La Preghiera silenziosa e la Natura selvaggia Tradizione primordiale e perennialismo nella ritualità dei nativi nord-americani (di A. Bonifacio)

La Preghiera silenziosa e la Natura selvaggia Tradizione primordiale e perennialismo nella ritualità dei nativi nord-americani (di A. Bonifacio)

Tradizione primordiale e perennialismo nella ritualità dei nativi nord-americani  

“”Chiamare semplicemente religiose questi genti, dà solo una pallida idea del profondo atteggiamento di pietà e di devozione che ne permea l’intera condotta. La loro onestà è immacolata, e sia la loro purezza d’intenzione, sia la loro osservanza dei riti religiosi non ammettono eccezioni e sono estremamente notevoli. Sono sicuramente più vicini a una nazione di santi che a un’orda di selvaggi”

(Washington Irving: The Adventure of Captain Bonneville)

“Se fossi un Indiano, preferirei andare incontro al destino insieme a quelli del mio popolo che rimasero fedeli alle Pianure libere e aperte, piuttosto che rinchiudermi nei ristretti confini di una riserva e lì beneficiare delle benedizioni della civiltà, mescolate senza limiti  e misura ai suoi vizi”

(dal libro del generale Custer, My life on the Plains, pubblicato nel 1876 pochi mesi prima della sua morte)    

fig 1

American Progress di John Gast (1876) è l’allegoria pittorica tra le più ideologicamente eloquenti dell’epoca della corsa all’ovest, espressione della concezione filosofica rivelata dalla locuzione destino manifesto. La teoria del Destino Manifesto (in inglese: Manifest destiny) è quella che esprimeva la convinzione che gli Stati Uniti avessero la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia ubique.
I sostenitori del destino manifesto credevano che l’espansione non fosse solo buona, ma che fosse anche ovvia (“manifesta”) e inevitabile (“destino”). Il “destino manifesto” fu sempre un concetto generale più che una specifica politica. Il termine combinava un credo nell’espansionismo con altre idee popolari dell’epoca, compresi l’eccezionalismo americano, il nazionalismo romantico e un credo nella naturale superiorità di quella che allora veniva chiamata la “razza anglosassone”. Nel quadro il centro visivo è un essere femminile alato “superiore”, la Columbia, personificazione degli Stati Uniti, rappresentazione del “destino”, guida gli artefici del progresso, espressa da vari personaggi, pionieri e coloni, che introducono la coltivazione, i libri e quindi la cultura e il telegrafo, come espressione avanzata di civiltà. Sullo sfondo la ferrovia che avanza. Essi inesorabilmente procedono dalla costa est, già solcata da numerosi battelli e quindi civilizzata, verso l’interno e quindi a Ovest: il mito della Frontiera. Qui gli “indiani” rappresentati seminudi e ferini, sotto un cielo plumbeo, contrastante con il sereno che sovrasta i nuovi arrivati, sono frammisti a rappresentanti di animali caratteristici della “natura selvaggia”, essi appaiono sgomenti e terrorizzati dall’avanzare implacabile della “civiltà”. Una visione totalmente manichea della realtà

Introduzione (Il Destino Manifesto e le sue implicazioni, ovvero: le lingue tagliate)

«Quando diceva che il papa era signore di tutto l’universo al posto di Dio, e che aveva fatto dono di quella terra al re di Castiglia, dissero che il papa doveva essere ubriaco quando lo fece, visto che dava ciò che non era suo, e che il re che chiedeva e riceveva quel dono doveva essere un folle, visto che chiedeva ciò che era di altri. Che venisse lì a prendersela, la terra, e avrebbero infilato la sua testa su un palo, come già ne avevano altre, di loro nemici.»

(Risposta alla lettura del Requerimiento degli autoctoni amerindi ai conquistadores)

 

Recentemente, in un video proposto da un sito dedicato ai nativi d’America (dei molti che  esistono), è stata mostrata la cerimonia della traslazione dei corpi di adolescenti indiani infine restituiti alle loro famiglie che, secondo il loro desiderio, hanno potuto così seppellirli (finalmente dopo 100 anni!), nelle terre d’origine; si parla dei resti di giovani Lakota, una delle tribù indiane più studiate e conosciute. Queste popolazioni all’epoca, come fossero state investite da uno tsunami, subirono appieno gli effetti disgreganti della nuova civilizzazione proveniente d’oltre oceano, e uno delle conseguenze più nefaste fu il prelievo forzoso di questi giovani e giovanissimi dalle loro famiglie e l’invio dei medesimi in istituti dedicati al fine di poterli “rieducare”. Qui molti persero la “ragione” o, addirittura, la vita, per le più varie ragioni.

In un cenno diremo che questa cerimonia richiama, per prossimità temporale degli eventi, le tragiche scoperte di disordinate sepolture presso le scuole residenziali canadesi, scuole anch’esse istituzionalmente calibrate al fine di mettere fine all’”indiano”, già al suo nascere, per il principio espresso dal colonnello John Chivington - che guidò il massacro, al fiume Sand Creek dei bambini nativi rimasti nell’accampamento, insieme ad altri inermi – il quale affermò che i pidocchi nascono dalle uova di pidocchio e che quindi è legittimo schiacciarle prima che esse si schiudano.

Si tratta di un aspetto particolarmente efferato di quelle che vengono chiamate “guerre indiane”, che tuttavia non devono essere giudicate solo con l’occhio dei vinti, in una sorta di manicheismo al contrario, perché le vicende che incorsero all’epoca si rivelano spesso sfaccettate e non suscettibili di una univoca interpretazione, fatto sta che “il principio  Chivington”, a “guerre” concluse, si mutò “pacificamente” in un modello educativo di pari efficacia risolutiva, anche se non così immediatamente cruento.

Nella cerimonia prima accennata le spoglie americane sono state simbolicamente messe a riposo da altri adolescenti, loro pronipoti, “...e avvolte in abiti di bufalo sono finalmente tornate nelle loro ancestrali terre Lakota.”  (Amici Indiani d’America, 8 luglio 2021) che ne hanno curato la deposizione e provengono, nel caso di specie, da uno di questi istituti specializzati, la Carlisle Indian Boarding School

La Carlisle Indian Boarding School è stato un istituto-modello costituitosi, come molte scuole di questo tipo presenti in tutto il nord America, con lo scopo preciso di “estrarre” l’indiano dall’uomo e quindi formare l’”americano”. Per questo l’insegnamento paramilitare e fortemente esclusivo dell’istituto, fondato con grande forza e convinzione dal generale Richard Henry Pratt, le cui finalità erano perfettamente in sintonia con gli orientamenti  governativi, ha fatto da modello anche altrove e proprio grazie all’inflessibilità, quasi brutale, dei suoi programmi di ri-condizionamento. In USA altri istituti si sono infatti adeguati in poco tempo alla dottrina e ai metodi colà adottati dal momento che si mirava, congiuntamente, allo sradicamento integrale della dimensione spirituale indiana e alla sua sostituzione con quella genericamente occidentale e cristiana che era ritenuta l’unica plausibile.

Gli istituti di rieducazione provvedevano a correggere le inclinazioni religiose tribali per sostituirle con quelle proposte dalle chiese cristiane concorrendo, correlativamente, alla progettazione del perfetto cives americano. Alla fine di tutto ciò, tale J. Webster Henderson ha potuto affermare che: "L'esperimento si è rivelato un successo. l'indiano è stato condotto dalla ferocia alla civiltà e il grande problema era stato risolto".

Come ad Hampton, un altro noto centro di rieducazione progettato con criteri più “miti”, gli studenti in arrivo erano immediatamente privati ​​dei loro lunghi capelli e persino dei loro nomi, perché iniziassero per processo di disindentificazione, che avrebbe dovuto condurli ad avere disgusto delle loro origini, fino a rinnegarle. Tuttavia, a differenza di Hampton, il cui scopo era quello di restituire gli Indiani istruiti al fine di riassimilarli alla loro gente, quasi come lievito nel pane, affinché provvedessero loro stessi a cambiare dall’interno, quasi fossero missionari, il loro prossimo, a Carlisle s’intendeva americanizzare completamente lo studente al punto di cancellarne proprio la traccia stessa dell’origine senza quindi reinserirlo  nell’ambiente d’origine. Lo scopo di tutto ciò è evidente; sradicare ogni traccia di “indianità” dalla nuova nazione e farlo nel più breve tempo possibile, in sintesi: uccidere l'indiano per salvare l'uomo" come da programma scritto. Non c’è comunque da stupirsi più di tanto, anche la scuola contemporanea e, soprattutto, certi ambienti, dove crescono i “senza famiglia” o quelli che dalla famiglia sono stati distolti per le più varie ragioni, costituiscono dei veri e propri laboratori di mutazione antropologica esattamente accostabile a qualsiasi “Carlise” del passato più o meno recente: si cambia il vestito ma la sostanza del sopruso rimane la stessa. Presto, sembra, il modello educativo sperimentale e sperimentato diverrà generalizzato e globale

Il sistema degli istituti rieducativi è andato avanti parecchio e, per proporre un pizzico di quadro storico, si dirà che le politiche del governo e le pratiche di Carlisle e di scuole simili, sono state rese controverse solo dalla fine del XX secolo, quando, un importante rapporto, (il rapporto Kennedy), del 1969, ha riscontrato fallimenti diffusi nell'istruzione indiana da parte del governo federale, avendo prodotto conseguenze gravi nella dimensione psichica degli studenti. Del resto non poteva essere altrimenti. I bambini cooptati furono costretti a lasciare brutalmente le loro famiglie in giovanissima età e spediti molte miglia lontano dalle loro residenze. I giovani, caricati su un treno, giunti alla meta, venivano lasciati soli sul nudo pavimento della scuola dopo un viaggio estenuante. Era inevitabile che in quella condizione finissero traumatizzati. A ciò si aggiunge che, praticamente, già dopo il risveglio, e quindi nell’immediato, s’iniziava l’opera di smantellamento dell’individuo nativo imponendogli di rinunciare alla sua culture, lingua, credenza religiosa e spirituale e persino, come detto, perfino ai proprio nome. Con ciò il quadro è completo. Generazioni di nativi hanno attestato il danno psicologico derivante da questo vero e proprio genocidio culturale che ha influenzato profondamente tutte le comunità d’appartenenza. Per questo, dalla fine del XX secolo, centinaia di ex studenti hanno intentato numerose cause contro queste scuole spesso rette, oltre che direttamente dal governo federale, anche da ordini religiosi di diverse confessioni. A queste dati oggettivi, si aggiunge poi i danni prodotti dalla perversità, più o meno occasionale e certamente non programmata, dell’elemento umano che, come avviene nelle istituzioni repressive, se non addirittura concentrazionarie, è di ormai assodato accompagnamento alla dimensione para-carceraria in cui  si trovano i sottoposti. Su questi studenti, senza alcuna protezione legale, sono stati compiuti abusi fisici e sessuali, da parte del personale e delle persone al potere in modalità estesa e diffusa. Il Canada ha avuto a che fare con simili, e forse peggiori, scandali di abusi e le successive cause legali hanno portato a cospicui risarcimenti, senza però che si possa riparare in alcun modo il danno a volte volutamente prodotto, né si sono mai condannati i colpevoli degli abusi, si conoscono le vittime, ma oscuri sono i loro aguzzini. Un argomento questo che tralasciamo perché non è nelle corde dei nostri proponimenti espositivi ma tuttavia esposto per cenni, perché propedeuticamente necessario allo sviluppo del tema

fig 2

Una immagine che vorrebbe enunciare un concetto più o mano riassumibile nelle parole: “prima e dopo la cura” . A destra i ragazzini “selvaggi e primitivi” a destra i nuovi individui, formati a concorrere al “successo” personale e sociale della nazione in via di fondazione. In realtà la foto contiene anche un piccolo bluff in quanto gli studenti della scuola di Carlisle non sono i tre ragazzi Arapaho cresciuti e “ripuliti” lì mostrati. (Società storica di Carlisle). V’è da dire che Pratt perseguì un ideale di piena omologazione, di cui era pienamente convinto, perché, all’epoca, era del tutto inconcepibile pensare che il modo di vita indiano contenesse un qualsivoglia aspetto positivo.  Per questo, come detto, l’ideatore del metodo voleva superare lo stesso concetto di riserva, ritenendo gli Indiani perfettamente capaci di inserirsi rapidamente, previa istruzione, paritariamente con gli europei nel sistema. In questo suo tentativo d’assimilazione, sia pure forzata, non esprime un’ideologia strettamente razzista, propria di molti suoi contemporanei e in quest’ottica, e per conseguenza  il suo tentativo va anche apprezzato, se letto nella sua giusta luce.

In sintesi da quanto brevemente descritto, emerge evidente che il c.d. Destino Manifesto, proprio perché “destino”, appare contrassegnato dall’elemento della fatale ineluttabilità e tale ineluttabilità, pedissequamente, comportava l’opzionale possibilità di compiere per la sua realizzazione l’eliminazione di qualsiasi ostacolo, giungendo financo al genocidio. Si vuole quindi, qui, aggiungere, con Marco Toti, come il genocidio dei Nativi, come quello degli Armeni, siano praticamente entrambi giunti a compimento, senza poi produrre particolare scandalo o scalpore, e men che mai sono oggetto di periodica istituzionalizzata rimembranza, Eppure essi costituiscano “veri” crimini collettivi in quanto, la sopravvivenza puramente marginale delle comunità native amerindie odierne, almeno di buona parte di esse, somiglia a quella degli esemplari “impazziti” della fauna ospite degli zoo.

Alcuni studiosi respingono il termine genocidio (già problematico di suo) sostituendolo con la più asettica locuzione “tentativo di assimilazione fallito” (Luca Codignola), come se si fosse tentato di salvare la vita a una persona condannata da malattia incurabile, in cui si tenta una cura sperimentale e tutto ciò non scaturisse piuttosto dalla volontà di ridurre l’altro da sé (che stava a casa propria), a sé, nel presupposto che esista un’unica legge cui tutti gli uomini, volenti o nolenti, debbano sottostare. Il lettore sul tema: faccia lui! Per quanto riguarda chi scrive la terminologia ha relativamente poca importanza, le conseguenze sono i devastanti effetti di un’acculturazione, necessariamente forzata, cui è seguita l’implacabile nemesi (parzialmente) risarcitoria. 

Gli orrendi fatti della persecuzione nazista, per evidenza geografica, non hanno potuto riguardare i componenti dell’intera secolare diaspora etnica, che è stata planetaria e questa diffusione ha permesso la conservazione degli individui, dei gruppo  e della loro cultura, cosa che invece non è stato possibile per popolazioni stanziate esclusivamente in un territorio, per quanto vasto esso fosse.

Nel caso dei popoli amerindiani non si è trattato soltanto di un eccidio delle popolazioni native, divise un tempo in circa 500 tribù, compiuto con vari metodi su cui non ci intratteniamo, attraverso cui si stima che queste popolazioni siano state ridotte a un quinto di quelle originariamente presenti alo sbarco di Colombo - il che suona come una beffa, dal momento che l’ammiraglio consacrò il continente alla protezione della Vergine-, ma anche di una trasformazione totale di usi, costumi e abitudini che ha ridotto la residua popolazione in uno stato di sostanziale mendicità. Lo svuotamento abitativo continentale fu certamente causato all’introduzione, sicuramente prima involontaria, eppoi dolosa, di malattie epidemiche sconosciute ai locali, che hanno falcidiato una popolazione già indebolita dai continui saccheggi e dallo sfruttamento lavorativo estremo. Alla soluzione finale si è andati però vicino, anche grazie ai provvedimenti emanati dai governi locali della prima metà dello scorso secolo, sulla scia del successo dei libri di Madison Grant. Accanto a ciò, e in diretta relazione con il tracollo demografico, si è di fronte a un compiuto sradicamento culturale, che ha pochissimi riscontri nella recente storia umana.

Il “genocidio” culturale consiste nella sottile e sistemica demolizione delle strutture culturali dei popoli indigeni, distinguendosi l’opera repressiva in due categorie fondamentali denominate: ierocidio e l’epistemicidio. Ci dettaglia di ciò lo studioso Enrico Comba, in un articolo dal titolo Una foresta di persone: i molti volti dello sciamanesimo nativo americano, in cui si può leggere: “L’effetto congiunto della conquista coloniale, dell’imposizione di un sistema socio economico estraneo e della devastante azione delle epidemie risultò in un processo continuo e premeditato di epistemicidio (distruzione delle conoscenze dei popoli nativi) e di ierocidio (distruzione delle forme di sacralità indigena).     

A questo punto ci si potrebbe domandare che senso assuma il riprendere questo argomento oggi, al di là di questa dolorosa rievocazione, i cui contenuti apparentemente  sembrerebbero più adatti a una ricognizione di sapore giornalistico, che a un intervento in materia storico- religiosa come ci si propone di fare in queste righe.

 

Nativi e perennialismo 

Ho meditato sulle religioni, sforzandomi il più possibile di comprenderle, e ho capito  che vi è un Principio unico con numerose ramificazioni

(Al-Hallaj)

La volontà di riprendere il senso e il significato a quanto si è detto, in un’ottica di lettura, per così dire, “tradizionale”, prospettata quindi secondo l’ordine della ciclologia “qualitativa” delle ere, in quest’epoca che corre velocemente verso un traguardo che non si può immaginare altrimenti che disastroso, è fondata sulla possibilità che la critica destruens, appena esperita, ed il suo corollario, stavolta costrues, possa ridare voce e attuazione, sebbene una piccola voce, forse pressoché inudibile nella cacofonia contemporanea, a un lontana intuizione di René Guénon.

Si tratta di una intuizione peculiare, un pensiero rimasto forse un po’ troppo ristretto tra le righe dell’autore ma, a nostro giudizio, di eccezionale rilevanza. Guénon prospettava la possibilità che, inaspettatamente, proprio dal “piccolo resto” dei Nativi del Nuovo Mondo potesse rinascere, davvero come un germe gettato in una terra sacra, la Tradizione Primordiale, della quale questi popoli sarebbero tra gli ultimi “puri” detentori. Affermazione questa senz’altro forte ma giustificata da una sempre maggior comprensione della mitologia/ritologia dei nativi (visto che non si può parlare di una teologia), che rivela sorprendenti punti di riferimento con tradizioni geograficamente molto lontane che, ad oggi, non consentono di supporre la possibilità d’una qualsiasi diretta trasmissione spirituale,  che, qualora fosse stata, sarebbe dovuta avvenire in lontane epoche, essendo i continenti ben divisi tra loro. Per conseguenza per quanti sforzi in proposito possano fare gli storicisti ciò è impossibile, rendendo invece evidentemente plausibile sdoganare quelle prospettive, tanto osteggiare dai negatori della ciclologia, che sono proprie del perennialismo e del primordialismo. Come si vedrà più avanti è la comprensione spirituale ben più affilata e davvero provvidenzialmente documentata, quasi scampata dalle acque arcontiche della storia, di questi elementi strutturali quella che permetterà di offrire qualche spunto di meditazione.

Per conseguenza, e come sarà più chiaro nelle brevi considerazioni successive, non si possono certamente omettere due parole, speriamo chiarificatrici, sul tema del perennialismo, anche in considerazione del fatto che questo ordine di pensiero ha trovato una robusta sponda nel Nuovo mondo, tanto da giustificare un possente studio, un vero e proprio opus magnum, proveniente dalla ricercatrice Setareh Houman. Si tratta dell’edizione statunitense del testo francese, inizialmente pubblicato da “Arché” nel 2009 col titolo De la philosophia perennis au pérennialisme américain, che è stato recensito, proprio sulle colonne di Simmetria, da Marco Toti in un articolo dal titolo Dal tradizionalismo al perennialismo. Questi ha redatto un denso e accurato intervento, cui necessariamente rimandiamo, permettendoci di prelevare però dal corpo del testo un lungo e significativo passaggio in cui sono presenti, per così  dire, tutte le linee guida che distinguono e qualificano questo movimento di pensiero, di cui, qui, si sono posti in evidenza i punti salienti:

“Il perennialismo costituisce, secondo la Houman e nei termini in cui A. Faivre, ha classicamente definito l’esoterismo come categoria “generalista”, una “forma di pensiero” (“form of thought”: pp. 5, 359 e 434); esso, inoltre, è “teologia” (nel senso di una gnosi, ovvero della teologia mistica di Dionigi Areopagita: p. 17), ed in ciò si distingue dalla storia delle religioni in senso stretto, visto anche il suo sostanziale disinteresse per le problematiche diacroniche (cfr. p. 5 n. 2 [W. Hanegraaf]) ed anche “fenomenologiche”, oltre che il suo orientamento, essenzialmente “dottrinale” e “pratico” al tempo stesso ...Tra gli elementi centrali del pensiero perennialista vi sarebbero: la tesi di una tradizione primordiale di origine non umana, connessa ad un’epoca di “pienezza originaria”; l’idea di una “dispersio scientiae” (già presente in A. Steuco, filologo, antiquario e filosofo italiano vissuto nella prima metà del ‘500); l’idea della ciclicità della storia, che, tornando su se stessa, implica, sul piano escatologico, la tendenza ad accettare la tesi dell’apocatastasi; il ruolo della “immaginazione attiva”, delle corrispondenze simboliche e della ermeneutica nell’ambito della metodologia dell’approccio al sacro, che conduce, sul piano dei rapporti tra le diverse “forme tradizionali”, ad un “ecumenismo esoterico” (distinto per questo suo carattere dottrinale e costitutivamente “elitario” da quello invalso pubblicamente nel “dialogo tra le religioni”) e, sul piano operativo, alla asserita necessità di accedere “tradizionalmente” ad una trasmissione che garantisca l’efficacia del “metodo”, nei termini del fine della trasmutazione ontologica del praticante; la distinzione tra l’”assolutamente reale” (âtman, in termini vedici) e il “relativamente reale” (mâyâ) (pp. 13-16).

L’ipotesi perennialista è di assai controversa qualificazione e negli studi degli storici delle religioni, evidentemente, essa non è considerata più di tanto, visto che in definitiva si pone fuori dell’ombrello teoretico della disciplina, una traccia di essa la si può ritrovare, secondo un certo angolo visuale, nella poderosa opera di Wilhelm Schmidt che, convintamente antievoluzionista, ritenne che, alla base dei sistemi religiosi primigeni. vi fosse un dio unico, ovvero un monoteismo primordiale.

A proposito di Perennialismo e di Tradizione primordiale aggiungiamo, che, per esempio, Mircea Eliade, uno studioso fortemente orientato contro la prospettiva di lettura  storicista delle religioni, non ha mai preso in considerazione questa ipotesi, pur essendosi fatto portavoce del tema dell’”eterno ritorno”, una dimensione che ebbe a ritenere  elemento qualificante delle molteplici dottrine che osservano, nella scansione temporale delle ere, l’estrinsecarsi di un tempo qualitativo differenziato, principiando però dalle origini auree, per decadere successivamente.

Il principale “difetto” del perennialismo, anzi, per meglio dire, il suo principiale difetto, come sottolinea Toti, riposerebbe sull’indimostrabilità del suo assunto, ovvero l’attestazione della presenza di una “Tradizione primordiale”, unica all’origine, dalla quale tutte derivano, in un rapporto di genere a specie o, geometricamente, in una relazione tra centro e circonferenza, stabilito dalla presenza dei raggi, intesi quali linee dottrinali che riconducono dalla periferia al centro, secondo vie necessariamente differenziate. Si tratta di quella che L.M.A. Viola definisce Religione divina Primordiale. A proposito di “prove”, in verità, Coomaraswamy riferiva, all’ubiquitario e “centrale” mito delle simplegadi, che faceva risalire al neolitico, il compito di offrire un decisivo indizio di ciò, ma in realtà, sul tema, si può anche retrocedere al lontano aurignaziano, ovvero all’esordio del paleolitico superiore, per trovare elementi convincenti intorno alla presenza dei “battenti solari” e della loro apertura e chiusura “cairologica” folgorante, caratteristica perspicua del mito delle simplegadi: di ciò si è parlato altrove con una certa estensione. 

Un altro perplesso studioso di Schuon, Robert Charles Zaehner, che, da ammiratore del filosofo, ne divenne, infine, critico proprio per la forte dissonanza intorno a questo tema, ha battuto sullo stesso argomento insistendo sull’indimostrabilità dell’esistenza di una comune primordialità tra le antiche religioni e scrivendo per l’occasione:” Nel suo ‘L’unità trascendente delle religioni’ Frijtiof Schuon ha cercato di dimostrare l’esistenza di un’unità fondamentale soggiacente a tutte le grandi religioni. Nobile tentativo peccato che di fatto nessuna unità di genere possa essere individuata“. Nasr, a propria volta, nel suo testo, Conoscenza Sacra, quale allievo convinto dello Schuon, rettifica abilmente questa osservazione,  completandola polemicamente con queste parole: ”da coloro che non hanno un’intuizione intellettuale dell’essenza sovraformale, e che quindi, legittimamente, non sono chiamati a preoccuparsi di capire o discernere l’unità sovraformale di cui parla Schuon” (H. Nasr: 2021, 139 nota 34).  

 

René Guénon  e le tradizioni native       

“Il mondo è un tempio santissimo (…) L’uomo vi penetra nel giorno della sua nascita e vi contempla (…) gli oggetti sensibili fabbricati, dice Platone, dall’Intelletto divino perché siano copie degli Intellegibili

(Plutarco)

Proprio da Guénon, antesignano della riscoperta del patrimonio spirituale nativo degli amerindiani, possibilmente letto in chiave perennialista, è necessario riprendere le fila del discorso. Infatti, il metafisico di Blois fu praticamente il primo a qualificare lo “sciamanesimo” - già prima che lo stesso Eliade si occupasse estesamente dell’argomento -, come “l’erede” della “tradizione primordiale” e questo perché, proprio in questo magmatico coacervo di espressioni, tutte incentrate sull’estasi e sul viaggio cosmico, egli riscontrava un sistema simbolico e un patrimonio di riti che sarebbero condivisi, espressi con altri linguaggi, con tradizioni di rango più “elevato”. Certuni di questi riti, ad esempio, sottolinea il Guénon: “ricordano in modo stupefacente taluni riti vedici, fra quelli, per di più, che più manifestamente procedono dalla tradizione primordiale, come i riti in cui i simboli dell’albero e del cigno hanno una parte preponderante”. Di passata si vuole richiamare che il simbolo dell’albero, quale axis mundi, è ben cogente nella fabbricazione della pipa cerimoniale e nel rito che ne scaturisce, come altresì nella Danza del Sole, dove i danzatori sono connessi con delle strisce di pelle all’albero del mondo, formando così una circonferenza connessa al centro attraverso questi “raggi di cuoio”.

Nello specifico di queste tradizione native, sicuramente affidate alla cura di una “sacerdotalità” sciamanica, appare utile riprodurre un passaggio tratto dall’articolo Il simbolismo della scala, dove la successiva considerazione fa da esordio al tema comparativamente trattato, laddove l’argomento dell’ortodossia dell’orientamento   perennialista è suffragata da indizi rilevanti. Qui si può leggere “Abbiamo già accennato in precedenza al simbolismo che si è conservato tra gli Indiani d’America del Nord, e secondo il quale i diversi mondi sono rappresentati da una serie di caverne sovrapposte e gli esseri passano da un mondo all’altro salendo lungo un albero centrale. Un simbolismo simile si trova, in vari casi, realizzato da riti nei quali il fatto di arrampicarsi su un albero rappresenta l’ascensione dell’essere lungo l’’asse’; tali riti sono sia vedici che sciamanici, e la loro stessa diffusione è un indizio del loro carattere veramente ‘primordiale’”(R. Guénon: Simboli, 290; una precisazione circa questo deciso accostamento proviene da una qualificata fonte che ha parlato di stupefacenti analogie con la ritualità vedica ed è riportata da Schuon in: Sguardi sui mondi antichi, 80, nota 19). Evidentemente Guénon per “diffusione” non intende esattamente quello che intendono i diffusionisti “veri e propri”,  piuttosto si tratta della constatazione di un comune simbolismo, presente dall’alba del tempo stesso, quello che per Coomraswamy, ad esempio, si sostanzia nel già ricordato mito delle simplegadi, attestato in mille e mille conformazioni e articolazioni a tutte le latitudini e in tutte le epoche e dai tratti specifici sempre riconoscibili e perciò individuabili. Atteso ciò, lo sguardo può così spingersi all’indietro anche in epoche preistoriche ben antecedenti ai Veda, epoche finalmente raggiungibili attraverso le testimonianze offerte da peculiari espressione iconografiche dell’arte rupestre, ubiquitariamente diffusa nei diversi continenti, ancorché essi siano separati da invalicabili oceani, che mostrano la consistenza della validità indiziaria della proposta perennialista. 

Saldando quindi il remoto passato con il presente, si prende atto con soddisfazione che, in questi ultimi anni, s’è manifestato un rinnovato interesse per questi popoli “emarginati”, certamente odiernamente circonfusi d’un alone romantico, emotivamente suadente, alla cui presa emotiva è davvero difficile sottrarsi. Un contributo davvero notevole alla comprensione di questo “universo separato” lo hanno dato alcune recenti pubblicazioni che, seppur certamente “scientifiche”, riescono tuttavia a evocare, con rigore, l’orizzonte spirituale di un mondo pressoché perduto e piuttosto conosciuto attraverso il filtro deformante del grande motore ideologico qual è il cinema americano* che ha enormemente contribuito, prima a costruire l’opposizione selvaggio/civilizzato (instaurata in primis allo sbarco da Cristoforo Colombo) e, poi, a decostruire disinvoltamente il mito stesso, per cui i nativi sono passati dall’essere considerati dei “barbari con la faccia dipinta di blu”, per rubare un’espressione a Giulio Cesare del De Bello gallico (credo), a essere presentati, indistintamente, come “oceani di saggezza” eo ipso.

Dopo questa parentesi aggiungiamo che tra le recenti pubblicazioni, indirizzate a sondare il tema dello spessore spirituale dei popoli nativi nord americani, è senz’altro da ricordare il “classico” di Frithjof Schuon Il sole piumato. Religione e arte degli indiani delle praterie, nonché  lo splendido Terra sacra di Arthur Versluis, il cui sottotitolo è piuttosto eloquente, in ordine al tema che l’autore si prefigge di trattare (e qui noi ad accogliere), ovvero Religione e natura degli Indiani d’America, intendendo evidentemente la correlazione che investe congiuntamente e indissolubilmente Spirito e Natura. Ad esso è da affiancare la riedizione del fondamentale La sacra pipa di Alce Nero curato da J. Epes Brown (entrambi questi due ultimi testi citato sono stati puntualmente introdotti da Marco Toti). Inoltre, per le frequenti allusioni al tema del significato della Natura Vergine, oggetto specifico di queste considerazioni, non è da dimenticare l’importantissimo contributo offerto dal testo Conoscenza sacra di Seyyed Hossein Nasr.

Ci soffermiamo per qualche riflessione sul penultimo titolo dello striminzito elenco, anche se molte altre perle sono sparse in altre pubblicazioni, perché La sacra pipa non è un libro qualsiasi dedicato a uno dei gruppi più significativi dei nativi amerindiani (I Lakota) ma è un fondamentale testamento spirituale, del cui valore non vogliamo fare paragoni con altri testi sacri dell’umanità, anche se, tra questi, si dovrebbe collocare. Esso è la trascrizione fedele, in quanto approvata dal narratore stesso, ovvero Alce Nero, dei contenuti delle conversazioni confidenziali che questi ebbe, molto tempo dopo essere stato convertito al cattolicesimo, con il citato Brown. Questa stesura reca davvero il sapore di un fatto provvidenziale per una serie di ragioni che adesso si andranno brevemente a esporre.

  1. Epes Brown, che di suo era comunque un giovane antropologo specializzando sui nativi, in questa situazione di approfondimento professionale conobbe F. Schuon che, all’epoca, soggiornava nel nuovo mondo, avendo sviluppato contatti assai profondi con gli esponenti della tradizione nativa. Il giovane antropologo non faticò a subire il “fascino” del suo mentore e, per conseguenza, ne divenne un allievo, entrando quindi nella sua tariqa. Qui si parla dell'Ordine Maryamiyya che si era costruito teoreticamente utilizzando contributi derivanti dalla coniugazione di più influenze: filosofia perenne, neoplatonismo, nonché, l’affatto trascurabile contributo dell’Advaita Vedanta; in estrema sintesi, si potrebbe dire, che la neo-confraternita è stata fortemente influenzato dalla scuola tradizionale guénoniana, quasi come fosse una sua articolazione. Un elemento però contrassegnava specificamente questa tariqa ed esso scaturiva dalle private rivelazioni, concesse allo Shuon direttamente dalla Vergine, nel corso di un suo viaggio, un fatto che deve essere accettato così com’è, in quanto non certamente accertabile, nella circostanza  l’apparizione conferiva unp specifico  incarico al suo privilegiato destinatario. Per questo quanto fondato dal filosofo elvetico prese il nome di Maryamiyya, come derivato da Mariam che è il nome della Vergine in ambito islamico.

fig. 3

La Sacra Pipa (calumet) ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle Storie della Creazione che descrivono e spiegano le origini di molte tribù. La pipa è parte integrante della cerimonia, ed è presente ogniqualvolta ci sia una decisione importante da prendere, dal fare la pace, al dichiarare guerra. Inoltre è presente quando c’è da garantire una buona caccia o favorire un buon lavoro, nelle pratiche di guarigione. La Pipa simboleggia l’equilibrio perfetto, l’unione tra Cielo e Terra, maschile e femminile, mondo spirituale e mondo fisico; perfino il nome, Chanumpa, nsecondo la dizione Lakota, è l’unione tra Cha, legno, e Numpa, due. Essa è infatti formata da due parti: il cannello, ihupa, è l’Albero della Vita, ed è realizzato con legno d’acero, e il fornello, pahu, a forma di T o L, che rappresenta il mondo, la creazione. Di fatto tutti i fornelli delle Pipe di tutte le tribù nordamericane sono ricavati da una pietra rossa chiamata Inyan sha, pipestone in inglese. Si tratta della “Catlinite”, reperibile in un unico luogo al mondo, a Pipestone appunto, in Minnesota. I lavori di estrazione in questa zona sacra sono iniziati attorno al diciassettesimo secolo e i grandi blocchi di pietra o i fornelli delle pipe, già lavorati, furono trasportati attraverso il continente dalle tribù delle pianure in altre aree anche molto lontane Il simbolismo quaternario, connesso indissolubilmente al calumet e alla gestualità rituale che ne accompagna l’impiego, è assai profondo e permea, praticamente, presso tutti i popoli pellerossa, l’intera loro vita spirituale. Di esso F Schuon scrive:” E’ nota la funzione cruciale che hanno le quattro direzioni dello spazio nel rito del calumet. Questo rito è la preghiera dell’indiano, in cui l’indiano parla non solo per se stesso, ma anche per tutte le altre creature; l’Universo intera prega con l’uomo che offre la Pipa alle Potenze, o alla Potenza”  

Con ciò si rivela già, ab origine, uno “strano“ e comunque insolito connubio tra la via sufica e, in particolare, quella accentuatamente femminile propria dello Schuon e questa via nativa, a propria volta inaugurata da un personaggio mitico, con funzione iniziatica e insieme escatologica, denominato Donna bisonte bianco (o bianca). Per quanto riguarda l’aspetto iniziatico, se ci si consente l’accostamento, il comportamento di questa entità ricorda, con un certo grado di verosimiglianza, quello della ninfa Egeria verso Numa (Numa, metatesi di Manu, variante Menes, quale legislatore primordiale), colui che darà le costituzioni alla nascente città. L’etimologia giustifica l’accostamento proposto in quanto Egeria deriva da e-gerere, “...perciò indica il potere divino che “porta fuori”, che “conduce fuori”, per traslato è il potere che rende possibile la conoscenza di ciò che è occulto, “interno”. Egeria è dunque la Dea che conduce il segreto arcano fuori dai penetrali dell’Essere Divino, perciò, in senso lato, la Dea si identifica con la Sapienza Divina a cui il soggetto si unisce grazie alla contemplazione intellettuale realizzata, così ciò che è occulto e nascosto viene conosciuto, ovvero viene “tratto fuori dal penetrale divino per essere offerto alla conoscenza dell’intelletto contemplante...”. Per questo Egeria è anche Dea della fonte da cui scaturisce e quindi si manifesta la conoscenza soprannaturale (da L.M.A. Viola).

Fig. 3 Bis:
Una interpretazione moderna e assai suggestiva della Preghiera silenziosa scaturisce da questa opera dello scultore e pittore Chiricahua Apache, Allan Houser ( Haozous nella sua lingua madre) che mostra l'Indiano in atto di pregare, presentando tra le mani la sacra pipa. Si stralcia un passaggio dalla presentazione del testo di Joseph Epes Brown L'eredità spirituale degli Indiani d'America di Åke Hultkrantz "L'arrivo di Joseph Brown nel 1947 fu un evento catalizzatore che fornì ad Alce Nero il sostegno pratico per operare nella perpetuazione di quelle tradizioni, sia per mezzo della registrazione del suo racconto dei sette riti sacri dei Lakota, sia grazie ai suoi stessi sforzi per ristabilire un Ordine della Pipa per la sua tribù. La storia testimonia la felice ricomparsa delle tradizioni spirituali, che oggi sono ben vive in ogni riserva Lakota. Questo traguardo è il risultato dell'impegno profuso da molte guide spirituali, ma senza dubbio il lavoro di Alce Nero con Joseph Brown è stato parte integrante del successo complessivo di questa ricomparsa. "
 

Fu Schuon che concepì la trama dell’incontro tra il capo/sciamano indiano e il ricercatore e lo caldeggiò. Avvenne così che per la prima volta, i sette riti più sacri e riservati del Lakota, furono rigorosamente trascritti in un’operazione, che si potrebbe evangelicamente definire come “gridatelo dai tetti”, perché, senza la testimonianza di queste annotazioni, nulla si saprebbe, almeno all’esterno, della complessa, articolata e dettagliata struttura cultuale di questo gruppo nativo e dei suoi caratteri, comparativamente confrontabili, con quelli delle “religioni superiori”. Questo volontà di diffondere, quanto prima era celato, trova un parallelo, per esempio, nella iniziazione buddista tibetana denominata Kalacakra, un tempo tra le più riservate, che è stata diffusa, con una certa democratica e, apparentemente, inspiegabile generosità, dallo stesso Dalai Lama in Occidente in tempi piuttosto recenti. Le ragioni di ciò potranno essere evidenti a coloro che non credono nella rettilineità della storia e magari s’aspettano l’imminente conclusione di un ciclo in cui i germi del precedente sapere vengono predisposti all’apocatastasis (vedi supra).

Ci si domanda: perché Alce Nero, ormai abbracciato il cristianesimo, convenne a questo “convegno” anch’esso, in qualche modo, “egerico”? Cos’era accaduto? In quanto detto appena sopra c’è già la possibile, intuibile risposta. Era accaduto un fatto complesso che è stato interpretato convincentemente nel modo seguente. Gli Indiani, fin dai primi contatti con i missionari, avevano sempre visto delle corrispondenze tra il loro credere e quello cristiano. A colpirli, soprattutto, era la figura del Cristo sofferente, morto per riscattare le colpe degli uomini che essi associarono a uno dei loro riti più ardimentosi, anch’esso delineato da tratti teleologicamente espiativi.

Accade però che, quando perniciosamente, il colono-agricoltore-allevatore si affianca al missionario, il nativo non scorge differenze tra le due figure, visto che entrambe sono protese a stravolgere, senza comprendere, né, di massima, tentare di comprendere, un sistema ancestrale di vita, comunque perfettamente funzionante, partecipato in tutte le fasi dell’esistenza dall’individuo, e, soprattutto, appagante per i suoi “fruitori”. Il nativo, nell’infausto connubio citato, ha potuto cogliere solo l’aspetto dell’avidità: avidità delle terre da parte dell’uno e, dell’anima, dell’altro, e con ciò la volontà di reificare ciò che, per i legittimi abitanti di un “regno” appare sacro, anzi il Sacro, ovvero l’espressione visibilmente teofanica della Realtà superiore, manifestata dalla natura selvaggia in tutti i suoi componenti: minerali, botanici ed animali che, allo sguardo del nativo, si rivelano metafisicamente trasparenti. Questo ridurre a merce ogni possibile aspetto della creazione assumeva, agli occhi dei popoli aborigeni, quel carattere sacrilego corrispondente a ciò che per un cristiano poteva essere l’utilizzo di un altare consacrato per celebrare un culto a Satana. La natura per il nativo (come per Aristotele, però) è un tempio “mistico”, che deve perciò restare intatto.

Alce Nero, dopo il massacro di Wounded Knee del 1890, in cui era stato ferito, era angosciato dalla fine dei riti del suo popolo, il cui declino spirituale, essendo stato ormai privato dei suoi mezzi rituali, gli parve inarrestabile. Per questo ne consegnò la memoria al suo giovane ma qualificato interlocutore come se lo ponesse nell’arca e, al contempo, abbracciando il cristianesimo non volle privarsi di una dimensione spirituale significativamente simile e, comunque, praticabile, dal momento che quella di provenienza non sarebbe stata ormai più percorribile, per mancanza di presupposti. Alce Nero non rinnegava pressoché nulla del suo passato, della sua Visione originaria, non affermò mai qualcosa del tipo“quant’ero buffo quando era un burattino”, tutt’altro. Ciò che aveva ricercato e ricevuto prima del cristianesimo costituiva comunque la sua ossatura spirituale che, indebolita oltre misura, aveva bisogno di una protesi per sostenersi. Colse quindi nelle assonanze tra religione nativa e cristianesimo la possibilità di ricucire un rapporto con il suo popolo con il mondo celeste. Esiste quindi un certo equilibrio dinamico tra il “vecchio” e il “nuovo” nel pensiero di Alce Nero, anche perché questo sciamano, ora in via di  beatificazione, ha sempre mantenuto vivi alcuni aspetti precipui della sua fede originale e li ha esplicitati senza riserve, tanto che non si può correttamente parlare di “conversione” (un aspetto questo ben sottolineato da Marco Toti), in quanto se le strutture rituali del popolo lakota fossero rimaste agibili, presumibilmente Alce Nero non si sarebbe affatto “convertito”.

Si vuole comunque aggiungere che le similitudini tra le due Vie certamente esistono, ma sono valide fino a un certo punto, perché, come detto, la concezione della Natura tra le due “visioni religiose” è davvero opposta  e, ancora, perché, sempre ad esempio, nel pensiero Lakota il “perdono dei nemici” non era astrazione concepibile, mentre  era considerata sacra e giusta la vendetta.

In ogni caso della fedeltà alla “vecchia” tradizione fa fede questa dichiarazione di Alce Nero riprodotta da Marco Toti, cui si deve il successivo commento:  “ci è stato detto dagli uomini bianchi, o almeno da quelli che sono cristiani, che Dio inviò tra gli uomini Suo figlio, che avrebbe ristabilito l’ordine e la pace sulla terra; e ci è stato detto che Gesù il Cristo venne crocifisso, ma che ritornerà nel giorno del Giudizio Finale, alla fine di questo mondo o ciclo. Questo lo capisco e so che è vero, ma gli uomini bianchi dovrebbero sapere che anche per il popolo rosso, per volere di Wakan-Tanka, il Grande Spirito, un animale si trasformò in una persona con due gambe per portare la pipa più sacra alla Sua gente; e anche a noi è stato insegnato che questa Donna-Bisonte Bianca che ci ha portato la nostra sacra pipa riapparirà alla fine di questo ‘mondo’; e noi Indiani ora sappiamo che questo ritorno oramai non è troppo lontano”.

Prima di passare al commento di Marco Toti è il caso di sottolineare li carattere ritmico  della vicenda prospettata da Alce Nero,  egli infatti parla di “ciclo” e di “questo mondo” in evidente contrasto con la posizione del cristianesimo sul tema che prsuppone l’esolicarsi rettilineo della storia.

fig. 4 bisonte albino

fig. 4 bisonte albino

Non si tratta di una donna che si accompagna a un bisonte bianco ma di una vera e propria mutazione d’aspetto di una creatura teofanica, il bisonte bianco, che si trasfigura in un essere umano. Ciò fa presupporre che nella visione della realtà di questo, come di altri popoli, si concepisse un continuum tra uomo e animale e non s’immaginasse affatto una barriera ontologica separatrice. Per certi aspetti il bisonte bianco contrassegna l’epoca in cui ai Lakota furono donati i mezzi per comunicare con il Grande Spirito (la sacra pipa) ed è esso, d’altronde, l’essere di cui si attende l’escatologico ritorno. per stabilire un’epoca di pace universale: rappresenta quindi una sorta  una sorta di Madhi dell’uomo rosso. Allo stesso modo per i popoli europei, com’è noto, il cinghiale bianco è l’animale polare proprio del tempo aurorale che è atteso, alla fine del ciclo, per ripristinare un nuovo ciclo di rivelazione nelle condizioni auree proprie dell’origine, secondo la concezione della spirale di Matgioi, ripresa dal Guénon, che non coincide per nulla con l’eterno ritorno eliadiano   

L’affermazione pregressa è così commentata da Toti: “Alce Nero, ultimo grande testimone della tradizione Sioux Oglala e, insieme, autentico ponte tra culture e religioni, riuscì quindi a rinvenire una sottile “convergenza” tra spiritualità lakota e Cristianesimo: mantenendo così in equilibrio – senza forzature di sorta, né sincretismi alla moda – i due poli apparentemente così distanti di una religiosità arcaica, ormai sfigurata per massiccio intervento esterno, e di un cattolicesimo pure ormai “occidentalizzato”, che, proprio in quegli anni, iniziava ad intravedere la vertigine della propria dissoluzione interna”.  

Natura selvaggia e natura domata (la desantificazione della natura)

«Perché non ci dovrebbero essere, oltre alle anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono e spandono odori, e appagano la loro sete nell’assorbimento della rugiada, i loro impulsi nello spinger fuori le gemme e le loro ancor più alte brame nella ricerca della luce? Io non so perché il camminare e il gridare debba, a preferenza del fiorire e dello spandere odori, essere ritenuto quale [esclusivo] depositario della psichicità; non so perché la forma elegantemente costruita e bellamente ornata d’una pianta sia meno degna di albergare un’anima dell’informe corpo d’un lombrico».

(da Nanna o l’anima delle piante di G.T. Fechner)

Sebbene ci si trovi di fronte a precise similitudini e/o concordanze tra il cristianesimo degli Evangeli e la tradizione dei nativi pellerossa, non si devono però dimenticare, né accantonare, alcune fondamentali specificità che rendono problematico un travaso tra la concezione sacrale autoctona e quella cristiana o occidentale, anche perché, a questo punto, sarebbe da stabilire a quale cristianesimo riferirsi per questo accostamento. Stiamo parlando di quel cristianesimo contemplativo, “cordiale”, che passa per una linea ideale eterodossa (?) che va da Scoto Eriugena, Dionigi l’Aereopagita, Nicola Cusano, Meister Echkart fino ad Angelo Silesius  per citare alcuni più noti “rappresentanti”  tra i “divergenti”, senza per questo dimenticare “l’olismo ermetico-alchimico”, o, piuttosto, di quello delle teologie “ufficiali”? Probabilmente solo questo cristianesimo etichettatile “eterodosso” trova un accostamento più stringente con la tradizione nativa, il “secondo” cristianesimo, soprattutto nella sua visione pragmatica proposta dal protestantesimo e suoi derivati, è invece principalmente quello con in cui l’indiano del nord America s’è purtroppo pesantemente imbattuto, subendo tutte le conseguenze del caso e fornendo, suo malgrado, lo stereotipo dell’ostacolatore al diffondersi della civiltà “per eccellenza”.  

Già molti anni fa il ricercatore Carlo Pagetti, divenuto uno del maggior esperti di letteratura fantastica in ambito universitario, nel libro intitolato Il senso del Futuro - testo ripreso dopo molti anni da Mimesis - aveva individuato la incolmabile contrapposizione manichea che si presentava tra i coloni e gli autoctoni. l primi aspiravano a regimare l’ambiente naturale, a porlo sotto controllo, al fine di trarre da esso il maggior profitto possibile, in un’ottica di utilizzo fortemente individualista. All’opposto era presente la forte concezione amerindia sull’ambiente, per la quale realtà naturale, dalla più piccola e particolare, alla sua espressione più grande, costituiva una teofania che, come specchio degli “intellegibili” (per riprendere una precedente espressione), doveva rimanere intatto, per continuare ad alimentare, come un fiume di incessante benedizione, la realtà spirituale autoctona. Lo si è accennato in precedenza: dietro la realtà relativa, il nativo percepiva palpitante la presenza della Realtà assoluta. Tanto aspro fu il conflitto di queste due opposte concezioni, in cui la prima conduceva allo sfruttamento trasformativo teologicamente giustificato delle risorse, la seconda alla contemplazione, che lo scontro fisico fu inevitabile e lo fu, evidentemente, a danno degli aborigeni. Non si creda che l’ecologismo contemporaneo, portato avanti in gran pompa da “sconosciuti superiori”, abbia una qualche attinenza con l’autentica visione olistica dei nativi e, comunque, delle civiltà precedenti la moderna, siamo sempre di fronte ad argomenti seduttivi, veicolati da una “scienza quantitativa” (e quindi non sacra) che non propone nessuna lettura spirituale della Natura e il cui fondo epistemologico è pur sempre dualista. Semmai una profonda vicinanza con questo tema si potrebbe rintracciare nell’approccio del fisico Hans Bohm che ha distinto, nella prospettiva olistica accennata, un ordine implicito e un ordine esplicato, salvando l’unità del Reale e superando al contempo la fisica newtoniana, un parallelo piuttosto intrigante con la concezione primordiale della tela di ragno ipercosmica che abbraccia ogni ordine del reale.

Passiamo oltre per riprendere il tema precedente. Le radici di una certa fantascienza americana, secondo il citato Pagetti, riposano sul mito fondamentale della Frontiera, inteso come orizzonte da conquistare e da asservire secondo un disegno provvidenzialmente stabilito. Il limite d’espansione, prima concepito orizzontalmente all’ovest, poi all’intero pianeta, secondo il principio del destino manifesto, successivamente è traslocato, almeno immaginativamente, nello spazio celeste, secondo l’indagine di allora del ricercatore, in un processo per cui era necessario trasformare l’oppositore a questo progetto espansivo, ritenuto santo e giusto, in una entità demoniaca e assolutamente “altra”. Fu quindi “naturale” demonizzare il “selvaggio” (che si è trasformato nell’alieno quando la Frontiera si è spostata nello spazio) e negargli qualsiasi connotazione “umana”. Difatti questi esprimeva, nella sua ferina primordialità, una connotazione metafisica negativa, financo diabolica, opponendosi all'instaurazione della Gerusalemme terreste, una “città santa” concepita secondo le ottiche di una completa riscrittura dell’ambiente in chiave utilitaristica. Anche la forma di sussistenza economica aiutava a completare il quadro. L’indiano delle praterie - ma non tutta la “nazione” indiana che non sempre era nomade, né cacciatrice. ma utilizzava anche costruzioni stanziali e praticava l’agricoltura -,come società fondata sulla caccia e sulla raccolta, si limitava a prelevare quanto gli era bastevole per il suo ciclo di sussistenza, scandito dalle stagioni e dalla loro sperata clemenza. Il nuovo arrivato, ben diversamente, voleva, invece, non solo sussistere, ma altresì prosperare e quindi produrre e accumulare una ricchezza potabile e trasmissibile (quella che oggi costituisce la fortuna degli Stati Uniti), il segno tangibile, per alcune costruzioni filosofiche, come il calvinismo, dell’elezione premiale individuale e quindi dell’anticipazione della “grazia”, già in questa vita. Il possidente è un eletto, un amato da Dio e l’ambiente, ricco di opportunità in cui opera, è solo un mezzo donato a lui per la soddisfazione dei suoi fini, così l’uomo sperimenta l’apprezzamento che Dio gli rivolge.

La spietata caccia agli animali da pelliccia, che portò floridezza immensa a molti coloni, è stato solo uno di questi saccheggi indiscriminati, posti in essere in maniera totalmente scriteriata in un’ottica tutta centrata sul dominio dell’uomo sull’ambiente e sul profitto. Questo è un aspetto davvero sintomatico di questa mentalità accumulatrice. Non si tratta qui di fisime antropologiche ma di riemersioni testimoniali del danno prodotto dall’avidità reificatrice, che, mutata un poco la sensibilità contemporanea sul tema-refrain “ecologico”, ritrova odiernamente una collocazione comprensibile, e mostra un approccio completamente opposto, intorno alla comprensione del mondo animale. Questo è un altro elemento che dimostra l’alto grado di incompatibilità tra i due fronti, dal momento che l’animale, come si è visto, è parte integrale dell’alfabeto simbolico offerto dal grande libro della natura selvaggia, in grado di comunicare con l’uomo, iniziarlo e svelargli i disegni di Dio, quando, infine, addirittura, non è concepito e “vissuto” come un uomo con tunica d’animale.

Nella circostanza scegliamo queste significative parole espresse sul tema da un anziano nativo pellerossa, che, malinconicamente, ebbe a confidare all’intervistatore il suo dispiacere per l’incomprensione con cui era stigmatizzato il suo atteggiamento, pressoché reverenziale, verso gli animali: “Noi conosciamo quello che fanno gli animali, quali sono i bisogni del castoro, dell’orso, del salmone e di altre creature, perché molto tempo fa gli uomini hanno sposato degli animali e hanno acquisito tali conoscenze dalle loro spose animali. Oggi i preti [cristiani] dicono che mentiamo, ma noi ne sappiamo di più. L’uomo bianco è stato in questo paese solo per poco tempo e conosce ben poco degli animali; noi siamo vissuti qui per migliaia di anni e siamo stati istruiti molto tempo fa dagli animali stessi. L’uomo bianco scrive ogni cosa in un libro, così che non sia dimenticata; ma i nostri antenati si sono sposati con gli animali, hanno imparato i loro costumi e passato questa conoscenza da una generazione all’altra”. (Jenness, 1935, p. 29, citato in E. Comba in Tradizioni dell’Orso tra i Nativi nord americani). L’uomo quando preleva un esemplare dal mondo animale per la sua sussistenza, al contempo ristabilisce e rinsalda l’amicizia con gli animali, espressione propria della sindrome paradisiaca, perché ne rimette in circolazione l’anima.

Questo contenuto richiama altresì alcune delle parole di Hillman sul silenzio che è caduto unilateralmente nella comunicazione con gli animali, ed è l’espressione compiuta di un tardivo e sciagurato rimorso d’Occidente, do cui si fa portavoce questo ricercatore. La frase sottostante sottolinea, altresì, quanto sia netto il contrasto, tra la primordiale loquacità e il mutismo umano attuale, nel possibile dialogo uomo-animale, e come l’uomo abbia così gettato un baratro d’incomprensione incolmabile tra mondi, illo tempore, paradisiacamente comunicanti: “Chi sono gli animali che compaiono nei nostri sogni, e perché vengono a noi, proprio a noi che abbiamo trascorso gli ultimi due secoli a sterminarli regolarmente, a un ritmo sempre più rapido, senza pietà, specie dopo specie, in ogni parte del globo? Gli animali, quindi, non solo erano (e sono) ritenuti come soggetti “parlanti” complementari della società umana con pari dignità e quindi distinti in onorabili famiglie, ma assolvono, addirittura, al ruolo di iniziatori, come spesso è capitato di affermare, cogliendo un’altrui felice espressione (Pier Luigi Zoccatelli), che li qualifica come indicatori metafisici. Come si vede questo è il riconoscimento di un compito ben superiore a quello esclusivamente psichico, cui li ha confinati la psicanalisi. Questa possibilità di “sacra conversazione”, fu ritenuta la funzione principiale che giustifica la loro presenza nell’arte rupestre franco-cantabrica del paleolitico superiore, essi sono rappresentati quali esseri buoni per pensare e tale primordiale concezione ha valicato i millenni, espressa com’è, dalle significative parole dell’anziano autoctono prima  riferite e giustifica pienamente la pretesa lettura perennialista di Schuon, soprattutto se applicata, come nel caso di specie, alle società arcaiche crepuscolarmente ancora presenti nella contemporaneità. 

Schuon, come prima anticipato, è stato certamente uno dei precursori della ricoperta del primordialismo indigeno in chiave perennialista appunto, e quindi ammiratore di questi uomini, così vicini e, insieme, così lontani da noi, che, appunto erano dotati di una capacità di conoscenza immediata e preconcettuale, che “pregavano in un tempio intatto”. Uomini contraddistinto dalla capacità di giungere a in livello estremo di contemplazione, facoltà che sicuramente proveniva da un’equazione personale d’ordine geniale, propria dell’uomo “pontificale”. Una inclinazione spirituale che era “agevolata” dal fatto di essere immersi in un ambiente immacolato, che non era certo percepito come pausa, idonea a un momentaneo escapismo e quindi come parentesi da una “realtà” dis-animata, comunque approvata come corretta, ma come vero e proprio maestoso “specchio” del divino, che poneva l’uomo interiore del nativo nelle condizioni di “vedere” la realtà in divinis come l’Adamo primordiale prima di aver assaggiato il frutto proibito. **

Schuon ha trasferito, nei suoi scritti dedicati al tema, tutta la maestà della metafisica scaturente dalla contemplazione della natura vergine ed, essendo lui stesso poeta straordinario e notevole pittore, ha saputo compiutamente rendere il significato spirituale che poteva assumere la bellezza colta nel suo, pressoché intonso, stato primigenio.  Nessuna comunicazione è quindi possibile, tra le categorie antipodali di “selvaggio” e “civilizzato”, proprio quest’ultimo di epoche diverse e di diverse civiltà, ormai giunto nella sua piena fase dissolutiva moderna. L’uomo “civilizzato”, secondo la severa conclusione di Nasr, attraverso la catastrofe ecologica, ha prodotto il suo, parimenti catastrofico, suicidio spirituale, vista l’indissolubilità del rapporto che lega tra loro microcosmo e macrocosmo. Quando gli “occidentali” ruppero gli argini della loro dimensione territoriale e si protesero avidamente verso nuove terre invadendole, incuranti del fatto che queste fossero stabilmente occupate, nel presupposto che ciò che facevano rientrava nel paradigma dell’aquinate in tema di “guerra giusta”, scoccò davvero una nuova e infausta era. La supremazia di cui si sentivano legittimi investiti, teologicamente garantita, consentiva loro di procedere a rettificare il pensiero delle genti, incruentemente, laddove ciò fosse possibile, altrimenti con i mezzi propri della conquista. In ciò furono furono garantiti, nell’America meridionale, dalle procedure giuridicamente grottesche del requerimiento, che sostanzialmente imponeva una schiavizzazione totale delle popolazioni a totale beneficio degli occupanti invasori e dei loro lontani sovrani.***

Costoro così avrebbero maieuticamente generato, con l’altrui durissimo lavoro, la ricchezza profittevole, estraendola dal creato e, massimamente febbricitanti a causa della libidine aurea, sarebbero entrati infine in possesso in grandi quantità del pregiato metallo, correggendo e rendendo, infine, a loro potabile il mondo degli autoctoni, secondo le linee guida della loro conformazione mentale strettamente dualista.

Per i nativi del Nuovo Mondo, contrariamente, la natura intatta non era il mezzo per giungere a qualcosa, ma il fine da preservare per “qualcosa”: il futuro delle generazioni. Quello che l’uno voleva trasformare e quindi reificare, per l’altro era uno strumento di contemplazione da conservare, anche, anzi soprattutto, per le successive generazioni: il concetto di terra “presa in prestito”.

La Natura era la suprema opera di arte sacra e come tale pressoché intangibile e, per conseguenza, la Natura vergine, in quanto creata direttamente dal Grande Misterioso (o grande Sacro) rappresentava già in sé il santuario, il tempio intatto di cui detto sopra, per eccellenza, cui potevano tranquillamente e armonicamente conferirsi, senza contrapporsi, gli attributi di trascendenza e immanenza. Le “cose”, come sottolinea, Schuon sono  coagulazioni della sostanza divina, le loro radici hanno natura sottile e animica e, per mezzo di esse, si può risalire al loro prototipo luminoso e celeste: si giunge così alle essenze celesti muovendo dalla sostanza di  ogni cosa. La bellezza della Natura Vergine, ritenuta altrimenti come aspetto femminile della divinità, diviene, in quest’ottica di com-prensione. non solo l’espressione di una realtà sacra, ma, altresì, sacralizzante. Gli indiani del Nord America, nelle frange sopravvissute in cui è ancora possibile operare secondo gli antichi costumi, realmente sperimentano nelle loro visioni il salto ontologico proprio dell’iniziazione ed esprimono parimenti nei loro riti, nei loro simboli, ovunque sia possibile, la realtà di tale esperire differenziato. 

Non è presente la scissione, propriamente semitica, tra il “giardino” e il “mondo”, il mondo è il giardino, pur con tutte le sue asprezze, perché è lo sguardo dell’uomo interiore che vi si posa che lo ripristina nella sua aurea condizione, mostrando la trama filamentosa presente dietro le apparenze. Ciò può essere espresso dal simbolo retale dell’acchippasogni, che deriva dal mito del ragno tessitore di mondi, espressione specifica, tra le molte, della connessione universale.

Scrive a tal proposito H. Nasr:“...Per gli Indiani d’America la natura selvaggia, d’incantevole bellezza, del continente americano prima dell’avvento dell’uomo bianco era la cattedrale, in cui egli adorava il Supremo artigiano Wakan Tanka di cui contemplava le più grandi opere d’arte...Tale sensibilità alla barakah della natura e la contemplazione del cosmo quale teofania non son mai assenti là dove l’uomo pontificale vive e respira, perché la natura è un riflesso dello stato paradisiaco che l’uomo continua a portare nelle profondità del suo essere” (H. Nasr:2021, 143)

Nasr, come il citato Brown, è stato anch’egli iniziato da Schuon all’’ordine della  Maryamiyya e, presumibilmente, per questo utilizza nella circostanza il termine islamico barakah (letteralmente benedizione) che sta a indicare la trasmissione d’una influenza spirituale d’ordine iniziatico, che, di norma, nel mondo islamico, proviene, o dal profeta stesso o da un sant’uomo o, rarissimamente, da un essere soprannaturale, come nel caso attribuito alla narrazione di Schuon; questa potente influenza è in grado di produrre un mutamento ontologico nel soggetto prescelto che, con ciò, appunto, viene investito di una vera e propria “grazia”.

fig. 5

La “natura selvaggia” come “iniziatrice” secondo la proposta di Nasr.  Secondo  Philips Scherrard  per la costruzione del nostro mondo secolarizzato era indispensabile procedere alla desantificazione della natura e così ne scrive:”..affinché la scienza moderna potesse venire alla luce la natura doveva essere considerata come un oggetto separato da tutte le radici ontologiche del divino, ovvero da qualsiasi partecipazione al suo ambito non fisico” (P. Scherrard:2012, 94) .

Nel caso di specie circostanza, e davvero singolarmente, che sia la Natura stessa, intesa come anima mundi, immaginiamo, o un particolare luogo ierofanico della stessa, a determinare, nel soggetto qualificato, un’influenza, in modo di rivelarsi a lui in divinis. Nasr ha più volte accostato il pensiero islamico, nella sua declinazione sufica, alle concezioni degli indiani del nord America, senz’altro sotto l’influenza di Shuon, ma non si deve credere però che ciò costituisca un suggerimento isolato nel campo degli studi.

Alberto Ventura e Marco Toti e, ancor prima di loro, René Guenon, hanno proposto delle sorprendenti analogie, che nessuna forma di storicismo può giustificare, tra le diverse declinazioni di una forma tipica del “pregare” nativo, detto preghiera silenziosa, e le tradizioni occidentali ed estremo orientali (es. esicasmo, sufismo) esprimenti un consimile atteggiamento, come di vedrà nel prossimo paragrafo. Questo vedere la realtà “nascosta sotto  le cose” è ben testimoniata da diverse fonti che Schuon riporta nel suo scritto dedicato allo sciamanesimo pellerossa. Così troviamo scritto: ”Ho visto più di quanto possa dire e ho compreso più di quanto abbia visto; difatti ho visto il modo sacro le ombre di tutte le cose nello Spirito e la forma delle forme come devono vivere insieme, simili a un solo Essere e ancora “Crazy Horse andò nel mondo dove nulla è, eccetto gli Spiriti (le idee eterne) di tutte le cose. Quello è il mondo reale che si trova (nascosto) dietro questo (il nostro), e ogni cosa che vediamo è come un’ombra di quel mondo”; “Sapevo che il reale era lontano (dal nostro mondo) e che il sogno offuscato del reale era quaggiù (F Schuon: 1996, 77, nota 10). Davvero si tratta di aver raggiunto stati dell’essere ben oltrepassanti lo “stato umano” e la dualità delle sue rappresentazioni fantasmiche.  

Invocazione silenziosa (Silenzio e solitudine)

“Il primo effetto dell’iniziazione nel tempio mistico del mondo non è una conoscenza, ma un’impressione, un sentimento di timore reverenziale e di ammirazione alla vista dello spettacolo divino offerto dal mondo visibile”

(Aristotele)

Alberto Ventura in un suo scritto, dedicato a una linea sufica con molte attinenze con le vie yogiche estremo orientali, sottolinea come questa particolare via utilizzi un dhikr puramente silenzioso e mentale, una via quindi più “sobria” rispetto agli altri percorsi comunque sufici, (cfr. Alberto Ventura: 2019, 32) e, sorprendentemente, come si vedrà, tale sottolineatura “intimistica”, trova puntuale corrispondenza nel fondamentale articolo di René Guénon dal titolo Silenzio e solitudine, comparso in Etudés Traditionelles del marzo del 1949 e che si trova ora riunito nella preziosa raccolta pubblicata da Adelphi, intitolata “Il “Demiurgo”, intervento che quindi costituisce, infine, la “polpa” dello scritto che qui si presenta.

In questo breve e succoso testo il Guénon si rifà ai contenuti di un libro di un americanista, per così dire, “aperturista”, nelle sue considerazioni sulla civiltà indigena, che risponde al nome di Paul Coze, autore di un lavoro “illuminato” dal titolo L’oiseau Tonnere. Questo scritto, comunque estraneo alla concezione primordialista guénoniana, ha offerto comunque al metafisico di Blois il materiale idoneo per operare un cospicuo intervento su un argomento cultuale allora (ma anche ora) piuttosto ignorato e soprattutto incompreso della spiritualità nativa, con ciò dimostrando l’autore di precorrere, in maniera assai lungimirante, i tempi e offrendo, parimenti, un indirizzo di ricerca in grado di colmare una lacuna evidente negli studi. Lo stesso Schuon in Sguardi sui mondi antichi aveva dedicato poche, sebbene significative, righe alla “preghiera silenziosa”.  

Gli Indiani del nord America sono conosciuti soprattutto per i loro riti collettivi, che assumono, a occhi insipienti, un carattere fortemente spettacolare, ovvero coreografico, in quanto sono assai movimentati, e, all’apparenza, incontrollati nonché, a volte, addirittura drammatici. La celebre danza del sole, in cui molto sangue viene sparso a beneficio dell’intero creato con tutti i suoi abitanti, è un esempio di ciò. Non a caso per questa sua apparente ferinità questa “danza” è stata fortissimamente condannata e repressa dagli occupanti europei, senza che si sia provato a comprendere, né la complessità delle componenti di questo rito, in cui ogni elemento non è certo lasciato al caso o, all’estro individuale, né la profondità dei suoi contenuti simbolici, afferenti la sfera sacrificale. Tali forme cultuali collettive, come appena si diceva, non sono però le sole a essere praticate, in quanto anche presso questi lidi, esiste una forma di comunicazione individuale con la suprema Alterità dal carattere estremamente riservato e che può essere accostata, come detto e adeguatamente motivato, al dhikr della tradizione Naqshbandiyya.

La preghiera silenziosa, o Adorazione silenziosa, così può definirsi questa pratica, è una forma di comunicazione con il Grande Spirito a carattere marcatamente individuale e indica un rapporto privilegiato e speciale, molto intimo, tra l’uomo e il suo Creatore. Il termine “preghiera”, comunque, come sottolinea il Guénon, è fuorviante e quindi inadeguato in quanto, nel caso di specie, eckhartiamente non si chiede alcunché alla deità , il che accosta evidentemente questo metodo all’invocazione interiore, propria del dhikr e quindi a quella forma “discreta” e concentrata di comunicazione di cui ci ha partecipato Ventura nelle righe appena precedenti. Da un testimone, tal Eastman, un sioux “civilizzato”, sgorga questo incomparabile frammento di sapienza nativa: “L’adorazione del Grande Mistero era silenziosa, solitaria, senza complicazione interiore; era silenziosa perché ogni discorso è necessariamente debole e imperfetto. Quindi le anime dei nostri antenati raggiungevano Dio in una adorazione senza parole; era solitaria perché essi pensavano che Dio è più vicino a noi nella solitudine, e non c’erano preti per fare da intermediari fra l’Uomo e il Creatore”.

Tuttavia, al di là della obiettiva suggestione della frase riportata, essa una volta riguardata da un punto di vista “henologico”, delinea il carattere sovraformale dell’“oggetto” cui l’adorazione è rivolta. Il Silenzio, infatti, riferito al Principio è, in buona sostanza, uno stato di non-manifestazione e quindi, quando si allude al Grande Mistero o Grande Misterioso, è a questo principio imprincipiato che ci si riferisce e quindi alla “Deità” e non al deus, inteso come determinazione formale della Deità. Tant’è che è detto: “il silenzio sacro è la voce del Grande Spirito”. Ma perché, è da chiedersi, questa preghiera assume un aspetto iniziatico e, quindi, va ben oltre l’intenso spontaneismo dell’anima desiderante?

Secondo il Guénon ciò accade perché, evidentemente, tale silenzio interiore, necessario per giungere in questo stato spirituale, non è una affatto mera assenza di suono, il che, sotto diversi aspetti, potrebbe costituire una forma inquietante e patologica, piuttosto, nella cornice dei Nativi, quel silenzio, inteso come contrazione del suono in una sorta di unico punto, rappresenta “il perfetto equilibrio delle tre parti dell’essere”, ciò che potrebbe venir tradotto come equilibrio tra corpo, anima, e spirito, in cui ogni moto è riassorbito nella sua origine. Mentre scrivevamo queste note, forse per non casuale circostanza, è stato pubblicato un breve ma incisivo articolo dedicato a R. Murray Schafer, ideatore della concezione del Paesaggio sonoro, in cui è stata ben messa in luce la concezione “musicale” del “silenzio” che desideriamo qui riportare, perché, davvero, si attaglia perfettamente alla circostanza. Così riporta il nocciolo del pensiero di Schafer Antonello Colimberti: ”Ricordiamo anche le ultime parole del volume (La Musica dell'Aldilà): <<Ogni indagine sui suoni non può concludersi che con il silenzio. Non il silenzio vuoto e "negativo", ma il silenzio "positivo" della perfezione e della pienezza. Proprio come l'uomo aspira a raggiungere la perfezione, così tutti i suoni tendono al silenzio, alla vita eterna della Musica delle Sfere. Si può ascoltare il silenzio? Sì, se potessimo estendere la nostra consapevolezza fino a comprendervi l'universo e l'eternità, allora potremmo ascoltare il silenzio. Con la pratica della meditazione, un poco alla volta, i muscoli e la mente si rilassano e tutto il corpo allora si apre e si fa orecchio. Quando lo yogi indiano si libera dai propri sensi, egli intende l'anāhata, il suono "non percosso". Allora la perfezione è raggiunta. I geroglifici segreti dell'universo vengono rivelati. Il numero diventa udibile e riempie chi lo riceve di musica e di luce>>. LA “QUATERNITÀ” E IL QUARTETTO (di R. Murray Schafer, Simmetria, 18 Agosto 2021)

La solitudine, la solitudine iniziatica, parimenti, offerta da ambienti incontaminati, da luoghi mai toccati dalla mano dell’uomo, gravidi d’ogni possibile ierofanica presenza, costituisce un necessario pendant, un corollario del silenzio, in quanto il silenzio è necessariamente preceduto e/o accompagnato dalla solitudine, un atto interiore inteso come ritiro dalla molteplicità, un ritrarsi per giungere infine al non-manifestato, al non duale, alla tenebra luminosa: uno stato assoluto e non condizionato proprio di chi ha raggiunto la liberazione totale. In ciò Guénon osserva come l’elemento psichico, sempre perturbante, sia tenuto a bada proprio dalla componente spirituale e quello in cui ci si imbatte: “quanto di più distante dalla volgare “magia”, che è stata spesso loro attribuita. E che è anche l’unica cosa che in loro hanno creduto di vedere osservatori profani e superficiali, senza dubbio perché essi stessi non avevano la minima idea di che cosa potesse essere la vera spiritualità (Guenon: Simboli 70). Parole forti, quelle del Guénon, perché, così esprimendosi, inequivocabilmente riconduce questa pratica nell’empireo della più alta e insuperabile spiritualità umana, varcando persino ogni limite ontologico per sfociare, come detto, superando ogni dualismo, nell’henologico“

Alberto Ventura aggiunge ulteriori utili considerazioni a quanto scritto da Guénon nel suo volume Lo Yoga dell’islam, scrivendo: “Si può dire che la natura puramente interiore dell’invocazione silenziosa permette di raggiungere più stabilmente l’obbiettivo a causa della sua minore  dispersione attraverso gli indefiniti stati dell’essere, creando, per così dire, un canale diretto e senza interferenze con il Principio metafisico Supremo” . Ciò è in puntuale parallelo con la concezione nativa prima esaminata. In particolare è proprio Ventura a riproporre il pregresso indispensabile distinguo guénoniano tra psiche e spirito, osservando come l’adorazione silenziosa dei popoli del nord America coincida pressoché perfettamente con la linea sufica dove si esplica l’analoga pratica, la citata Naqshbandiyya, dal momento che essa: “si oppone a ogni dispersione delle potenze dell’essere, esclude lo sviluppo separato e più o meno disordinato dell’uno e dell’altro dei suoi elementi, e soprattutto quello degli elementi psichici coltivati in certo qual modo per se stessi, sviluppo che è sempre contrario all’armonia e all’equilibrio dell’insieme” in quanto con questo metodo si raggiunge una totale imperturbabilità dagli eventi esterni e, mercé questo ‘culto puro’: “il praticante può cogliere il Principio nella sua più assoluta e non duale unità” (A. Ventura: Lo Yoga dell’Islam,  47)

Davvero, non v’è altro da aggiungere

fig.6

L’aquila pezzata, detta uccello del tuono, può essere considerata il simbolo del logos nell’area della cultura lakota. E’ questo infatti l’animale che Wakam Tanka, il Grande Sacro, ha scelto per comunicare con gli uomini. Non esiste una differenza di nobiltà tra uomo e animale, quest’ultimo è sempre il simbolo di una realtà retrostante d’ordine spirituale. Una analogia, a proposito del logos, si offre con il cristianesimo e precisamente nell’evangelista Giovanni, autore del Vangelo del Logos, il cui simbolo è, com’è noto, l’aquila. L‘uso di penne d’aquila, presente cospicuamente nel simbolismo dei nativi delle praterie e delle foreste, spicca fortemente nella danza del Sole. Il danzatore, congiunto all’albero mediante corregge, si trova così collegato al Cielo per il potere del logos aquilino, l’anima è dunque comunicante con “Cielo”. Ne scrive Schuon:” Il danzatore, in tale rito, è simile a un’aquila librantesi verso il sole; col suo fischietto in osso d’aquila  egli emette un suono stridente e lamentoso mentre imita in una certa maniera il volo dell’aquila  con le piume che ha tra le mani”(Schuon:1996, 80)  Ricordiamo che nelle ossa permane il “residuo metafisico” del singolo essere e “suonarle” significa “rianimarle”.     

Di un altro rito vorremmo ora brevemente parlare, integrando il cenno già fatto in precedenza, un rito che s’incentra su un oggetto ritenuto dono divino, ovvero la già menzionata sacra pipa, in cui, congiuntamente, il simbolismo della croce gioca un ruolo operativo essenziale. Con ciò, evidentemente, si vanno a toccare molti aspetti della spiritualità iniziatica universale, dal momento che la croce è davvero un simbolo planetario,  un significante dai molteplici, gerarchici significati.

La donatrice dell’oggetto, che per mera suggestione definiremo “graalico”, è, come antecedentemente detto, una “donna”, trasformazione umana di un bianco bisonte, una donna divina, di inumana bellezza che come si racconta nella fondante locale ierostoria, comparve a due cacciatori, uno emblema della saggezza, l’altro della cupidità umana e quindi destinato a una punitiva morte per un suo sconsiderato atto sacrilego. Al prescelto la teofanica entità consegnerà “il pacchetto” dei riti fondanti la spiritualità lakota, quegli stessi, evidentemente, che poi Alce Nero fu “costretto” a porre per iscritto in memoriam, per salvarli dall’incomprensione o dall’oblio, avendone finalmente dato una definitiva e incontrovertibile “interpretazione autentica”.

In particolare fulcrale è appunto l’oggetto consegnato, la pipa cerimoniale, strumento che sebbene apparentemente di domestico aspetto, fu riconosciuta dai nuovi venuti come  un simbolo di grande valore identitario e quindi coesivo della stirpe e per questo perseguirono sistematicamente ogni cerimonia in cui questa poteva essere impiegata, al fine di impedirne qualsiasi uso rituale. Ciò è in parallelo con i tamburi sciamanici nell’area boreale euroasiatica, entrambi mezzi di comunicazione con l’Altrove e quindi Axis mundi, che dovevano essere resi inutilizzabili per annichilire ogni possibile contatto o influenza  con l’Alterità, evidentemente immaginata, come da consolidata abitudine, quale orrenda spelonca di demoni, o giù di lì. In parte l’opera di rimozione riuscì quasi completamente nel suo intento, stroncando, infine, ogni coesione spirituale e lacerando irrimediabilmente il delicato tessuto cultuale di questi gruppi umani: anch’essi, alla fine e a loro modo, furono “reificati”. Fu come spezzare l’axis mundi, l’uomo pontificale nativo, secondo la felice definizione ripresa da Nasr, fu diviso finalmente in due, reso inattivo e quindi inservibile.

Per comprendere quanto fosse profondamente inquisitorio e sistematico il controllo della cultura egemone su quella nativa subalterna, basti ricordare la sistematica persecuzione  di un semplice canto ludico, il cosiddetto “canto di gola”, piuttosto diffuso tra la componente femminile dei popoli pescatori all’estremo settentrione del continente americano. Questo canto è stato associato dai missionari cristiani a pratiche religiose demoniache, in quanto questi pastori, dagli occhi deformati dal disprezzo etnico, vedevano in esso una forma di sciamanesimo e comunque di deprecato animismo, quando in realtà esso è una solo una “innocua” tradizione che vede lo sfidarsi due bambine, o di due donne, che, poste una di fronte all'altra, gareggiano nell'imitare i suoni degli animali e dell'ambiente: perde chi ride per prima.

Tutto qui.

Tuttavia, persino in tempi recenti, ovvero dal principio del XX secolo fino agli anni settanta, per diretta influenza dell’autorità religiosa, la pratica del katajjaq (così si denomina in lingua locale il “canto di gola”) fu severamente proibita e altrettanto severamente repressa. Solo grazie alla clandestinità di alcune rare interpreti, che lo coltivarono in segreto, avvenne che questa particolare tecnica sopravvisse, per riesplodere in questi ultimi anni in pieno fulgore. Questo valga come aneddoto dimostrante la capillarità della rimozione culturale operata e il suo (quasi) successo.

Come mostra Marco Toti, in un suo scritto, lo strumento rituale della Sacra Pipa s’intreccia con il simbolo della croce. Il calumet adempie a molti poliedriche funzioni, assolve quindi  a uno scopo purificatorio, oltreché “espansivo” e “unitivo” e l’intero rituale. in cui è presente, mostra la relazione funzionale che la stringe con i simboli cogenti di altre tradizioni. Così nell’ Hanblecheyapi (“pianto rituale per avere una visione”), avviene che “per tutto il giorno il lamentatore manda la sua voce a Wakan-Tanka per chiedergli aiuto camminando, come ho descritto, sui sacri sentieri che formano una croce. Questa forma ha molto potere perché ogni volta che torniamo al centro sappiamo che è come se ritornassimo da Wakan-Tanka, che è il centro di tutto; e anche se può capitarci di pensare che ci stiamo allontanando da Lui, prima o poi noi e tutte le cose dovremo tornare a Lui”. Sono evidenti i parallelismi annunciati. Così il tracciare una croce sul suolo richiama il simbolismo spaziale dell’ordinamento del cosmo, il pianto rituale si accosta alle “lacrime del secondo battesimo”. Pressoché universali d’altronde si presentano i temi della “cerca del centro”, connesso inevitabilmente  al “simbolismo del cuore” e, in generale, con il tema della quaternità, su cui Jung spese molte considerazioni nei suoi studi. Altri elementi significativi, e comparativamente accostabili, sono altresì presenti nel complesso della cerimonia. Si nota, così la pratica dell’attenzione come “ricordo attualizzante” del “Grande Misterioso”, che, per esempio, è esattamente propria del dhikr (costituisce il suo significato etimologico e quindi il senso della prassi anamnestica, ossia il ritorno alla “confidenza paradisiaca” delle origini). La salita solitaria su una montagna da parte del lamentatore (che si toglie mocassini e perizoma, perché evidentemente calca un suolo sacro), con la pipa, e la recitazione, simultaneamente al diuturno pianto rituale, della formula “Wakan-Tanka onshimala ye oyate wani wachin cha!” (“O Grande Spirito, abbi pietà di me affinché il mio popolo viva”) richiama evidentemente, per alcuni aspetti. precipue espressioni di altrui “mistiche” operative, nonché l’oltrepassamento di diversi stati dell’essere gerarchicamente sovraordinati. Tutto ciò sembra riassumersi, senza insistere pedantemente nei confronti, fin qui disordinatamente accennati e quindi da utilizzare come meri richiami di natura non sistematica, nella conclusione di Toti, il quale asserisce che i contenuti di queste cerimonie native “rivelano stupefacenti analogie con l’ascetica, il simbolismo cristiano” soprattutto con la “preghiera del cuore” cristiano-ortodossa, un aspetto sul quale l’autore ha davvero speso molte approfondite considerazioni nel corso della sua pluriennale carriera.

Vogliamo e dobbiamo fermarci qui, ben lieti d’aver speso qualche parola su un tema così coinvolgente, come quello della sapienza, insieme primordiale e attuale, dei popoli nativi che, non ancora estirpati del corpo e soprattutto dell’anima, sono tornati a comprarsi, ettaro dopo ettaro i loro luoghi d’origine: in sostanza ciò che era loro. Alcune delle terre, rimaste tuttora vergini, di cui erano stati proditoriamente spogliati, sono ora di nuovo nella loro disponibilità e sono utilizzate secondo gli antichi costumi. Forti di questo “segno” questi nativi attendono, con pazienza infinita, che torni l’era del bisonte bianco, come, in altre latitudini, si aspetta il ciclico riapparire del cinghiale bianco.

Il “mondo” che vediamo sgretolarsi quotidianamente intorno a noi, giustifica pienamente questa attesa e la rende persino spasmodica...

-------------------

 * Stralcio della lettera che l’attore Marlon Brando presentò tramite un’attivista indiana Sacheen Littlefeather alla cerimonia della consegna degli Oscar nel 1973 (Brando lo aveva vinto per l'interpretazione del personaggio di Corleone nel Padrino) e lo rifiutò in relazione alle modalità con cui Hollywood aveva trattato finora gli indiani nei suoi film ma anche rispetto ai recenti (di allora) avvenimenti di Wounded Knee. La conclusione era che la macchina cinematografica era attrezzata al fine di «Fare delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»

"Per duecento anni abbiamo detto agli Indiani, che si battevano per la loro terra, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi: ‘deponete le armi, amici, e vivremo insieme’; quando loro hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito, li abbiamo privati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato ‘trattati’, e che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita (...). Quando i bambini indiani guardano la televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi che non possiamo immaginare”.

 

**Da Onìya Wakȟáŋ (Respiro Sacro)

Come figli della Natura, abbiamo sempre considerato la concentrazione della popolazione come la madre feconda di tutti i mali, morali così come fisici. Non è stato, quindi, solo per ignoranza o per mancanza di lungimiranza che non abbiamo edificato città stabili o sviluppato una civiltà basata sui beni materiali. Crediamo da sempre che il cibo sia prezioso ma che la sazietà uccida; che l’amore sia un bene ma che la lussuria distrugga; e che il contatto troppo stretto con i propri simili causi la perdita di forza spirituale, non meno temibile delle epidemie che si sviluppano dove troppe persone vivono in luoghi malsani. Tutti coloro che vivono parecchio all’aria aperta, Indiani o no, sanno che si accumula una forza magnetica e intensa nella solitudine, ma che essa si volatilizza quando si vive in mezzo agli altri. Anche i nostri nemici hanno riconosciuto che, per via di una certa forza e di un equilibrio innati, del tutto indipendenti dalle circostanze, gli Indiani d’America sono ineguagliati tra tutte le razze.”

 

***Per dare una sorta di parvenza giuridica all’occupazione delle terre altrui i giuristi regi spagnoli s’inventarono nel 1512 la formula del requerimiento (ingiunzione). I contenuti dell’atto venivano gridati ai nativi, magari dalla tolda delle navi in latino e spagnolo, alla presenza di un notaio ed erano, ovviamente, quasi sempre incomprensibili ai locali. Qui si cita solo una parte della lunga formula. quella che riguarda la “guerra giusta”, della cui necessità sant’Agostino si era fatto portavoce e dopo di lui anche San Tommaso e che comprendeva come legittimo anche l’atto l’imboscata che si reputava biblicamente giustificato: “...Ma se voi non faceste ciò, o in ciò voi interponeste maliziosamente delle dilazioni, vi faccio sapere che con l’aiuto di Dio noi interverremo potentemente contro di voi, e vi faremo guerra da tutte le parti e i modi che potremo, e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa e delle Loro Maestà, e prenderemo le vostre persone, e le vostre mogli e i vostri figli e li faremo schiavi, e come tali li venderemo e disporremo di loro come le Loro Maestà comanderanno, e vi prenderemo i vostri beni, e vi faremo tutti i mali e i danni che potremo, come si fanno ai vassalli che non obbediscono né vogliono ricevere i propri signori e oppongono loro resistenza e disobbedienza; e dichiariamo che le morti e i danni che faranno seguito a ciò saranno attribuiti alla vostra colpa e non alle Loro Maestà, né a noi, né a questi signori che vengono con noi. E chiediamo al presente notaio che ci dia un certificato firmato di ciò che diciamo e richiediamo, e preghiamo i presenti che siano testimoni.»

 

---

Bibliografia:

Joseph Epes Brown L'eredità spirituale degli Indiani d'America, Lindau Torino 2021

AA.VV. (a cura di Eduardo Ciampi): Antropoecologia, Terre Sommerse, Roma,

Antonio Bonifacio: L’uomo rosso e la tradizione, Simmetria, Roma. 2008

Josefh Epes Brown: La sacra Pipa i sette riti dei Sioux Oglala, Mediterranee Roma, 2021

René Guénon: Simboli della scienza sacra, Adelphi. Milano, 1986

René Guénon: Il demiurgo, Adelphi Milano, 2007

Setareh Houman: Reflets Morcelés dans le Miroir Fissuré De La Nature, Les enjeux d'une crise écologique dans le pérennialisme américain (academia edu)

Setareh Houman: De la philosophia perennis au pérennialisme américain, Arché, Milano, 2010.

Seyyed Hossein Nasr: Conoscenza sacra: Mediterranee. Roma, 2021

Seyyed Hossein Nasr: L’uomo e la Natura, Rusconi Milano, 1977 

Frithjof Schuon: Sguardo sui mondi antichi, Mediterranee, Roma. 1996

Frithjof Schuon: Il Sole piumato, Religione e arte degli indiani delle praterie, Mediterranee, Roma, 2000 Wilhelm Schmidt: Manuale di storia comparata delle religioni Iduna Milano 2021

Philips Sherrard: Uomo e Natura; Storia di uno stupro, Irfan Edizioni, Roma, 2012

Marco Toti: Dal tradizionalismo al perennialismo. Simmetria Istitute Library Museum

Marco Toti: "Primordialismo" indiano e "civilizzazione" occidentale Academia Edu

Marco Toti: “Religious Studies” e “religious awakening”. F. Schuon e la sapienza nativo-americana Academia edu

Alberto Ventura: lo Yoga dell’Islam, Edizioni mediterranee, Roma, 2019  

Arthur Versluis: Terra sacra. Religione e natura degli indiani d'America, Mediterranee, Roma, 2018


Stampa  
Image

NEWSLETTER

Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato sulle novità della Fondazione!

Mappa

Publish modules to the "offcanvas" position.