni comuni o assonanti con nomi divini dell’area italica che certamente denunciano profonde sfere di reciproche connessioni”.

Le osservazioni filologiche di Pallottino meno di trent’anni dopo sono ulteriormente ampliate dal Torelli[4] con un attento studio comparativo basato su riscontri archeologici: “È il pantheon etrusco a mostrare un’impressionante serie di nomi di divinità derivati dal mondo e dalla lingua dei Latini, tutti con un etimo di chiara origine indoeuropea, a fronte di un unico possibile prestito di origine etrusca fra i teonimi latini … Volturnum, ritenuto in genere nient’altro che il nome etrusco del Tevere”.

Lar-Larth, Minerva-Mnerva, Iuno-Uni, Mars-Maris, Neptunus-Nethuns, Silvanus-Selvans, Saturnus-Satre, Veiovis-Veive sono divinità romane prestate all’Etruria, mentre per altre non vi è riscontro come per Janus, il cui corrispettivo in etrusco sarebbe Ane, un divinità però femminile, forse collegabile alla romana Anna Perenna e legata al culto delle acque, e per Liber, cui corrisponderebbe Fufluns, che per il suo legame con il vino è più vicino al greco Dionysos che al romano Liber e, per quanto è possibile sapere, non ha il ruolo di iniziatore degli adolescenti proprio a Liber.

Il gran numero di divinità del mondo latino mutuate dagli Etruschi, conclude il Torelli, “non può essere considerato frutto di un fenomeno occasionale di contatto … ma al contrario ha svolto una funzione tutt’altro che marginale nello sviluppo storico del sistema religioso etrusco”.

Un esame dei miti[5] e delle fonti originali, sia dei significati religiosi che degli aspetti archeologici, epigrafici e artistici, conduce invece a risultati differenti: non solo le divinità greche da cui vengono fatte derivare quelle romane hanno caratteristiche e funzioni che ne fanno figure del tutto differenti rispetto agli Dèi romani, ma nel caso degli Etruschi sono questi ad avere mutuato da Roma e dai Latini una parte del loro pantheon e non viceversa, mentre gli Dèi di Roma sono archetipi nei quali si riconoscono le idee principiali costituenti la sfera divina che governa il mondo creato secondo i principi del pensiero religioso indoeuropeo.

1333 2 Tinia e Menerva

Fig. 2: La nascita di Menerva, traduzione etrusca del latino Minerva, dalla testa di Tinia (lo Zeus etrusco): come si vede da questo esempio, le narrazioni mitologiche greche sono ampiamente riprese in Etruria (Eduard Gerhard, Etruskische spiegel, Berlino 1884, vol. V, tav. 6).

Soprattutto gli Dèi di Roma non sono comparabili a esseri umani come quelli greci, non vi è traccia per il periodo arcaico di una “mitologia degli Dèi”, conosciuta in Etruria e ampiamente illustrata nella ceramica e negli specchi FIG. 2, non vi sono storie concernenti episodi della loro “vita” se non dopo la “invasione culturale” dei greci subìta dall’Urbe a partire dal Periodo Orientalizzante, e testimonianza di questa non-mitologizzazione degli Dèi romani è l’assenza di statue che li raffigurano se non successivamente all’intensificarsi dei rapporti con le nazioni etrusca e greca, presso le quali invece gli Dèi erano rappresentati nelle statue e nei dipinti in forma umana e secondo le modalità artistiche (atteggiamenti, vesti, ecc.) caratteristiche di questi popoli. Contro queste raffigurazioni antropomorfe, per i Romani di età arcaica Marte era rappresentato da una hasta, Giove da una quercus (il Giove Feretrio invocato da Romolo durante la battaglia contro i Sabini), Vertumno era “un tronco rozzamente intagliato”, secondo le parole di Properzio, e Vesta non aveva alcuna immagine, come testimonia Ovidio nei Fasti.


1333 3a Tinia Uni Menerva

Fig. 3a: Specchio etrusco (circa 350-300 a. C.): Tinia, Uni, Turms (l’etrusco Hermes) e Menerva: Uni è nuda e si appoggia a Tinia alla presenza degli altri Dèi (Eduard Gerhard, Etruskische spiegel, Berlino 1884, vol. V, tav. 98). La corrispondenza tra Uni e la fenicia Astarte in alcuni templi etruschi (Pyrgi – Santa Severa) spiega la posa voluttuosa di Uni, ancora più esplicita in altri specchi quale quello di Berlino pubblicato in Nancy de Grummond, Thunder versus lightning in Etruria, in “Etruscan studies”, 19 (2016), pp. 183-207, p. 200 fig. 11.


1333 3b Juno Sospita

Fig. 3b: Antefissa raffigurante Juno Sospita Mater et Regina dal Tempio di Juno a Lanuvio come Juno Caprotina, circa 500-480 a. C. La solennità ieratica della Giunone laziale contrasta in modo evidente con quello della Uni etrusca.

 

La differenza nella raffigurazione degli Dèi è ben visibile nel confronto tra la rappresentazione di Uni completamente nuda, la Juno romana che in Etruria è assimilabile ad Astarte, e la ieratica antefissa di Juno Sospita Mater et Regina di Lanuvio Fig. 3a-3b, o tra Aplu ed Erkle del frontone del tempio di Menerva a Veio e la statua del Palladio di Lavinium Fig. 4a-4b.

 
 

1333 4a Aplu e Herkle da mydbook giuntitvp it

Fig. 4a: Frontone del santuario di Portonaccio a Veio (ora al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia): Aplu (il latino Apollo) contro Herkle (il greco Herakles, da non confondere con il latino Hercules), terracotta, circa 510 a. C. (da Contesti d’arte, vol. I, https://mydbook.giuntitvp.it/app/books/GIAC89_G8970102L/html/190). Il movimento scattante delle due figure che si stanno affrontando è magnificamente illustrato dall’autore, che si ritiene sia l’etrusco Vulca, a cui è attribuita anche la quadriga che ornava il tempio di Giove Ottimo Massimo di Roma, eretto dai Tarquini sul Campidoglio.

 1333 4b Palladio

Fig. 4b: Raffigurazione fittile del Palladio: la statua, ritrovata nella favissa del tempio di Minerva a Lavinio (ora al Museo di Lavinium, Pratica di Mare) e databile al V sec. a. C. La forma quasi cilindrica della statua rende evidente la sua origine da una più antica statua in legno ricavata da un tronco d’albero: è assente presso gli antichi popoli latini quella antropomorfizzazione tipica della statuaria greca ed etrusca: forme essenziali che devono stimolare la mente e il cuore, non splendidi oggetti d’arte da ammirare (dalla rivista online www.aboutartonline.com).

Come per le divinità, gli Etruschi “importarono” dai Latini anche riti e simboli di fondamentale importanza.

1333 5 Auguraculum a Juno Moneta b Piazza c

Fig. 5: Pianta del Campidoglio: le frecce indicano, a partire dall’alto, il Tempio di Juno Moneta, la posizione dell’Auguraculum e, come punto di riferimento, il piazzale michelangiolesco del Campidoglio (da Francesco Paolo Arata, Osservazioni sulla topografia sacra dell’Arx capitolina, https://doi.org/10.4000/mefra.338, Fig. 1, modificata).

 

Il più importante tra i rituali è certamente quello dell’auspicium Fig. 5, la cui originaria paternità, osserva il Torelli spetta al gruppo dei latinofoni[6], anche se esso si ritrova presso tutti i popoli italici. I termini con cui si esprime la preparazione del templum e il rituale dell’augurium sono in lingua latina e nulla di etrusco si riscontra in essi, e l’auguratorium dell’Arce del Campidoglio, ora scomparso a causa dei lavori per la costruzione del Vittoriano che spianarono la cima più alta del colle, ne è la più antica testimonianza nella città di Roma.

Altrettanto importante, in quanto base dell’iniziazione dei giovani maschi e del loro passaggio tra gli adulti, è il rituale dei Sacerdotes Saliares: il doppio scudo rotondo conosciuto come ancilis è presente nelle tombe del Lazio a partire dall’Età del Bronzo finale, già presente nel X sec. a. C. nella tomba 21 di Castel di Decima[7] o nella necropoli di Santa Palomba - Albunea[8] Fig. 6 (in Etruria compare al III quarto dell’VIII sec. nella necropoli di Casal del Fosso a Veio[9]), ed è reperibile in tombe di personaggi con chiara funzione sacerdotale (di sesso maschile ma anche femminile), insieme al coltello, di bronzo come gli scudi, e spesso una statuina di offerente[10]. Il fatto che i Saliares siano descritti dagli autori latini con un abbigliamento proprio dei guerrieri dell’Età del Bronzo testimonia l’arcaicità del rituale.1333 6 Ancili e carro

Fig. 6: Necropoli di Santa Palomba-Albunea (Roma): oggetti miniaturizzati tra cui due ancili in bronzo nella tomba di un guerriero, circa X sec. a. C.
(Giosuè Auletta, Santa Palomba Albunea. Relazione storica, 2019, p. 7).

 

Le tombe dei sepolcreti tra la regione a nord del Tevere e quella a sud presentano notevoli diversità nel corredo funebre: la prima, corrispondente al territorio dei Protoetruschi, comprende tombe a incinerazione con corredo di oggetti funerari di dimensioni di grandezza pari a quelli di uso comune, mentre nella seconda, territorio dei Protolatini, si segue dall’XI sec. a. C. il costume dell’incinerazione (fino all’inizio dell’Età del Ferro, quando compare l’uso dell’inumazione, persistendo però per lungo tempo l’incinerazione per i personaggi di alto rango) e gli oggetti del corredo sono miniaturizzati, da quelli di uso quotidiano ai segni propri del rango, l’ancile, la spada, il coltello e il carro da guerra. La presenza di tali offerte miniaturistiche e soprattutto la distinzione che compare in modo evidente tra persone di ceto inferiore e soggetti di rango superiore, capi o guerrieri e sacerdoti, dimostra l’esistenza di una netta distinzione tra le due popolazioni, incentrata sulla comparsa di uno sviluppo culturale e sociale con ruoli politico-sacrali ben distinti nelle popolazioni di Protolatini rispetto ai Protoetruschi, presso i quali è assente o comunque di livello meno complesso, tanto che è possibile parlare di una “subalternità dei Protoetruschi ai Protolatini[11].

Sarà solo a partire dall’avanzata Età del Ferro e dal successivo Periodo Orientalizzante che la società latina inizia un processo di scambi sempre più cospicui sia con la vicina Etruria meridionale che con i Greci e la Magna Grecia, dai quali nasceranno nuove forme di vita sociale e religiosa con quella “monumentalizzazione del culto” consistente, come scrive il Torelli, nella “introduzione di forme greche nelle architetture sacre, nelle pratiche cultuali e nell’immaginario degli dei con la definitiva ellenizzazione della ‘parte canonica’ del pantheon etrusco-latino”, per cui si può parlare di un “meticciato culturale” causato dall’introduzione di elementi di origine greca[12].

1333 7 Tessera hospitalis VI sec

Fig. 7; Tessera Hospitalis, dall’area sacra di Sant’Omobono (avorio in forma di leoncino, circa 580-540 sec. a. C.) recante l’iscrizione: “Mi (ha fatto) Araz Silqetanas per Spurianas” (ricostruzione da Carmine Ampolo, Presenze etrusche, koiné culturale o dominio etrusco a Roma e nel Latium vetus in età arcaica?, in “Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina”, vol. XVI “Gli Etruschi e Roma”, Atti del XVI Convegno Internazionale di studi sulla Storia ed Archeologia dell’Etruria, a cura di Massimo Della Fina, Roma 2009). 

 

Questa differenza tra i Romani, ormai distinti dall’originaria famiglia latina dopo la fondazione della protocittà di Roma tra XI e X secolo, e gli Etruschi è confermata anche dai reperti epigrafici: i testi scritti in lingua etrusca reperiti a Roma sono solo sette, di cui solo cinque risalenti all’età arcaica[13], brevi iscrizioni incise su donativi, a partire dalla tessera hospitalis di Sant’Omobono risalente al 580-540 a. C.[14] Fig. 7, mentre allo stesso periodo risalgono le lunghe epigrafi del triplice vaso di Duenos ritrovato sul Quirinale Fig. 8 (forse una formula magica, ancora non completamente decifrata) e della stele del Lapis Niger di poco successiva Fig. 9 (attribuito al VI secolo), di ben maggiore lunghezza e significato, ambedue scritte in latino arcaico. Questo è l’indizio che la lingua latina è la lingua parlata a Roma, e non l’etrusco, e che questa lingua è utilizzata non per brevi dediche ma per leggi sacre e formule magiche.

Conclude Ampolo: “Il latino sembra essere l’unica lingua ufficiale a Roma nel VI secolo, malgrado la significativa presenza di etruscofoni, una dinastia di sovrani di origine etrusca e tanti elementi culturali etruschi[15].

 

 I primi romani, stanziati sul Palatino almeno dall’XI sec. a quanto ci dicono le tombe ritrovate sotto il murus romuleus[16], hanno una cultura religiosa e civile compiuta e diversa da quella degli Etruschi e i contatti di Roma con la Grecia si limitano a missioni commerciali provenienti dalle città micenee. Quando Roma è una città, cioè almeno nella seconda metà dell’VIII secolo, i suoi Dèi sono già ben definiti per caratteri e funzioni (anche se in età tardo-monarchica e repubblicana il loro ricordo andrà affievolendosi), la loro raffigurazione permane a lungo diversa dalle antropomorfizzazioni della cultura etrusca e greca.

 1333 8 Vaso di Dueno 600 a C

Fig. 8: Il c. d. Vaso di Dueno, dal nome del dedicatore, ritrovato sul Quirinale (VI sec. a. C.): la lunga iscrizione in lingua latina non è stata ancora tradotta con certezza, potrebbe forse trattarsi dun a formula magica propiziatoria (da Wikimedia Commons, public domain).

Quando una dinastia di re etruschi regna per un breve periodo di tempo a Roma non lascia tracce permanenti: il racconto del persistere dei templi (o forse temenos) di Juventas e Terminus sul terreno dove sorgerà quello dell’etrusco Giove Ottimo e Massimo costituisce l’esempio della “resistenza” romana ai “nuovi arrivati” scesi dal nord.

 

  

1333 9 Cippo del Lapis Niger copertina

Fig. 9: Il cippo ritrovato da Giacomo Boni sotto il lastricato del Lapis Niger accanto a quello che ora si ritiene sia l’altare del Volcanal: l’iscrizione, in lingua latina, si sviluppa lungo le quattro facce del cippo (dalla relazione di Giacomo Boni in Notizie di scavi di antichità comunicate alla R. Accademia dei Lincei, Roma 1899, p. 153 fig. 2).

 

La vicinanza con altri e diversi popoli determina, come è normale, lo scambio di idee in un flusso che è però bidirezionale e non univoco: se i Latini e Roma danno all’Etruria i loro Dèi, a loro volta, ad esempio, ne mutuano alcuni rituali e usanze, come l’aruspicina e il fascio[17] dei littori che accompagnano i magistrati. Ma da qui a definire Roma e la sua civiltà come un prodotto costruito da Etruschi e Greci di strada ce ne passa.

 


PARTE II - ROMA, GRECIA ED ETRURIA: DIVINITÀ A CONFRONTO

Voler descrivere in modo completo il significato arcaico originale dei principali Dèi di Roma non è possibile in forma abbreviata, per cui per alcuni tra essi rimandiamo a quelle che abbiamo definito “le biografie degli Dèi”, pubblicate nella collana Roma e la Civiltà Mediterranea delle edizioni Simmetria[18], e agli excursus che li riguardano nel saggio sul Calendario e sulle feste romane Il tempo di Roma[19], mentre qui sarà presentato solo un breve riassunto dei principali elementi che differenziano alcune tra le divinità romane, greche ed etrusche sulla base di elementi letterari, filologici e archeologici.

Come diremo, la reale funzione arcaica degli Dèi di Roma può così essere sintetizzata: che Giano è signore del “passare”, spirituale o materiale che sia, Saturno l’ordinatore della realtà nel passaggio dall’indifferenziato di Giano alla civilizzazione delle popolazioni, Vortumno è il Dio del “mutare”, del fluire, del trasformare, Vulcano è il “Fuoco”, fuoco distruttore e fuoco generatore, Vesta il “luogo” dove si manifesta il Fuoco sacro, potenzialità di creazione che genera rimanendo vergine con l’azione creatrice del Fuoco, Marte è la “maschilità” che protegge e difende, Venere la “grazia” che l’uomo ottiene dagli Dèi, il punto di collegamento fra i due mondi, così come, per fare altri esempi, Apollo è il “medico”, colui che previene e ripara i danni che la creatura umana può subire, Cerere il “luogo” dove ciò che muore si tramuta in nuova vita, che siano i semi o gli Antenati, Ercole il guerriero vittorioso.

APOLLO, IL MEDICO

Il Dio originario di Roma[20] va tenuto distinto dall’Apollo greco, mentre alcune funzioni dell’Apollo etrusco, Aplu, lo rendono una figura intermedia tra Roma e Grecia, è guaritore ma anche divinatore, identificato con il sole ma con caratteristiche ctoniche assenti nell’Apollo greco.

A Roma Apollo non ha quella funzione profetica che costituisce la caratteristica probabilmente arcaica dell’Apollo greco (il Dio della profezia, nel periodo monarchico e alto repubblicano, è invece Fauno), come anche il carattere di musico e la sua identificazione come Helios; i miti concernenti l’Apollo greco sono del tutto sconosciuti nella Roma arcaica: i miti concernenti l’opposizione tra Apollo ed Herakles, per la cerva di Cerinea e il tripode della profetessa di Apollo, sono sconosciuti a Roma fino al I sec. a.C. ma presenti in Etruria (anzi, il primo mito costituisce il soggetto del frontone del tempio di Veio).

L’Apollo latino e romano è una divinità arcaica, il suo nome, secondo l’etimologia proposta da Macrobio, deriverebbe da apellens, “colui che respinge”, etimologia che sarebbe concorde con l’attività protettrice del Dio. Al nome dell’Άπόλλων veniva invece dato il significato di “divinità punitrice e vendicatrice” dal verbo ἀπόλλυμι, e aveva duplice aspetto, l’Apollo benevolo e protettore e l’Apollo oscuro e feroce, raffigurato come lo scorticatore di Marsia.

A Roma nei tempi più antichi Apollo è medico e al tempo stesso protettore e purificatore della città:

medico in quanto con le sue frecce aveva il potere di guarire o uccidere gli uomini, protettore dell’Urbe, come si vede in un episodio narrato a proposito dei Ludi Apollinares da Macrobio[21] e purificatore, in quanto il suo tempio era (almeno in età repubblicana) era uno dei punti di riferimento delle processioni dei novendiales, riti che si tenevano in occasione di gravi eventi che colpivano l’Urbe[22].

Apollo e Soranus Pater: gli Hirpi Sorani.

L’Apollo romano è assimilato a molte altre divinità, di cui la più interessante è il Soranus Pater, divinità falisca venerata sul monte Soratte, ai cui piedi si trovava il lucus Feroniae dedicato alla Dèa Feronia, forse la sua paredra.

Soranus è connesso alla funzione mantica e al lupo, animale sacro all’Apollo greco; suoi seguaci o forse suoi sacerdoti sono gli Hirpi Sorani, dove hirpus è termine falisco per lupo (ma anche il nome del popolo degli Irpini). Viene solitamente messo in rapporto con quello dell’etrusco Suri signore degli Inferi, e infatti ha anche caratteri di divinità ctonica (come Feronia), ma non possiamo fare a meno di pensare a un collegamento con l’antico Indiano sū́rya-, sū́ra-, “sole”, dalla radice indoeuropea *sāw-el[23], che si ritrova nel nome del Dio norreno Sur, una forma di Sole distruttore che annienterà la creazione con il fuoco. Per alcuni Autori invece esso potrebbe essere riportato al termine falisco sorex con significato forse di “sacerdote”[24], per cui hirpi sorani potrebbe tradursi sia “lupi di Soranus” che “sacerdoti-lupi” (non è certo che si tratti di un sacerdozio, perché per Servio il nome indicherebbe invece una popolazione, “un piccolo gruppo di immigrati provenienti dall’altra sponda del Tevere, dall’area parlante il sabellico[25]).

Il rapporto tra Apollo e Soranus si trova esplicitamente in Plinio (ma potrebbe essere molto più antico e risalire almeno al V secolo[26]), il quale scrive: “Nell’agro falisco vi sono alcune famiglie che sono chiamate Hirpi, le quali annualmente compiono un rituale in onore di Apollo al monte Soratte camminando sulla cenere della legna bruciata senza ustionarsi; per tale motivo hanno diritto per senatoconsulto all’esenzione dal servizio militare e da altri pesi[27].

Comunque, è da notare che la più antica citazione nel mondo latino del nome di Apollo proviene proprio dall’area falisca, in un’iscrizione del tempio maggiore di Colle di Vignale, il centro cultuale più antico di Falerii Veteres[28].

La connessione tra Apollo e Soranus porta anche a una connessione di Apollo con Dis Pater, in quanto, sempre secondo Servio, gli Hirpi Sorani erano devoti di Dis Pater: “Gli Hirpi Sorani sono così detti da Dite, perché Pater Soranus è chiamato Dite, e quindi gli Hirpi sono quasi i lupi del Padre Dite[29]. Questa sarebbe un’ulteriore conferma del carattere infero di Apollo-Sorano.

 

ERCOLE, IL POTENTE TRIONFATORE

Il suo nome, Hercules, indica come non possa trattarsi di una lati­nizzazione del nome greco di Herakles: questo è nome teoforico, “il vanto (o la gloria) di Hera”, che non può tramutarsi in Ercole per variazioni glottologiche difficilmente spiegabili; inoltre Ercole, essendo per i Romani, come per gli altri popoli italici, un Dio e non un uomo, non può portare un nome composto con quello di altra divinità[30]. A differenza dell’Ercole romano, il nome etrusco Herkle indica la diretta importazione dall’Herakles greco, che entrò in Etruria con tutti i miti che ne abbelliscono la figura, in particolare quelli concernenti le dodici “fatiche di Ercole”, miti assente nel Dio romano.

Che l’Ercole latino sia identificato come mercante è frutto dell’inesatta interpretazione di eventi o luoghi a lui connessi: i suoi templi più impor­tanti, l’Ara Maxima, l’Hercules Invictus presso l’Ara Maxima e l’Hercules ad Portam Trigeminam, erano situati nella zona del Foro Boario e quindi in prossimità del porto di Roma e quindi ciò sembrerebbe giustificare il titolo di Dio dei mercanti che gli viene affibbiato, questo perché non si ha presente il vero ruolo del Foro Boario, che già più di un secolo fa Nispi-Landi aveva correttamente individuato[31]. Per giustificare questa derivazione Dumézil scrive: “Portato sulle banchine di Roma da commercianti greci, Ercole per loro non era il dio del commercio, ma piuttosto dell’energia indispensabile per il suo esercizio[32]. Così Ercole è divenuto un doppione di Mercurius, il quale invece, come dice la radice stessa del suo nome da merx, è colui che propriamente si occupa delle merci e dei commercianti.

Ora anche l’archeologia ufficiale riconosce la particolare antichità del Foro Boario: “La tradizione antica, quasi unanime, fa risalire ad una remota antichità la frequentazione e l’occupazione del Foro Boario, al quale anzi si attribuisce un ruolo preminente anteriormente alla creazione dello stesso centro urbano[33].

Ercole è Dio così antico da comparire agli inizi stessi della storia di Roma: il suo rituale dell’Ara Maxima fondato al tempo di Evandro per i Romani era secondo solo alle are innalzate dagli Aborigeni a Saturnus e a Dis Pater, e la sua funzione è eminentemente guerriera e non mercantile, come testimonia Macrobio sulla base della dottrina dei Pontifices: “Tale Dio anche presso i Pontefici è identificato con Marte[34], il che è confermato dalla statua bronzea di Hercules Triumphalis sulla via del Trionfo, “la quale in occasione del trionfo veniva vestita dell’abito trionfale, e si trovava presso il tempio di Janus dedicato da Numa[35]. Infine il primo lectisternium di cui si abbia notizia, quello del 503 a.C., è offerto ad Ercole e ad altre divinità arcai­che, e non a Juppiter e Juno[36].

 

GIANO, IL PRIMO

Di Giano non esiste né in Grecia un Dio corrispondente, mentre in Etruria la divinità più prossima potrebbe essere Culśanś, il cui nome è derivabile da culs = porta, per cui sarebbe un Dio delle porte e la raffigurazione più antica (circa III sec. a. C.) è un bronzo reperito in uno scavo sotto la Porta Ghibellina di Cortona. A differenza del Giano romano, anziano e barbato, Culśanś è rappresentato come un giovane imberbe con due teste, nudo tranne i calcei e una collana, con la mano destra atteggiata a indicare forse il numero 365 secondo la loquela digitorum, il che lo mette in rapporto con l’anno come “Dio del passaggio del tempo”, e Plinio il Vecchio (Nat Hist XXXIV, 33) descrive una statua di Giano con le dita atteggiate in egual modo; solo in epoca più tarda si trova in Etruria la figura anziana e barbata del romano Janus[37]. Quella che potrebbe essere la sua controparte femminile, data l’etimologia, è Culśu, divinità dell’Oltretomba, il cui nome si trova sul Fegato di Piacenza. Culśanś è quindi una figura ambigua per certi versi somigliante a Giano ma del tutto diverso per figura e attributi e forse paredro di una divinità infera qual’è Culśu.

A Roma Giano è il primo e più antico degli Dèi il quale “su questa terra che ora vien detta Italia, come narra Igino sull’autorità di Protarco di Tralli, divideva paritariamente il potere con Camese, anch'egli indi­geno[38], sì che il paese era chiamato Camesena e la roccaforte Giani­colo[39], dove avrebbe fondato la Prima Roma, che ebbe nome Antipolis.

La sua raffigurazione come Dio bicipite è probabilmente da riferire ad una fase preindoeuropea di occupazione dell’Italia[40], quindi divinità autoctono, e la sua etimologia ne indica la funzione, in quanto Janus si rapporta alla radice indoeuropea *ya con significato di “passaggio” (sanscrito yana = la via, latino ire = andare, come già aveva scritto Macrobio[41]). È il Dio del passaggio, dell’entrare e dell’uscire dal mondo fisico come da quello spirituale, colui che conosce il passato ed il presente, signore dei prima, mentre Giove è signore dei summa[42]. Il suo sacerdote è il Rex Sacrorum, il primo dei sacerdotes, il quale ha nelle cerimonie il posto e i riti che erano propri del Re perché Giano è per eccellenza la fonte della regalità e l’archetipo del Re, funzione che più tardi passerà a Juppiter.

In quanto primo e più antico, Giano è “colui che precede tutti gli altri Dèi, Ja­nus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione[43], forse in origine ritenuto dai Romani come creatore dell’esistente, considerato che Ovidio dice di lui: “Io che ero stato mole rotonda ed informe / presi l’aspetto e il corpo convenienti ad un Dio[44], passaggio dal non-differenziato al differenziato che indica la manifestazione della divinità in una forma comprensibile per l’uomo. Per inciso, le parole di Ovidio sembrano esprimere un concetto molto simile al Big Bang degli astrofisici.

La capacità generatrice di Giano è connessa alla sua identificazione con il Sole e con il Fuoco cosmico grazie al quale viene in essere la creazione: “Certuni vogliono dimostrare che Giano è il sole, e quindi ‘gemino’ o duplice in quanto signore di ambe­due le porte celesti: nascendo apre il giorno e tramontando lo chiude… La sua statua tiene nella mano destra il numero 300 e nella sinistra il 65 a simbolo della durata dell'anno, dominio specifico del sole[45].

MARTE, IL PADRE E IL CUSTODE

Se Venere è figura del potere del Femminile[46], Marte è espressione del potere al maschile: Dio antico e comune a tutti i popoli latini, presso i quali, a quanto è dato sapere, si ritrovano frequentemente sia il Flamen Martialis che i Sacerdotes Saliares che gli sono propri[47]; egli è in origine aniconico, rappresentato da una lancia o da un giavellotto, e solo più tardi, dopo i contatti con Greci ed Etruschi, viene raffigurato con sembianze umane.

Il supposto corrispondente greco è Ares, derivante dal greco αρή, “distruzione”, quindi “il Distruttore”, qualifica assente, come si dirà, nel Marte romano. In Etruria l’identificazione di Marte con Maris è incerta, in quanto Maris sembra essere una divinità connessa all’iniziazione degli adolescenti mentre la funzione guerriera è propria di Laran, però il Marte romano è per il tramite dei suoi Sacerdotes Saliares un Dio iniziatore degli adolescenti e quindi gli Etruschi potrebbero aver recepito Marte in questa specifica qualità, separando la funzione di iniziatore o di iniziando che sembra sia propria di Maris da quella di guerriero rimasta a Laran, divinità la cui festa, secondo la Tabula capuana, cadeva alle Idi di Marzo (Marte era celebrato lungo tutto il mese con diverse cerimonie) e possessore del fulmine[48], così come nel Carmen saliare Marte è detto “Dio dei tuoni”.

Tutte le varianti del nome di Marte nelle diverse lingue latine (Mars, Mamers, Marmar) sono riportabili ad un *Mauors- derivante a sua volta dalla radice indoeuropea *mar- da cui il sanscrito marikis, lucente[49], per cui Mars è “il Dio splendente”, una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce”[50], titoli solitamente propri di una divinità uranica.

Non è un Dio guerriero, come lo è divenuto a causa della interpretatio graeca che lo ha identificato con Ares: Marte è una divinità celeste che esplica la sua attività sul mondo creato mediante il mantenimento dell’ordine, se necessario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che è male, i nemici umani ma anche le forze negative o comunque pericolose: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla na­tura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico[51].

Que­sto lo si vede nel sacrificio privato del suovetaurilia quale custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore, funzione nella quale è chiamato a tenere lontane le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole[52].

Altra azione del Dio è la sua tutela sui giovani maschi, che vengono iniziati come guerrieri sotto la sua potestà e per tale motivo egli è anche la guida divina del ver sacrum, l’emigrazione dei giovani di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacra­zione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza af­finché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato e l’ordine venga così ricostituito.

SATURNO, IL CIVILIZZATORE

Saturno è il Dio della civilizzazione, non è signore del tempo come il greco Kronos e non ne condivide le caratteristiche, quali ad esempio il divorare i suoi figli.

A Saturno venne dedicato alle pendici del Campidoglio il primo altare di Roma al tempo della Seconda Roma, Saturnia, altare a lui dedicato dagli Aborigeni che avevano cacciato i Siculi dalla regione[53]. Il suo nome trae origine dalla radice indoeuropea *sat[54], da cui deri­vano in latino satis e satur, termini indicanti pienezza e soddisfazione, conseguenti all’abbondanza dei campi coltivati grazie alle tecniche da lui insegnate agli uomini, tra cui l’uso del concime[55], e sates[56], i campi seminati, in quanto a lui si attribuiva la conoscenza delle tecniche agricole: “A lui si fa risalire la pratica del trapianto e dell'innesto nella coltivazione degli alberi da frutta e la tecnica di ogni altro procedimento agrario[57]. Da qui trae origine la rappresentazione di Saturno con il falcetto (che diventerà la falce quando Saturno sarà confuso con il greco Kronos), per Macrobio[58] donato dallo stesso Giano al Dio, e segno della ricchezza, perché il falcetto è in rapporto non con la semina dei campi ma con la raccolta di quanto da essi prodotto.

In un certo senso Saturno dà inizio al tempo, in quanto, se Giano è “al di fuori della storia” ed è colui che dà inizio[59] al processo che porterà alla Roma storica assistendo immutabile e imperturbabile agli avvenimenti con una presenza costante ma “al di sopra delle parti”, Saturno è, per così dire, all’inizio della “storia mitica”[60], poiché costitui­sce il principio della civiltà, ed è anche alla fine del tempo, come dimostra la sua posizione calendariale con i Saturnalia posti al centro del mese di Dicembre e subito prima delle celebrazioni dedicate alla Dèa che conclude l’anno, Angerona.

Sua è una “qualità” distruttiva chiarita da Gellio, il quale riferisce[61] di aver trovato nelle preghiere pubbliche riportate nei Libri Pontificales (“conprecationes Deum immortalium, quae ritu Romano fiunt”) e in molte antiche orazioni il nome di una “qualità del Dio”, Lua Saturni, cioè la “Dissoluzione di Saturno”, chiamata da altri Autori Lua Mater[62]. La “qualità” di un Dio corrisponde a una sua fun­zione considerata come divinità a se stante, così come Salacia è lo “Scaturimento” delle sorgenti sotterranee di Nettuno, Neriene Martis è la “Virilità” di Marte, ecc.: questa “qualità” di Saturno entra in modo particolare in azione nella cerimonia con cui si distruggevano le armi prese al nemico.

Può sembrare a prima vista strano che la “dissoluzione” possa essere la “qualità” di una divinità apparentemente pacifica e civilizzatrice per eccellenza, ma Saturno è in realtà un Dio “pericoloso” per il suo essere, come si è detto, il “Dio della fine” temporale dell’anno che coincide con la fine di ogni legge posta a stabilire i limiti della convivenza civile, lasciando aperta la via alla libertà assoluta[63], libertà appunto pericolosa perché può essere mal utilizzata da chi non sa usarne nel modo dovuto.

VENERE, LA GRAZIA DIVINA

Venere è forse la divinità che più di tutte ha subìto gli effetti negativi dell’interpretatio graeca e dei contatti tra Roma e le culture del Vicino e del Medio Oriente, con uno scadimento delle sue funzioni da Dèa della Grazia divina e signora della Vittoria e della regalità al ruolo di protettrice degli accoppiamenti, con tutte le varianti erotiche connesse, dal matrimonio alla prostituzione.

Venere non è Afrodite, “la nata dalla spuma” generata dai testicoli di Urano recisi dal figlio Kronos, e nel nome della Dèa latina ritroviamo il suo più arcaico e profondo significato: non da vincire = “avvincere, unire”[64], etimologia tarda che la collega al mondo dell’eros, il suo nome va riportato ad un neutro astratto *venus sostantivizzato al femminile, il cui significato è espresso dal verbo venerari, come chiarisce Dumézil[65]: “Venerari è ‘cercare di piacere’, ‘rendere dei favori al Dio’, sperando di riceverne in cambio, senza negoziazione, un’altra forma di cortesia, la venia divina. [Venerari] non designa propriamente un atto religioso di amore, di bhakti: la pietà romana non comporta effusioni”, e venerari è letteralmente “esercitare la venus” nei confronti di un Dio, non secondo quel rapporto che potremmo chiamare “giuridico” che lega il romano alle sue divinità né tanto meno fideistico ma chiedendo ad esse un favore, una buona disposizione verso di sé.

Venere è la signora della Grazia come potere magico (venia) che viene incontro alle richieste dei suoi fedeli, e questa forma del potere si rivela nella parola venenum (da venes-uom), che prima di divenire “veleno” nell’accezione attuale del termine è in realtà “filtro”, significante l’azione oscura della pozione magica e per esteso la modalità misteriosa con cui essa agisce. Questa azione di Venere è quella che altrove abbiamo chiamato “il potere venusiano”, che costituisce l’aspetto opposto alla modalità quasi contrattuale con la quale il romano chiede al suo Dio di realizzare ciò che domanda, il do ut des in cui si ha uno scambio potremmo dire alla pari tra uomo e divinità.

Essa è la personificazione del potere femminile di cui parla Valeria alle donne romane per fermare Coriolano nella sua marcia contro la città: “[Noi donne] possediamo una forza che non è posta nelle armi o nella forza delle mani, da questa ce ne esenta la natura, ma nella benevolenza e nella persuasione[66].

 

VERTUMNO, L’ETERNO MUTAMENTO

Vertumno o Vortumno, considerato uno degli Dèi “minori” di Roma (se mai un Dio può essere definito minore), è un Dio così arcaico che di lui poche tracce rimangono nell’archeologia, nella letteratura e nella religione di Roma, tanto da poter pensare che si tratti di quello che gli antropologi definiscono un deus otiosus, una divinità di tale antichità che le sue funzioni sono state trasferite ad altri Dèi e di lui è rimasto il ricordo di poco più che il nome.

Il suo nome secondo Devoto[67] sarebbe passato dal vocabolario protolatino nel vocabolario protoetrusco in una fase antichissima di formazione del linguaggio, dando origine a Voltumna o Veltumna, il Dio venerato nel Fanum Voltumnae a Volsinii, mentre nel mondo greco non esiste una divinità a lui corrispondente (il semidio Proteo è un “mutaforma” ma ha caratteri del tutto diversi da Vertumno).

Ovidio in Metamorfosi XIV e Properzio in Elegie IV, 2 ci dànno gli elementi per comprendere chi sia in realtà Vortumno, un Dio venerato in Roma dal tempo degli ultimi re di Alba Longa della stirpe di Ascanio[68], in origine aniconico[69], non una divinità agricola dell’Autunno come si crede ma il signore dell’eterno mutamento[70]. Il suo nome deriva, secondo Devoto, dalla radice verbale indoeuropea *wert, che dà in latino vertere e vortere “volgere” e in antico indiano parole con significato di “essere” ma anche “esistere”; secondo Radke[71] invece il nome deriverebbe da *vorta, *ur-tā, o da *vortus, *or-tu, indoeuropeo *uŏr, *uĕr, che si ritrova in parole aventi significato di “amicizia, sicurezza, unione fra gli uomini e gli Dèi” e quindi “adempimento, esaudimento, cerimonia religiosa”, per cui Vortumno sarebbe “colui che porta o avvia il *vorta (compimento, esaudimento) del rito”, funzione che lo potrebbe collegare a Giano in quanto questi è il primo Dio invocato nelle formule rituali.

La capacità di Vortumno di “vertere in omnia”, secondo un’altra etimologia del suo nome come Vert-umnus = vert-(in)-omnis[72], non comprende solo la sfera degli esseri ma si estende anche ad una funzione più ampia, quella di tutela sul buono e cattivo andamento delle fortune dell’individuo. Infatti Orazio[73] ci conserva un curioso modo di dire latino: “È nato con tutti i Vertumni sfavorevoli”, chiarito da Elio Donato[74], grammatico del IV secolo d.C., il quale nel suo commento all’opera di Terenzio spiega che la frase “Di bene vertant”, “che gli Dèi la mandino buon fine”, si spiega con il fatto che “il potere che gli eventi vadano nell’uno o nell’altro modo era per gli antichi una prerogativa di Vortumno”, perché “il Dio che presiede agli eventi affinché vadano secondo i desideri di ognuno è Vortumno”.

 

VESTA, IL FUOCO SACRO

La derivazione di Vesta dalla greca Hestia risulta contraddetta dall’esame etimologico dei loro nomi: mentre Hestia deriva da una radice *sueit con significato di “bruciare”, per cui Hestia è *suit-tia “il fuoco che arde (nel focolare)”, Vesta è da *wes[75], “abitare, dimorare” a sottolineare che essa è la divinità della casa stessa, la quale ha il suo centro sacro nel focolare.

Il Giannelli, a evidenziare questa differenza tra le due Dèe, scrive che “sarebbe vano tentare qualsiasi ravvicinamento tra il servizio del focolare di stato in Roma e quello dei Pritanei della Grecia … Le dissomiglianze fra il culto di Vesta presso il popolo Romano e quello delle κοιναι εστιαι nei Pritanei delle città greche sono oltremodo notevoli[76].

Vesta è divinità specifica del mondo religioso dei Latini, i quali, soli tra tutte le popolazioni di ceppo indoeuropeo migrate nella penisola italica, ebbero e conservarono fino ai tempi storici il sacro culto del focolare, assente tra gli altri italici come presso i germani[77], e un corpo di sacerdotesse che di esso fossero le custodi. È l’ultima personificazione divina di una serie di Dèe arcaiche venerate fin dalla più remota antichità, alle quali era attribuita una “specializzazione” del ruolo sacrale: “Vesta appare come la traduzione in culto pubblico e civico di una più antica divinità … culto privato e segreto della casa del re: il culto di Ops[78].

Vesta è l’ultima divinità romana a rimanere aniconica, come lo erano state tutte le altre in precedenza; come scrive Ovidio: “Fui a lungo così stolto da pensare esistesse una statua di Vesta, / ora ho imparato che nulla vi è sotto il tetto emisferico [del suo tempio]”[79].

Nelle preghiere e nei sacrifici il primo posto spetta a Giano, che il Baistrocchi ritiene il suo paredro[80], e l’ultimo a Vesta[81], in quanto il primo apre, essendo questa in modo eminente la sua funzione, e la seconda, punto di contatto tra il mondo degli Dèi e quello degli uomini, chiude ogni atto religioso.

VULCANO, DISTRUTTORE E GENERATORE

Anche nel caso di Vulcano i suoi caratteri originari sono andati perduti con il sopraggiungere della interpretatio graeca con cui Vulcano venne identificato con Efesto diventando un Dio di livello inferiore, il fabbro zoppo al servizio degli altri Dèi.

La connessione di Vulcano[82] con il fuoco è insita nell’etimologia del suo nome: gli Autori moderni lo rapportano alla radice *ulka da cui “tizzone”[83], sottolineandone il carattere igneo; Varrone[84] invece lo fa derivare da fulgur e fulmen: “Vulcano è detto così dalla grande forza e violenza del fuoco”, significato che ben lo connette alla furia vulcanica ma anche al suo essere un “signore dei fulmini” come Giove e Summano, mentre lo Skeat[85] lo fa derivare dal sanscrito varchar con significato di “luminoso”.

Il “fuoco” di Vulcano è un fuoco al tempo stesso protettore e distruttore, il che lo rende un Dio “pericoloso”, ed infatti a lui era stato dedicato un altare antichissimo da Tito Tazio[86] nell’area del Foro Romano prima che esso esistesse, quindi fuori dell’abitato della Roma romulea. Sull’ara Volcani (identificata dal Coarelli[87] con la zona in precedenza chiamata Lapis niger) fin dall’età monarchica venivano bruciate le armi prese al nemico[88] ma in particolare quelle di chi si era offerto nella devotio quando colui che si era votato alla distruzione del nemico offrendo la propria vita era invece sopravissuto all’impresa[89]: qui si rivela il doppio carattere di Vulcano, la cui capacità distruttiva per mezzo del fuoco doveva essere rivolta contro l’esterno, cioè contro il nemico, come anche, sul piano magico, contro le armi “pericolose” del devotus, “pericolose” perché caricate magicamente di volontà distruttiva.

Accanto alla funzione di protettore “magico” di Roma Vulcano aveva presumibilmente anche quella di iniziatore dei giovani, come si potrebbe dedurre dal fatto che il suo omologo greco Efesto era considerato il padre dei Cabìri, degli Onnes e dei Calìbi, “gruppi di personaggi mitici … in rapporto assai stretto con il mondo ctonico (venivano presentati in caverne), con i metalli che lavoravano, con la musica e la danza, con la magia, con i culti misterici e i riti iniziatici giovanili[90].

Vulcano è il Dio del Fuoco sotterraneo, il fuoco dei vulcani ancora attivi al tempo della Roma storica, fuoco ctonico e distruttivo da placare con offerte[91], ma anche fuoco vitale e generatore, potere che anima il cosmo come il singolo individuo e lo rende vivente (il freddo è attributo di ciò che è morto), sul piano metastorico un Dio della guerra, della vittoria e della regalità[92].

 


TESTI, ARTICOLI E SITI WEB CONSULTATI

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[1] Carmine Ampolo, Presenze etrusche, koiné culturale o dominio etrusco a Roma e nel Latium vetus in età arcaica?, in “Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina”, vol. XVI “Gli Etruschi e Roma”, Atti del XVI Convegno Internazionale di studi sulla Storia ed Archeologia dell’Etruria (a cura di Massimo Della Fina, Roma 2009, pp. 9-42.

[2] Marcello de Martino, L’identità segreta del Nume tutelare di Roma. Un riesame dell’affaire Sorano, Roma 2011.

[3] Massimo Pallottino, Etruscologia, Milano 19847, pp.489-494.

[4] Mario Torelli, La forza della tradizione, Milano 2011, pp. 39-57.

[5] Come abbiamo più volte sottolineato in altri lavori, il termine “mito” va inteso nel suo reale significato, non “fantasia”, accezione che viene data nell’àmbito della cultura moderna per ignoranza della sostanza delle parole, ma secondo la definizione di Attilio Mordini: “Il termine mythos significa, almeno nel senso originario, parola, parola che si manifesta dal silenzio nell’atto segreto dell’iniziazione ai Misteri; e cela, ma al tempo stesso porge discretamente e rivela, la verità che nel gran silenzio primordiale è racchiusa” (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, Vibo Valentia 1979, p. 10).

[6] Torelli, La forza della tradizione, p. 58.

[7] Giovanni Colonna, Gli scudi bilobati dell'Italia centrale e l'ancile dei Salii, in “Archeologia Classica”, vol. 43/1 (1991), “Miscellanea Etrusca e Italica in onore di Massimo Pallottino”, pp. 55-122, p. 68 (https://www.jstor.org/stable/44368008, consultato 11 Aprile 2024).

p. 63.

[8] Giosuè Auletta, Santa Palomba Albunea. Relazione storica, 2019, p. 7.

[9] Mauro Menichetti, La guerra, il vino, l’immortalità, in Kulte ‒ Riten ‒ Religiose vorstellungen bei den Etruskern, Atti I Congresso internazionale Istituto Nazionale di Studi etruschi e italici, Wien 4-6 Dicembre 2008, a cura di Petra Amann, Vienna 2012, pp. 393-406, pp. 396-397.

[10] La fanciulla nata con Roma (a cura di Francesco Capanna e Stéphane Verger), catalogo della mostra del restauro della tomba 359 della necropoli di Castel di Decima tenutasi a Roma 13 Giugno-8 Ottobre 2023, Roma 2023, p. 22.

[11] Torelli, La forza della tradizione, p. 61.

[12] Mario Torelli, La “Grande Roma dei Tarquini”, continuità e innovazione nella cultura religiosa, in “Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina”, vol. XVII, Roma 2010, pp. 305-335, pp. 312-314. L’autore precisa che non si trattò di una supina accettazione del mondo religioso greco ma che sia i Latini che gli Etruschi adattarono il sistema religioso greco e “questi elementi di origine greca vengono ben presto a scontrarsi con precise e invalicabili limitazioni frapposte dalla cultura ‘nazionale’ all’influenza di modelli esterni”, che concernono non solo aspetti materiali, come la persistenza di vasellame sacro di tipo arcaico, ma anche la concezione stessa di alcune forme rituali quali l’auspicium e l’augurium.

[13] Ampolo, Presenze etrusche, p. 11 e note 3 e 4.

[14] Placca in avorio a forma di leone, recante l’iscrizione: “Mi (ha fatto) Araz Silqetanas per Spurianas” (Ampolo).

[15] Ampolo, Presenze etrusche, p. 16.

[16] La situazione archeologica è in realtà complessa: un primo abitato costituito da almeno cinque capanne era situato sul Palatino nord-occidentale (in corrispondenza della c. d. “capanna romulea”) e di fronte ad esso è stata definita l’esistenza di una necropoli, già scavata dal Vaglieri nel 1909, di cui però non è possibile determinare l’età per l’assenza di reperti databili (Stella Falzone, L’abitato protostorico dell’area sud-ovest del Palatino, in “Mites de fundació de ciutats al món antic”, Atti dei Colloqui di Barcellona, Barcellona 2002, pp. 269-282), ma sarebbe logico pensare che a una successiva espansione del primo nucleo la necropoli sia stata abbandonata e spostata alle pendici sud-orientali verso la fine della Fase laziale IIA, cioè circa 830-800 a. C., quando il primo abitato iniziò a diffondersi nella valle del futuro Foro Romano e vennero costruite le “mura romulee” portate alla luce dal Carandini (Francesco Quondam, Rinvenimenti di età protostorica sulle pendici nord-orientali del Palatino, in “Scienze dell’Antichità”, 17, 2011, pp. 621-642, p. 636). 

[17] Così testimoniano Dionigi di Alicarnasso, Ant. Rom., III, 59-62, e Tito Livio, Ab Urbe Condita I, 8.

[18] Paolo Galiano, Vesta, il Fuoco di Roma, Roma 2011; id., Mars Pater, Roma 2014; id., Venere, la Grazia divina, Roma 2014; id., Diana e Apollo, la selva e l’Urbe, con Massimo Vigna, Roma 2015; id., Vulcano, il Fuoco generatore, Roma 2023.

[19] Paolo Galiano e Massimo Vigna, Il tempo di Roma, Roma 2013.

[20] Segnaliamo su Apollo il fondamentale testo di Jean Gagé, Apollon romain: essai sur le culte d'Apollon et le developpement du “ritus Graecus” á Rome des origines á Auguste, Paris 1955. L’Autore studia il passaggio dall’Apollo medico all’Apollo della vittoria fino all’Apollo della pace augustea, tesi sulla quale ci troviamo in linea di massima concordi. Sembra prevalere nell’impostazione del Gagé una visione squisitamente politica della storia della religione romana, per cui, ad esempio, l’utilizzo dei Carmina Marciana, di cui diremo a proposito dei Ludi Apollinares, sarebbe stato un vero e proprio falso voluto dalla gens Marcia per sottolineare la propria discendenza da Anco Marcio a scopi politici.

[21] Macrobio, Sat. I, 17, 5–25.

[22] Carandini, La nascita di Roma, p. 418 nota 128.

[23] Ralph Lilley Turner, A comparative dictionary of the Indo-Aryans languages, London 1962-1966 (revisione 2006) p. 782 s. v. “sūˊra”.

[24] Lily Ross Taylor, Local cults in Etruria, Roma 1923 p. 90. Gabriella Giacomelli, La lingua falisca, Firenze 1963 p. 28 documenta sorex come titolo sacerdotale presente nelle iscrizioni funerarie di Falerii Novi. Gabriel Bakkum, The latin dialect of the ager faliscus, Amsterdam 2009 vol. I p. 33 ritiene sorex una parola falisca arcaica e desueta, forse collegabile ad un *sor-ag-s con significato di “sacerdote estrattore delle sorti” (p. 196), che si collegherebbe alla funzione mantica di Soranus pater.

[25] Servio, Ad Aen XI, 785. Bakkum, The latin dialect of the ager faliscus p. 331, ritiene che il termine hirpus derivi dal protosabellico *herpo, protoindoeuropeo *gherskuo (p. 98), da cui la possibile origine sabellica del gruppo degli Hirpi (a Roma si riscontra il gentilizio Hirpius, p. 265).

[26] Carlo Donà, Per le vie dell’altro mondo: l’animale guida e il mito del viaggio, Soveria Mannelli 2003 p. 54 nota 77.

[27] Plinio, Hist. nat. VII, 19.

[28] Bakkum, The latin dialect of the ager faliscus, p. 33.

[29] Servio, Ad Aen XI, 785.

[30] Mario Attilio Levi, Ercole e Roma, Roma 1997, p. 25.

[31] Ciro Nispi-Landi, Roma monumentale – Il Settimonzio sacro, Roma 1891, pp. 236–247: nel Foro Boario, scrive l’Autore, “si trovavano que’ famosi monumenti in ispecie l’Ara Massima, il simulacro nazionale, il bove, il sacello ed il tempio di Ercole; tutto lo spazio formava un templum, cioè ‘area inaugurata’ … era altresì il luogo più elegante e più ricercato: più elegante, perché frequentatissimo e attorniato da taberne di orefici, argentieri e negozianti di valori… e ricercato perché le case che vi si trovavano valevano a preferenza di altre posizioni”. Queste considerazioni rendono falsa l’opinione di chi ritiene che il Foro Boario fosse un semplice mercato di buoi: “[Queste] cose non potevano sopportare il sozzume del mercato dei bovi! Oh! ameni archeologi! chiappagranchi! ... Credettero che fosse il Foro mercato dei buoi, commisero un errore madornale, pronunziarono una solenne bugia, uno scer­pellone … la deplorevole falsa asserzione è smentita non solo dalla vetustà e santità del luogo, dalla presenza del simulacro santo patrio del Bove, da cui Romolo parte e a cui torna per la delimitazione del territorio… ma smentito dai monumenti e da tutto quanto ho accennato testé, dai sacrifici per placare le anime sdegnate dei padri o Mani, dai prodigi avvenuti e dalla dimora di nobili persone”, tra cui il fratello di Cicerone, che spese una fortuna per comprare la casa in questo posto.

[32] Dumézil, La religione romana arcaica, p. 381.

[33] Filippo Coarelli, Il Foro Boario – Dalle origini alla fine della Repubblica, Roma 1988, p. 107.

[34] Macrobio, Saturnalia III, 12, 5.

[35] Plinio, Nat Hist XXXIV, 33.

[36] Livio, Hist. V, 13: “I Duumviri addetti al sacro placarono nel modo più fastoso Apollo, Latona e Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno con il primo lectisternium eseguito nell’Urbe, della durata di otto giorni. Questo fu celebrato anche in modo privato”. Gli Dèi nominati da Livio sono tutti precedenti l’introduzione di Juppiter, Juno e Minerva al vertice del pantheon romano, i quali compaiono nel rito del lectisternium solo nel 217 a.C. dopo la sconfitta al lago Trasimeno nella guerra contro Annibale, rito da cui Ercole è escluso (Livio, Hist. XXII, 10: “A cura dei Decemviri sacrorum vennero offerti per tre giorni i lectisternia: si prepararono sei letti, uno per Juppiter e Juno, il secondo per Neptunus e Minerva, il terzo per Mars e Venus, il quarto per Apollo e Diana, il quinto per Volcanus e Vesta, il sesto per Mercurius e Ceres”).

[37] Si veda: https://www.museoetru.it/etru-a-casa-aiser/gennaio-e-il-dio-culsans, consultato 21/03/24).

[38] Camese per Macrobio è di sesso maschile, mentre per molti autori latini è una regina, divenuta successivamente moglie di Janus.

[39] Macrobio, Sat. I, 7, 19.

[40] Georges Dumézil, Jupiter Mars Quirinus, Torino 1955, ritiene che “la sua figura bifronte può essere l’utilizzazione acciden­tale di un tipo plastico mediterraneo” (p. 341); non vi sono nelle tradizioni indoeuropee figure di Dèi bicipiti, salvo la Dèa Aditi la quale è detta “dai due volti” perché è posta all’inizio e alla fine di ogni sacrificio (Georges Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 293).

[41] Macrobio, Saturnalia I, 9, 11: “Janus da ire, perché il mondo va sempre muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna”. Prima dell’affermarsi di questa tesi etimologica, Janus era fatto derivare da una radice *dei, *dia con significato di “brillare”, da cui sarebbero derivati (D)ianus, Di(vi)ana-Diana, tesi successivamente rigettata per motivi etimologici (Nuccio D’Anna, Il Dio Giano, Scandiano 1992, p. 23) e che si basava su di una affermazione di Nigidio Figulo riportata da Macrobio, Saturnalia I, 9, 8: “Nigidio dichiarò espressamente che Apollo è Giano e Diana è Giana, cioè Iana divenne Diana per l'aggiunta della lettera d che spesso viene premessa alla i per eufonia”.

[42] Così Varrone secondo la citazione di Agostino in De civ Dèi VII, 9.

[43] Marco Baistrocchi, Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, Genova 1987, p. 190; per il complesso argomento del significato di Giano e del suo rapporto con Vesta rimandiamo ad un’attenta lettura del capitolo V del testo di Bai­strocchi pp. 188–248 e a Paolo Galiano, Il Fuoco di Vesta, Roma 2011.

[44] Ovidio, Fasti I, vv. 111-112.

[45] Macrobio, Saturnalia I, 9, 9–10.

[46] Roma conosce molte e differenti espressioni del “potere femminile” a dimostrare, se ce ne fosse la necessità, come la sua religione ben sapesse che maschile e femminile sono due forme di espressione dell’unica Realtà superiore, che non possono prevaricare l’una sull’altra degenerando in uno stupido maschilismo o femminismo, deteriori e soprattutto inutili.

[47] Sono conosciuti a Tivoli i Saliares di Ercole, ma Ercole non è una divinità del commercio, come affermano gli autori moderni, ma un Dio guerriero come Marte. Scrive infatti Macrobio: “Tale Dio anche presso i Pontefici è identificato con Marte” (Saturnalia III, 12, 5).

[48] Nancy de Grummond, Thunder versus Lightning in Etruria, in “Etruscan Studies”, 19, 2 (2016), pp. 183-207.

[49] Charlton Lewis, Charles Short, A Latin dictionary, Oxford 1879, sub voce.

[50] Frammento 2 del Carmen Saliare: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem”. Il testo, scritto in latino arcaico risalente almeno al IV sec. a.C., può essere approssimativamente così tradotto: “Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuonare”.

[51] Dumézil, Jupiter Mars Quirinus, p. 194.

[52] Ancora oggi la maggior parte degli Autori considera Marte una divinità agricola, pregiudizio al quale già si era opposto Dumézil in particolare in Jupiter Mars Quirinus.

[53] Per alcuni Saturno è un Dio non degli Aborigeni ma dei Siculi: Giuseppe Brex, Satur­nia Tellus, Roma 1944 p. 23, riporta l’etimologia stessa del nome dei Siculi alla sikala, il falcetto di Saturno.

[54] Guido di Nardo ne Il preistorico culto infero del Vulcano laziale, Velletri 1942, p. 33 dà una particolare etimologia del nome: “Saturno (da Sat = il saturo, Ur = il fuoco), figlio del fuoco celeste Ur-an e di Vesta, il focolare terrestre” (carattere diritto nel testo).

[55] Per tale motivo Saturno era identificato con Sterculius o Stercutus, il cui nome deriva dallo “sterco” come concime per i campi.

[56] Varrone, De lingua latina V, 64.

[57] Macrobio, Saturnalia I, 7, 25.

[58] Macrobio, Saturnalia I, 7, 27.

[59] Il Carmen Saliare chiama Janus con l'appellativo di Consivius, a indicare che, come “se­minatore”, egli rappresenta la causa prima della generazione.

[60] Che con Saturno abbia inizio la storia lo dimostrava secondo Macrobio, Saturnalia I, 8,4 la pre­senza delle statue di Tritoni sul frontone del suo tempio: “Sul frontone del tempio di Saturno furono posti dei Tritoni con trombe, perché dai suoi tempi ad oggi la storia è chiara e quasi parlante, mentre prima era muta, oscura e sconosciuta, come dimostrano le code dei Tritoni immerse nella terra e nascoste”. La connessione di Saturno con i Tritoni è per noi un ulte­riore simbolo della sua attività ordinatrice sulla creazione, raffigurata nel dominio del Dio sulle Acque simbolo della potenzialità generatrice; per questo i Romani lo consideravano il più grande degli Dèi, come scrive Macrobio, Saturnalia I, 7, 16: “Voi Romani celebrate Saturno con grandissimo onore, forse più di tutti gli altri dèi”.

[61] Aulo Gellio, Noctes atticae XIII, 23, 2. Così ne scrive Dumézil,  La religione romana arcaica, p. 347: “Anteriori ai libri dei Pontefici, tanto antiche che il loro significato risulta talvolta incerto, sono le Entità femminili che le ‘comprecationes Deum immortalium, quae ritu romano fiunt’ congiungono a numerose divinità importanti, delle quali esse esprimono, sotto un certo aspetto, una fondamentale modalità d’intervento [quella che noi chiamiamo “qualità”]: ‘Lua Saturni, Salacia Neptuni, Hora et Virites Quirini, Maia Volcani, Herie Junonis, Moles et Nerio Martis’. Il medesimo processo si nota anche nel rituale umbro di Iguvium (Tursa Çerfia)”.

[62] Tito Livio, Hist. VIII, 1: “Il Console Gaio Plauzio [sconfitti i Volsci] … diede le armi dei nemici a Lua Mater”.

[63] Ricordiamo che nei Saturnalia i servi prendevano il posto dei padroni ed era lecito il gioco d’azzardo, altrimenti severamente proibito per tutto il resto dell’anno.

[64] Varrone, De lingua latina, V, 10: “Non quod vincere velit Venus, sed vincire”. 

[65] Dumézil, La religione romana arcaica, pp. 366–367. 

[66] Dionigi d’Alicarnasso, Ant. Rom., VIII, 39, 2.                                                                                                

[67] Giacomo Devoto, Nomi di divinità etrusche III: Vertumno, in “Studi Etruschi” n° 14, 1940, pp. 275-280; Giorgio Ferri, Voltumna-Vertumnus, in Ou pan ephemeron. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini (a cura di C. Braidotti, E. Dettori e W. Lanzillotta), vol. 2, Roma, Quasar, 2009 pp. 993-1009, p. 994.

[68] Così Ovidio.

[69] Properzio: “Non m'allieto d'un tempio d'avorio, / è sufficiente per me poter vedere il Foro romano… / Tronco d’acero ero, frettolosamente sgrossato con la roncola, / un povero Dio nell’amata Urbe già prima di Numa.

[70] Sempre Properzio: “Sono chiamato il dio Vertumno per la deviazione del fiume; / oppure poiché v'è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni, / credete che da qui derivi il culto del Dio Vertumno…/ Tu, menzognera fama, mi nuoci; il significato del mio nome è diverso: / credi soltanto al Dio che parla di se stesso. / La mia natura è adatta ad assumere tutte le forme”.

[71] In Daniel Harmon, Religion in the Latin Elegist, in Band 16/3. Teilband Religion (Heidentum: Römische Religion, Allgemeines [Forts.]), a cura di W. Haase, Berlin-Boston 1973, p. 1963.

[72] L’interessante etimo è stato proposto da Maurizio Bettini, Vertumnus: a God with no identity, in “I quaderni del Ramo d’Oro on-line” n° 3 (2010), pp. 320-33, p. 324.

[73] Orazio, Sat II, 7, 24-25.

[74] Queste osservazioni sono basate sul lavoro di Bettini, Vertumnus.

[75] Giacomo Devoto, Origini indoeuropee - Il lessico indoeuropeo, Firenze 1962, Tabelle, n° 441.

[76] Giulio Giannelli, Il sacerdozio delle Vestali romane, Firenze 1913, p. 27 e nota 6. Non ostante sia stato scritto ormai più di un secolo fa, il testo di Giannelli rimane molto interessante per il copioso materiale in esso contenuto.

[77] Giannelli, Il sacerdozio delle Vestali romane, p. 13 nota 1.

[78] Carandini, La nascita, p. 518.

[79] Ovidio, Fasti, VI 295-296; Esse diu stultus Vestae simulacri putavi / mox didici curvo nulla subesse tholo.

[80] Baistrocchi, Arcana Urbis, p. 190; per il complesso argomento del significato di Giano e del suo rapporto con Vesta rimandiamo ad un’attenta lettura del capitolo V del testo di Baistrocchi Il fuoco sacro: Giano e Vesta pp. 188-248. Vedi anche Dumézil, Jupiter Mars, Quirinus, pp. 342-349.

[81] Dumézil riporta tra le altre conferme della sua asserzione la serie delle divinità invocate nelle preghiere degli Atti dei Fratelli Arvali, alcuni passi di Ovidio e di Cicerone ed altre possibili concordanze, per cui si rimanda al luogo citato.

[82] Notiamo come curiosità linguistica che la trasposizione del nome del Dio in quello del monte che erutta lava avviene in Italia nel Quattrocento e la prima citazione della parola “vulcano” nel significato attuale la si ritrova nella Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna del 1499, in cui il termine viene riferito all’Etna: “lo insaziabile vulcano Ethna” (Hypnerotomachia Poliphili, a cura di M. Ariani e M. Gabriele, Milano 1998, tomo I p. 437).

[83] Andrea Carandini, La nascita di Roma. Dèi, lari, eroi e uomini all'alba di una civiltà, Milano 1977, p. 133 nota 27.

[84] Terenzio Varrone, De lingua latina V, 10: “Ignis a gnascendo, quod huic nascitur et omne quod nascitur ignis succendit; ideo calet ut qui denascitur cum amittit ac friges. Ab ignis iam maiore vi ac violentia Vulcano dictus. Ab eo quod ignis propter splendorem fulget, fulgur et fulmen, et fulguritum quod fulmine ictum”.

[85] Walter Skeat, An etymological Dictionary of the English Language, Oxford 1888, s.v. “Volcano”.

[86] Come scrive Varrone, De lingua latina V, 10, 74, l’altare di Tito Tazio era dedicato a Summanus e a Vulcano: “Sono di lingua sabina le are votate e dedicate a Roma da Tito Tazio: come dicono gli annali, le votò a Ops, Flora, Vediovis e Saturnus, Sol, Luna, Vulcano e Summanus, Larunda, Terminus, Quirinus, Vortumno, Lares e Diana Lucina”.

[87] Filippo Coarelli, Il Foro Romano, Roma 1983, vol. I Periodo arcaico, pp. 161–178.

[88] Si veda ad es. Livio, Hist. I, 37: “Tarquinio mandò a Roma bottino e prigionieri [i Sabini sconfitti] e, dato fuoco alle spoglie nemiche secondo il voto che aveva fatto a Vulcano, continuò a spingere l’esercito nel territorio sabino”.

[89] Dumézil, La religione romana arcaica, pp. 284–285.

[90] Franco Cardini, Alle radici della Cavalleria medievale, Firenze 1981, p. 55.

[91] Festo: “Questo tipo di piccoli pesci veniva dato al Dio in sostituzione di anime umane”; vedi anche Giulio Vaccai, Le feste di Roma antica, Roma 1986 (Roma 19271). p. 172 e nota 1, Dario Sabbatucci, La religione di Roma antica, Milano 1988, p. 199. Le parole di Festo circa l’offerta a Vulcano nel rituale privato di piccoli pesci in cambio di esseri umani potrebbe interpretarsi come sostituzione di sacrifici umani fatti al Dio per scongiurare i tremendi effetti distruttivi delle eruzioni (le vittime a lui destinate dovevano essere offerte in olocausto, cioè bruciate completamente, a differenza di quanto accadeva nel consueto sacrificio offerto agli altri Dèi).

[92] La complessità della figura di Vulcano è tale che consigliamo per una visione più completa Paolo Galiano, Vulcano, il Fuoco generatore, Roma 2023.


Fig. 1: Moneta con il volto di Giano sul recto e la prua di nave sul verso; aes grave, bronzo, circa 240-225 a. C. (C C Attribution-Share Alike 3.0 Unported license, http://www.cngcoins.com).

Fig. 2: La nascita di Menerva, traduzione etrusca del latino Minerva, dalla testa di Tinia (lo Zeus etrusco): come si vede da questo esempio, le narrazioni mitologiche greche sono ampiamente riprese in Etruria (Eduard Gerhard, Etruskische spiegel, Berlino 1884, vol. V, tav. 6).

Fig. 3a: Specchio etrusco (circa 350-300 a. C.): Tinia, Uni, Turms (l’etrusco Hermes) e Menerva: Uni è nuda e si appoggia a Tinia alla presenza degli altri Dèi (Eduard Gerhard, Etruskische spiegel, Berlino 1884, vol. V, tav. 98). La corrispondenza tra Uni e la fenicia Astarte in alcuni templi etruschi (Pyrgi – Santa Severa) spiega la posa voluttuosa di Uni, ancora più esplicita in altri specchi quale quello di Berlino pubblicato in Nancy de Grummond, Thunder versus lightning in Etruria, in “Etruscan studies”, 19 (2016), pp. 183-207, p. 200 fig. 11.

Fig. 3b: Antefissa raffigurante Juno Sospita Mater et Regina dal Tempio di Juno a Lanuvio come Juno Caprotina, circa 500-480 a. C. La solennità ieratica della Giunone laziale contrasta in modo evidente con quello della Uni etrusca.

Fig. 4a: Frontone del santuario di Portonaccio a Veio (ora al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia): Aplu (il latino Apollo) contro Herkle (il greco Herakles, da non confondere con il latino Hercules), terracotta, circa 510 a. C. (da Contesti d’arte, vol. I, https://mydbook.giuntitvp.it/app/books/GIAC89_G8970102L/html/190). Il movimento scattante delle due figure che si stanno affrontando è magnificamente illustrato dall’autore, che si ritiene sia l’etrusco Vulca, a cui è attribuita anche la quadriga che ornava il tempio di Giove Ottimo Massimo di Roma, eretto dai Tarquini sul Campidoglio.

Fig. 4b: Raffigurazione fittile del Palladio: la statua, ritrovata nella favissa del tempio di Minerva a Lavinio (ora al Museo di Lavinium, Pratica di Mare) e databile al V sec. a. C. La forma quasi cilindrica della statua rende evidente la sua origine da una più antica statua in legno ricavata da un tronco d’albero: è assente presso gli antichi popoli latini quella antropomorfizzazione tipica della statuaria greca ed etrusca: forme essenziali che devono stimolare la mente e il cuore, non splendidi oggetti d’arte da ammirare (dalla rivista online www.aboutartonline.com).

Fig. 5: Pianta del Campidoglio: le frecce indicano, a partire dall’alto, il Tempio di Juno Moneta, la posizione dell’Auguraculum e, come punto di riferimento, il piazzale michelangiolesco del Campidoglio (da Francesco Paolo Arata, Osservazioni sulla topografia sacra dell’Arx capitolina, https://doi.org/10.4000/mefra.338, Fig. 1, modificata).

Fig. 6: Necropoli di Santa Palomba-Albunea (Roma): oggetti miniaturizzati tra cui due ancili in bronzo nella tomba di un guerriero, circa X sec. a. C. (Giosuè Auletta, Santa Palomba Albunea. Relazione storica, 2019, p. 7).

Fig. 7; Tessera Hospitalis, dall’area sacra di Sant’Omobono (avorio in forma di leoncino, circa 580-540 sec. a. C.) recante l’iscrizione: “Mi (ha fatto) Araz Silqetanas per Spurianas” (ricostruzione da Carmine Ampolo, Presenze etrusche, koiné culturale o dominio etrusco a Roma e nel Latium vetus in età arcaica?, in “Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina”, vol. XVI “Gli Etruschi e Roma”, Atti del XVI Convegno Internazionale di studi sulla Storia ed Archeologia dell’Etruria, a cura di Massimo Della Fina, Roma 2009).

 

Fig. 8: Il c. d. Vaso di Dueno, dal nome del dedicatore, ritrovato sul Quirinale (VI sec. a. C.): la lunga iscrizione in lingua latina non è stata ancora tradotta con certezza, potrebbe forse trattarsi dun a formula magica propiziatoria (da Wikimedia Commons, public domain).

Fig. 9: Il cippo ritrovato da Giacomo Boni sotto il lastricato del Lapis Niger accanto a quello che ora si ritiene sia l’altare del Volcanal: l’iscrizione, in lingua latina, si sviluppa lungo le quattro facce del cippo (dalla relazione di Giacomo Boni in Notizie di scavi di antichità comunicate alla R. Accademia dei Lincei, Roma 1899, p. 153 fig. 2).

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