Premessa
Non ho mai approfondito le teorie delle dottrine economiche, politiche e sociali, forse perché anche da giovane (cioè nel giurassico) le ho sempre trovate noiose, comprese quelle celebratissime che hanno dato luogo a tutti i vari ibridi dei moderni sistemi cosiddetti “capitalisti” o “socialisti”. In realtà le poche applicazioni di teorie economico-sociali che conosco le ho vissute sulla pelle, quando per “necessità” e non per virtù, mi sono trovato a condividere progetti complessi, a dare ed eseguire ordini su progetti condivisi, e anche a dare ed eseguire ordini su progetti che non tutti condividevano. Tali attività, oggi eufemisticamente chiamate manageriali o gestionali, spostano flussi di denaro e coinvolgono uomini e mezzi più o meno tecnologici, ossia mobilitano e spostano “risorse umane” e materiali A tal proposito ritengo che il termine “risorse umane” sia particolarmente equivoco; trovo assai avvilente che un uomo possa essere considerato una “risorsa” attribuendo a tale termine il senso di “valore economico e sociale” e cioè, indirettamente, finalizzandolo al lavoro. Perciò, al di là dello scarso amore per le teorie gestionali, forse a causa dei ruoli che mi sono trovato a svolgere, tali teorie mi hanno notevolmente impegnato in gioventù e nella maturità[1].
Un sistema sociale che consenta la serena convivenza di più esseri viventi, gerarchicamente disposti secondo un ordine accettato e, appunto, condiviso, sia esso limitato ai membri di una famiglia o di un clan o sia esteso a un'impresa, a un gruppo, a una nazione intera, deve “funzionare”, partendo dal soddisfacimento di determinate esigenze individuali e collettive, cercando d’integrare le une con le altre. Congiuntamente a tale “funzionalità” ci dovrebbe essere la felicità, o quantomeno la soddisfazione di coloro che operano nel sistema, in qualsiasi punto (o livello gerarchico) si trovino a vivere e operare; ma a quanto pare, si tratta di un obiettivo difficilissimo da realizzare in quanto gli interessi che entrano in conflitto sono realmente molti.
Fin qui niente di speciale: milioni di uomini nel corso della storia hanno avuto esperienze analoghe a quelle del sottoscritto. Ma forse non tutti si sono posti il problema di come conciliare una dottrina sociale con le aspettative di libertà individuale e collettiva e col perseguimento di un ideale realizzativo. Altri, che, all’interno di imprese o strutture sociali, si sono posti il problema (in genere in chiave eminentemente materialista) hanno pesantemente equivocato termini come realizzazione o liberazione, al punto che la realizzazione è stata sempre più spesso abbinata a obiettivi quali il successo, il denaro o il potere. Per contro, le esegesi dei grandi mistici e dei grandi iniziati parlano spesso di “realizzazioni spirituali” (quindi non direttamente né necessariamente connesse ad alcun tipo di successo mondano) avvenute in condizioni “estreme” (ad esempio in prigione) dove la libertà (come noi la intendiamo socialmente) aveva ben poco spazio per esprimersi; eppure, a volte, proprio in queste situazioni estreme, hanno trovato spazio la serenità e la felicità, nonostante la costrizione e la mancanza di libertà (esteriore). Il che dimostra che libertà e felicità non sono dei “traguardi” coincidenti e che mentre in una dimensione spirituale elevata hanno forse modo di coniugarsi, ciò non avviene nella dimensione “mondana”. Ne deriva che libertà e felicità sono percepibili in maniera assai diversa nelle aspettative interiori ed esteriori quotidiane. Ciò che per qualcuno è un vincolo insopportabile per un altro può essere una gioia straordinaria. Ad esempio, qualcuno si sente libero se può urlare e far rumore mentre qualcun altro si sente libero e felice solo nel silenzio. Indubbiamente se mettiamo questi due individui vicini (cioè creiamo un embrione di società) avranno dei grossi problemi a conciliare le reciproche idee di libertà e felicità. Se ne desume che ogni volta che la ricerca della libertà e della felicità diventano sociali sarà necessario esplorare i confini della possibilità di scelta.[2]
L’esperienza istintuale e la scelta di vivere o morire
Il primo contatto con tale possibilità, evidente fin dall’infanzia, è suggerito dall'impellenza di soddisfare i bisogni primari, comunemente associati alla “sopravvivenza”, quali fame, bisogni fisiologici e subito dopo piacere, dolore, etc. Tali istinti-bisogni si avvalgono della percezione sensoriale, l’unica arma iniziale che l’uomo ha per relazionarsi a se stesso, alle sue necessità, al mondo per ascoltare e poi misurare cosa lo spinge internamente ed esteriormente. Tale arma gli consente anche di misurare ciò che lo circonda e scoprire quanto la sua volontà può essere congrua al raggiungimento di uno scopo, assecondando o contrastando il bisogno che via via si manifesta. Ora, che tale percezione sia reale o faccia parte del sogno di Brahama poco importa. Quello con cui impattiamo violentemente appena nasciamo (e su cui fisiologi e filosofi si trovano abbastanza d’accordo) è proprio la percezione sensoriale: del bisogno, del mondo, d0el piacere, del dolore etc.. E, in associazione alla necessità, sorge la paura, come raccontano le cosmogonie orfiche. La paura di perdere le sicurezze: prima di ogni altra quella di vivere. Anche se il bambino inizia il suo processo di esplorazione di se stesso e del mondo partendo dall’istinto e anche se la logica deduttiva sopravviene solo in seconda battuta, una conseguenza della percezione sensoriale coincide con l'evidente impossibilità di scegliere o meno la libertà di vivere, poiché il potente istinto di sopravvivenza è superiore a ogni altro. E tale istinto prosegue, più o meno intensamente per tutta la vita. Forse può sembrare strano e psicologicamente scorretto definire “vivere” come scelta di libertà primaria: ma dobbiamo metterci filosoficamente d’accordo su cosa si intenda per “vivere”.
Proviamo con una definizione semplice, che possiamo trarre da qualsiasi dizionario di filosofia: vivere, ovvero forma di energia che si rinnova alimentandosi con energia traendone piacere, dolore, esperienza. Il vivere è applicabile al regno animale, al regno vegetale, al regno inorganico. Mentre per il primo siamo certi di poter individuare il piacere o il dolore, per il secondo siamo sicuramente meno attenti e consapevoli e per il terzo che riguarda la “materia” non è difficile fare una valutazione in merito a parametri a noi conosciuti. Fino a Cartesio e a Hobbes, i concetti di Anima e Vita finiscono assai spesso per coincidere. Dopo di loro, il meccanicismo li separerà l’uno dall’altro. Indubbiamente l’essere che acquista coscienza del percepire e quindi da ciò deduce la sua integrità egoica e la coscienza di vivere, si trova ben presto a domandarsi chi è che ha scelto di farlo vivere, perché sta “vivendo”, e se lui stesso ha partecipato o meno a tale scelta. In lieve dissonanza con quanto dice Aristotele, nel De Anima, che chiama Vita “la nutrizione, la crescita e la distruzione che si originano da sé stessi” ci permettiamo di notare che qualsiasi modalità di vita avviene sempre a scapito di altre forme di vita, trasformandole in attività fisica, psichica, intellettuale, metafisica, spirituale etc.. Quindi il precipizio nel cosiddetto “mondo delle forme” comporta un'interrelazione a volte asprissima tra le forme stesse, che a volte si sopraffanno, si prevaricano, si mangiano le une con le altre: assai più raramente collaborano e ciò in genere accade solo per reciproca convenienza. Assai più raramente collaborano per amore. Ma quest’ultimo è un termine assai misterioso, sulla cui natura divina si è scritto moltissimo, ma la cui conoscenza resta nascosta negli abissi dell’anima.
L’impressione di essere stati sbattuti nell’esistenza in ragione di un ciclo karmico indefinito, che di per sé costituisce una prigione da cui è necessario uscire, anziché una libertà, permea tutte le culture induiste e buddiste. Ma, anche in Occidente, sia i mistici che i filosofi si sono domandati quanto la possibilità di vivere e d’esistere sia da considerarsi un dono… o una dannazione. Per tale ragione la Vita viene spesso descritta come una tragica precipitazione nella manifestazione (in seguito a una separazione dall’uno, a un errore, a un “peccato” etc.) oppure, in modo assai più spiccio, una valle di lacrime o addirittura un inferno. Resta il fatto che, una volta che la coscienza di vivere sia entrata nel circuito percettivo-deduttivo, sia che tale vivere venga considerato come una scelta, sia che appaia come un'imposizione, si desidera mantenerlo, possibilmente per sempre; e che a volte sia necessario distruggere altre vite per conservare la nostra sembra un problema secondario rispetto alla scelta primaria di conservare la “nostra” esistenza. L’anelito all’eterno, forse, prima di diventare un problema filosofico è un principio di conservazione di sé, della vita com’è. Vita a cui siamo afferrati strenuamente e che siamo disposti a difendere calpestando le libertà e a volte la vita di chiunque.
Infatti, si le teorie meccanicistiche che quelle spirituali affermano che a partire dal momento in cui qualcosa inizia ad avere coscienza di “vivere”, nel modo che abbiamo cercato di definire, difficilmente poi si accetta di morire, a meno che il dolore sia talmente intenso da far preferire la morte. Anche se intendiamo la morte non come scomparsa definitiva dell’essere, in tutte le sue valenze, ma come un effettivo cambio di stato, possiamo comunque dire che il vivente non vuole cambiare tale suo stato (da una forma di vita a un'altra) e, in questo (ne saranno lieti i fisici razionalisti) rende onore al primo principio della termodinamica. La drastica opposizione a questo cambiamento (che permea tutte le dottrine del bardo, da quelle dell’antico Egitto, a quelle tibetane, a quelle cristiane) è motivata con vari argomenti dottrinali a sostegno: dalla paura dell’eventuale salto nel nulla, all'assoluta incertezza razionale sul post-mortem, e soprattutto dal fatto che l’io si ribella drasticamente all’idea di essere dissolto.
Vivere come possibilità condizionata. L’assurdo dell’ateismo.
Premesso dunque che vivere equivale a una possibilità condizionata di fruire di un’occasione che forse non abbiamo scelto, bisogna vedere quali e quanti gradi di libertà possiamo esercitare in questa stessa occasione. Da tale vexata quaestio nascono tutte le possibili diatribe sull’esistenza o meno di un libero arbitrio. Come abbiamo cercato di dimostrare altrove (cfr. L’Anima errante e Gli Animali e l’Anima), indipendentemente dalla possibilità o meno che la nostra azione sia libera e non condizionata dalla catena di azioni pregresse, nostre e del nostro prossimo, ogni atto da noi compiuto per mantenere la nostra Vita, finisce per coercire o sacrificare altre forme di libertà che vengono uccise, mangiate, trasformate, consumate per consentirla. Se non vivo, non posso esercitare alcuna forma di libertà né di pensiero, né di azione (s già questo potrebbe aprire un abisso di domande, ad esempio su chi è che decide chi, come e quanto si debba o si possa vivere, oppure su chi possa vivere a scapito di chi), e a meno di rifarsi a categorie preconfezionate, risulta perciò assai difficile distinguere dove l’esercizio di una cosiddetta libertà coincida o si opponga all’esercizio di una possibilità o alla fatalità di una necessità. Ad esempio: io posso vivere se scelgo di vivere ma anche se non lo scelgo, e quindi la mia scelta potrebbe sembrare, essa stessa, un’affermazione di libertà; ma poiché non ho scelto, ab initium, di vivere ma mi trovo a vivere (senza sapere esattamente perché), la mia libertà appare decisamente condizionata. In assenza di una ricerca del trascendente e della percepibile presenza di un Dio e soprattutto di un fine, nella natura e nella nostra anima, che doni (alla lettera) un senso al nostro “vivere” facendoci essere parte di un progetto in cui noi stessi siamo espressione, forma e mente del progettista, il dubbio razionale sul senso della vita e sulla libertà di scegliere conduce velocemente verso il relativismo o, ancor peggio, verso il nichilismo. Alcuni sostengono che non ci sia alcuna necessità di una trascendenza o della presenza di un Dio, e forse che non sia necessario neanche un senso dell’esistere; ma tutti costoro viaggiano alla ricerca di verità relative, con le quali possono anche convivere ma, assai più spesso, attribuiscono alla conoscenza scientifica la funzione di Dio.
A nostro avviso, invece, la ricerca della trascendenza motivante e la soluzione del perché dell’esistenza e della percezione, diventano parte essenziale e insostituibile del cammino del cercatore della Verità. Facendo forse un po’ arrabbiare tutti coloro che sono plagiati dal fideismo nella ragione, affermiano che, senza il coraggio di travalicare il sillogismo e la sfera razionale e senza gettarsi nell'esperienza ascetica o ermetica, non è possibile alcun contatto “ontologico” delle ragioni dell’essere. Nessun sistema ateo razionale e neanche alcun sistema razionalmente teologico dimostrerà mai lo scopo del progetto cosmico; nessuna “formula del Tutto”, come oggi si usa dire nel mondo matematico, placherà mai la sete esperienziale del conoscere e l’uomo si sentirà sempre schiacciato dai limiti della sua mente lillipuziana in confronto alla mente cosmica.
La libertà individuale e la collettività
Rientrando però nello scopo principale di questo piccolo viaggio e considerando che, a livello psicosomatico, l’uomo si trova a cercare di affermare il suo diritto di vivere individuale (o forse la sua necessità) in mezzo a tanti altri individui che affermano la stessa esigenza, bisogna vedere come si possano conciliare la ricerca della libertà-vita individuale e la libertà-vita collettiva. Senza tale conciliazione la vita si trasforma (cosa che contraddistingue buona parte dei rapporti umani) in una rissa continua. Alcuni filosofi, a partire da Eraclito, definiscono tale rissa come motore primario della vita stessa, come fuoco di base. In tale rissa il compromesso e il patto rappresentano una successione di transitori stati d'equilibrio fra stati di guerra permanenti. All’interno della ricerca di libertà in una collettività ristretta o allargata, si sviluppa (ma solo per alcuni individui) anche la ricerca della Via, della “perfezione”, della realizzazione spirituale, etc.. Si sviluppa anche il mistero dell’etica e l’universo di domande sui confini del diritto di vivere e di morire.
Alcuni affermano perentoriamente che questa ricerca sia possibile soltanto se all’esterno e all’interno dell’uomo si rende possibile una qualche forma di scelta (di libero arbitrio). Un’anima prigioniera dei suoi bisogni (a partire proprio da quello di vivere, come abbiamo cercato di dimostrare prima) non è libera, così come non è libera una collettività schiavizzata del bisogno. Sarebbe facile (e per alcuni è anche triste) constatare come la libertà umana si sviluppi solo sulla limitazione della libertà (o sulla coercizione) di qualcuno o di qualcosa, (uomini, animali, materia) o sul conflitto fra parti diverse dell’anima stessa. Dimorare nella libertà e nella felicità senza esercitare sul prossimo la minima prevaricazione potrebbe sembrare un nobilissimo anche se contraddittorio compromesso realizzativo. In realtà non è possibile vivere senza che qualcuno, in parte per nostra colpa, soffra o addirittura muoia. Perfino il parto consente una vita a scapito della sofferenza di chi partorisce e perfino darsi la morte provoca dolore in chi resta. Potremmo anche definire il processo realizzativo come una conquista di spazi di libertà e felicità (interiori ed esteriori) sempre più grandi, tendenti matematicamente all’infinito. Ma….a prezzo di cosa? Cosa è che viene consumato in tale processo e come subentra l’etica all’interno della conquista della libertà? L’uomo, è animale sociale: condivide spazi, risorse, desideri, ansie, aspirazioni (condivide a volte con gioia, altre a malincuore, limiti e prigionie con gli altri uomini). Condivide e, per smania di possesso, per necessità fisiologica, per fame (la fame consente l’alimentazione e quindi la vita) attua continuamente sistemi per appropriarsi delle cose dell’altro (minerale, vegetale o animale o umano che sia). un bisogno (ad esempio la fame) è anche un mezzo per consentire la prima libertà: vivere. Se non ho fame non mangio e se non mangio muoio. Mettere insieme tanti bisogni, individuali e collettivi, in un condominio affollato non è facile. Ma ho anche bisogno di respirare e di compiere tante funzioni biologiche indifferibili e vitali. L’esercizio della libertà di compierle è anche il limite. Non posso infatti non attuarle (pena la morte). Ma spesso questo esercizio coercisce le libertà e le felicità altrui.
Le priorità e la società “felice”
La storia dell’umanità è costellata di massacri, violenze e orrori attuati in nome di uno o di più di tali principi. Il che porterebbe a scoraggiarsi e a definire impossibile la realizzazione di uno stato, di una società e perfino di una coppia, che conciliassero tali esigenze “condominiali”. Il fatto è che l’individuo stesso, che noi consideriamo uno, è composto da una molteplicità di esseri, a volte in feroce quando non schizofrenico contrasto fra loro, che spingono in direzioni diverse istinti contro ragione, brama di potere contro generosità, ferocia contro delicatezza, compassione contro spietatezza e così via. In ogni secondo una parte di noi esercita sopraffazione su un’altra e la scelta si esercita sempre all’interno di un conflitto dell’anima. Quindi, se nell’uomo stesso alberga un perenne e potentissimo conflitto come si può pensare di estinguere il conflitto fra più uomini? tale possibilità può realizzarsi solo all’interno di una difficile, complessa e profonda scelta delle priorità spirituali senza portarle a configgere con quelle della psiche e del corpo. Una scelta che passa attraverso lo svelamento dell’anima, alla ricerca di ciò che si considera realmente prioritario, nel condominio di pulsioni, necessità, aspirazioni mistiche, bisogni mentali e sensoriali che avvolgono l’essere umano. Sicuramente potremmo distinguere, come facevano i neoplatonici, tra le priorità biologiche e istintuali, governate dalla cosiddetta “Venere Pandemia” e quelle estremamente più sottili, come “la bellezza” o l’”armonia”, governate da “Venere Urania”. O, se volessimo entrare in un contesto più psico-filosofico, potremmo addentrarci nel labirinto in cui la ricerca del “Piacere in sé”, si concilia o si contrappone con quelle del “Bene in sé”. Non sempre le due cose sono in contrasto, ma si tratta, appunto, di un labirinto, in cui sono naufragati tutti i filosofi, proponendo soluzioni, compromessi, idealizzazioni più o meno efficaci.
Ma qui non si tratta di fare filosofia, ma di vedere se è possibile vivere realmente un'esperienza d'armonia condivisa, che non sia chiusa in un'accettazione acefala della volontà di qualcun altro o di un fideismo passivo, o non si traduca semplicemente in un rifiuto del mondo; vedere se è possibile realizzare e rendere stabile tale armonia, all’interno e all’esterno di sé stessi. Coloro che ci hanno provato hanno spesso isolato una parte della loro vita nel silenzio dei monasteri, oppure hanno aderito a ferree discipline ascetiche singole o collettive. Ma assai difficilmente hanno trasportato questa loro profonda esperienza nella realtà ordinaria del vivere quotidiano, nelle famiglie, nelle comunità, nelle nazioni. Gli unici che hanno trasformato tale utopia in un effettivo e agguerritissimo sistema sociale sono stati i pitagorici di Crotone. O almeno questa è la memoria che tramandano Giamblico e Proclo ed è affascinante riviverla attraverso le loro testimonianze. La società Pitagorica, forse proprio perché basata sui principi matematici dell’armonia musicale, riuscì a trasformare l’esistenza di un'intera città in un coro polifonico dove ognuno viveva in completezza i suoi gradi di vita e libertà possibile. E proprio in memoria di questo, e solo per questo, gli antichi monaci, gli antichi sacerdoti, realizzavano le loro liturgie nel “coro”, così come nel coro si sviluppava il bordone sapiente della tragedia arcaica. Che questo coro venisse accolto da un’abside o da una cappella o da un anfiteatro, in questo momento, ha poca importanza (cfr. Ritmi e Riti). Ciò che conta è comprendere che eseguire uno stesso canto, monodico o polifonico che si sviluppa contemporaneamente sull’ascolto di sé stessi e dell’altro, realizza un insieme, utile alla esaltazione, alla cura e all'edificazione di tutte le anime e di tutti i corpi che vi partecipano.
Questo è e seguita ad essere l’archetipo formale e operativo dell’unica società felice possibile. Ma questa società non è realizzabile hic et nunc. Il processo è lunghissimo e forse dura tutta una vita e non solo una, ma occorre un lavoro spietato che conduca alla scelta gioiosa di priorità condivise. Forse è buffo declinare il concetto di spietatezza insieme a quello di gioia, ma nessuno impara a cantare perfettamente senza tanto sacrificio, senza tanto entusiasmo che faccia sentire la priorità della regola e della disciplina come una gioiosa scelta di libertà e non come una costrizione. Un canto singolo (chiamiamolo pure “eremitico”) è sempre possibile e, nella sua autoreferenza, troverà completamento solo quando una gerarchia, per così dire "angelica” lo ascolterà e lo valuterà. Ma un canto collettivo, che mi permetto di definire “sociale” ha assoluta necessità di consonanze, di risonanze, di armonie e di accordo. Senza tali priorità il suono diventa cacofonico e caotico. Tali priorità possono essere paragonate a una scala musicale: se i toni di ciascuno dei cantoni vivono degli stessi rapporti allora tutti canteranno le stesse note o realizzeranno degli armonici, altrimenti stoneranno, e non saranno neanche più liberi di cantare. Saranno uomini schiavi delle dissonanze. Ecco perché, fra l’altro, a Simmetria esiste un coro.
Claudio Lanzi
[1] Tutto questo potremmo chiamarlo “esperienza” nel condividere, nel ricevere e nel dare direttive secondo quella che oggi viene chiamata “funzionalità di un sistema” e su cui, col procedere esponenziale dell'informatizzazione, s'innestano orrori semiologici come multitasking e time-sharing, mentre nel “top management” dilagano ormai quei termini efficientisti come problem solving, brain storming e altre barbarie anglofone.
[2] Purtroppo, per proporre una teoria, è indispensabile una tesi minima, un punto di partenza: la definizione di uno scopo, di un senso, di un obiettivo e questo, da un punto di vista strettamente metafisico, è già una costrizione mentale, una prigionia razionale. Ma finché viene usato il linguaggio come metodo primario di comunicazione dobbiamo accettare l’esistenza di “assunti” sui quali sviluppare un’idea, a prescindere da come poi tale idea venga sviluppata. Tra questi assunti ho scelto quelli che mi sembrano più elementari, anzi direi quasi brutali, e che prescindono dall'elaborazione etica o filosofica e che possiamo considerare come il mezzo attraverso il quale è possibile sviluppare la definizione di un’esigenza, di un desiderio, di un'aspirazione, di una costrizione. All’interno di tali mezzi si può sviluppare (o anche non sviluppare) la possibilità di scegliere cosa fare, dove andare, cosa cercare, cosa volere.

