Premessa
Il barone rampante di Calvino preferiva la consapevolezza di pochi alla trasformazione di molti. È la storia – tragica per certi versi – di Giuseppe Acerbi, che come molti eroi di Calvino ha vissuto il suo genio nella liminalità di un universo immaginario. Giuseppe scrisse questi articoli tanti anni fa per le pagine di Vie della Tradizione, una delle poche riviste che al tempo davano spazio a tematiche che i più ritenevano “conservatrici” – o per essere più espliciti, “fasciste” – ; allora leggevo Corbin che si collocava, come pochi, nella scissione tra ideale e reale, tra l’essere e il nulla, ovvero tra l’Angelo-guida e l’animalità che siamo. La lettura esistenzialista e nichilista della gnosi era un punto saldo di riferimento. Il tema dell’inizio era quello del dualismo; un inizio che includeva il nulla e l’abisso, polarizzato tra manifestazione del plērōma e del kenōma. In breve, era l’impossibilità di trasformare il mondo. Divenni libresco. Il contrario di Giuseppe: i suoi scritti tracimavano genialità, ed era un paradosso, poiché a tutti i costi voleva allinearsi sul confine della «tradizione»; un intento ovviamente fallimentare, dal momento che presto l'omonima rivista lo estromise. Si sentiva straniero al mondo, non alla natura o al Dio cosmico; a suo modo seguiva il verbo induista, non nichilista; aveva rinunciato a coltivare la complessità del mondo illudendosi di trasformare la propria interiorità. Un viaggio molto difficile.
Ezio Albrile
LA SIMBOLOGIA FITOMORFICA: L'ORTICOLTURA NEL MITO DELLE ORIGINI _ PARTE I
Le origini dell'orticoltura si confondono con la genesi stessa della nostra umanità[1]. Stando al mito biblico, sarebbe stato lo stesso Creatore (Yahweh) a porre l'Uomo ('Adhàm) fin prima della 'Caduta' come Coltivatore (‘Guardiano del Giardino'[2]. Il simbolismo fitomorfico ha dunque un significato assolutamente primordiale, forse ancor più di quel simbolismo che utilizza immagini teriomorfiche per rappresentare la Divinità.
Se è vero, dunque, che Adamo viveva solo dei frutti del 'Giardino', come attestato dalle S. Scritture, lo stato edenico dell'Uomo doveva evidentemente essere una condizione di benevolenza nei confronti di tutte le creature; quasi un riflesso esteriore della sua beatitudine interiore, trovandosi egli ad essere, per così dire, in una posizione di centralità rispetto al Creato, ovverossia di mediazione tra il Cielo e la Terra.
Il possesso od il raggiungimento di quella perfezione naturale la quale era propria degli esseri adamitici, cioè dell'umanità originaria, è stato spesso descritto nella mitologia o nel folclore come una condizione di comunicazione spontanea con le piante, gli ammali e gli esseri tutti. A prescindere dal mito biblico, rinveniamo codesta simbolica un po' dovunque in ambito tradizionale. Ad es. nel Nihongi, uno dei libri più sacri della tradizione shintoista, ci si riferisce con nostalgia mal celata al «tempo in cui le erbe e gli alberi parlavano» (al cuore dell'Uomo, ovviamente); immediatamente precedente a quello in cui «il Cielo e la Terra si erano separati»[3]. Parimenti in terra australiana si narra[4] con riferimento agli Antenati totemici, ossia agli Eroi primordiali del "Tempo del Sogno " (Alcheringa), come in un passato leggendario gli uomini siano stati a contatto con il Mondo Celeste; cui avrebbero avuto accesso scalando una Montagna, poi fatta sprofondare dal Dio del Cielo. Vivendo di frutta e di alimenti vegetali in un paese perpetuamente verde, sempre rigoglioso di alberi, con fiori e frutti in abbondanza, essi avrebbero avuto per lume nel loro accamparsi notturno solo le stelle. Non mangiando carne, e simili ad esseri celesti, sarebbero vissuti parcamente, essendo oltretutto estremamente longevi; dato che la morte avrebbe avuto scarso potere su di loro, per il fatto che i ponti tra Cielo e Terra non erano ancora stati tagliati. Spesso, d'altronde, nella più disparata mitologia di altre contrade, si fa cenno a singoli Eroi connessi indirettamente col tempo incantevole e favoloso delle origini. Così, nel mondo europeo, l'Eroe che supera la prova iniziatica finale è rappresentato exotericamente in taluni testi come colui che ha conseguito il potere paradisiaco di comprendere il "Linguaggio degli Uccelli"; intendendosi per "Uccelli" gli Dei (o gli Angeli, nelle leggende cristianizzate)[5]. Un caratteristico esempio di tale tipologia eroica è offerto dal germanico Siegfried nella saga medievale del Nibelungenlied, allorché questi annienta il Drago Fafnir (da concepire esotericamente come il senso dell'ego, che avvolge l'essere alla sfera psichica, impedendogli la contemplazione dello spirito). Ciò ha l'effetto, infatti, di reintegrare l'Eroe (che simboleggia l'iniziato) in una condizione di naturalità primigenia. Per contro, nella Epopea mesopotamica di Gilgamesh, la perdita del Paradiso Terrestre è descritta come l'abbandono da parte di Enkidu della compagnia delle selve e delle fiere. Anche in codesta leggenda compare, come in quella biblica della "Genesi", la figura corruttrice della "Donna”[6] nella consueta duplice immagine di “Vergine-Prostituta” ovvero, per dirla in termini induisti, di Maya-Śakti; tale immagine sottintende quale elemento intermedio un aspetto materno, secondo quanto avviene allo stesso tempo fra Greci e Latini con le rappresentazioni di Artemide (od Ecate) Triforme e di Diana Trivia[7].
Nella tradizione persiana ricorrono analoghe tematiche. Ma sulla questione torneremo più innanzi. D'altronde, l'Eden visto come un quieto eremo, ove l'Uomo viveva sereno al contatto di piante e animali, non figura solo in ambito mesopotamico od iranico, bensì anche nelle pie leggende greco-latine, celtico-norreniche od indiane sull'età Aurea, dove la collocazione cronologica viene a sostituire alternativamente l'ubicazione spaziale del Paradiso; analoghe leggende compaiono, nondimeno, presso altre culture sorte presso genti appartenenti ad aree etnologiche del tutto indipendenti, come quella sino-giapponese, amerinda od oceanica.
Insomma, quasi tutte le civiltà hanno conservato nel loro patrimonio culturale simboli che rimandano all'epoca arcaicissima in cui l'Uomo viveva della semplice raccolta di frutti, semi, radici ed erbe cresciute spontaneamente. I Latini narravano dell'Età dell'Oro come di un'era beata, in cui la terra produceva cibo in abbondanza senza essere coltivata, rammentando che in illo tempore il vitto era costituito dai frutti della quercia e del pino. Curiosamente, gli stessi Indios dell'America Centrale hanno ricordi analoghi nelle loro tradizioni (ed altrettanto Cinesi ed Indiani); solo aggiungono i frutti dell'acacia a quelli della quercia e del pino, in un contesto idillico talmente simile, da dover far riflettere seriamente la paletnologia[8] circa la pretesa che i nostri lontani antenati siano vissuti in un lontano passato di caccia e raccolta, come suol dirsi. D'altra parte, siamo convinti che l'evoluzionismo ottocentesco — perdurato nel neopositivismo contemporaneo, checché se ne dica — non abbia assistito alla «morte di Adamo» (per parafrasare il titolo di un noto libro del Greene)[9]; ma abbia partecipato attivamente al suo assassinio culturale. E' inoltre da rammentare che la condizione dell'anacoreta, il quale andava una volta a vivere nei boschi, nutrendosi solo di quel che produceva spontaneamente la Natura Madre (fatto oggidì pressoché scomparso nel mondo occidentale, ancorché sia avvenuto in passato presso molte plaghe ed avvenga tuttora in India), non era altro che il ritorno anche esteriore ad una condizione di vita primeva. Ciò è peraltro confermato da alcune interessanti osservazioni riportate dalla Blacker[10] in un suo studio sullo Shamanismo nipponico; il nutrimento degli asceti e la via dell'astinenza dal cibo sembrerebbero ripercorrere a ritroso gli stadi che hanno portato l'umanità dal nutrimento arboreo essenziale dei primordi a quello più variegato, a base di cereali e verdure di ogni tipo, proprio dei nostri giorni. Codesta serie di tecniche alimentari non era poi molto diversa dalle tecniche Zen di ringiovanimento, eredità giapponese della dottrina taoista della Longevità, aventi lo scopo di ristabilire — non meno dello Hathayoga o dell'Ayurveda indiani — condizioni più armoniche e naturali di nutrizione e di esistenza; la stessa Macrobiotica, un surrogato odierno (seppure efficace) delle tecniche Zen, si propone di riportare l'individuo da un regime alimentare molto vario ma insano ad un tipo di dieta più parca e salutare, che ci è stato tramandato dalla più remota antichità. Infatti, tale dieta sembra fosse in grado di prevenire in coloro che un tempo Ja praticavano la totalità delle malattie, fisiche e mentali, dalle quali siamo oggi invece affetti, per via del nostro disequilibrio nutrizionale. Si tenga conto, in aggiunta, che la nozione di alimentazione era da un punto di vista arcaico inseparabile dal concetto di sacrificio, ogni forma naturale (anche i minerali) essendo concepita in tale ambito come essere vivente che soffriva del suo annientamento esistenziale; per cui, una volta soppresso, codesto essere — secondo quanto insegnavano le antiche dottrine shamaniche — era immaginato richiedere vendetta presso il Creatore, insomma alla funzione divina presiedente alle leggi cosmiche. Sicché, per una sorta di Dharma, dipendente dal Karma individuale di ciascuno (questi concetti, al di là dei termini specifici che li designavano, non essendo limitativi al mondo indiano), si riteneva che una dieta troppo ricca ed abbondante finisse per ritorcersi contro l'incauto mangiatore, provocandogli disgrazie o malattie varie.
Il perdurare a livello subconscio di simili nozioni nel mondo moderno e contemporaneo è un dato di fatto, se è vero che persino nel nostro secolo il fondatore della Macrobiotica è giunto ad affermare — richiamandosi indirettamente al Buddhismo Zen — che mangiare troppo, divenire grassi, fosse da considerarsi un furto perpetrato alla Natura e non tollerato quindi dall'Ordine Cosmico. Non è difficile, in ogni caso, intravedere nella nozione buddhista di Karunà (la Compassione o Caritas verso tutti gli esseri viventi, nel senso ampio sopra indicato; incluso, dunque, lo stesso mondo vegetale o persino quello minerale) un'eco in tempi storici di un mondo shamanico protostorico; se non addirittura preistorico, come personalmente sosteniamo. Essa deve essere giunta in India, probabilmente, attraverso una corrente della cultura delle steppe centroasiatiche. Ma già nella cultura vedica abbiamo, invero, la presenza mitica di un "Signore della Foresta" (Vana-spati), che si narra trovasse dimora nei grandi alberi e governasse tutte le forme vegetali; codesto nume altri non è che Agni, il Dio del Fuoco. Accanto a questi compare la figura di un "Signore degli Animali", fossero essi selvaggi (Mrigapati) o domestici (Pagupati). L'idea di un "Signore" (Padre Creatore) o di una "Signora (Madre Creatrice delle Piante e degli “Animali”, del resto, è oggi talmente nota e diffusa, che possiamo esentarci dall'illustrarla più in dettaglio. Ma riepilogando, in base a quanto or ora asserito, si vedrà come l'ipotesi paleoantropologica che l'umanità sia vissuta in tempi preistorici di caccia e raccolta contrasti nettamente con i dati di tutto il patrimonio mitico e folcloristico oggi a nostra disposizione. Se è corretto tuttavia affermare che la raccolta abbia preceduto necessariamente l'orticoltura, o meglio una proto-orticoltura, è invece oltremodo scorretto postulare la simultaneità tra siffatto regime nutritizio, ed economico più in generale, ed il regime venatorie Ciò non solo si fa beffe incredibilmente di un patrimonio tradizionale vetusto e sacerrimo, ma finisce per accelerare indiscriminatamente l'ordine logico degli eventi temporali; oltre a non tener conto superficialmente di alcuni fatti linguistici particolari, che invece potrebbero illuminarci al riguardo. Così, se da più parti nel globo rinveniamo il mitologhema della connessione dei primordi del Sacrificio rituale con la pratica orticolo-venatoria; tale pratica è collocata, sempre e comunque in ogni tradizione, dopo il trapasso da un ciclo paradisiaco — caratterizzato da una vita contemplativa in stretta comunione con la Natura (in termini antropologici potremmo identificarlo ad un regime di raccolta passiva) — ad un ciclo post-paradisiaco, culturalmente ed economicamente improntato ad una graduale civilizzazione. E' l'orticoltura, insomma, e non la raccolta improduttiva che dovrebbe essere associata alla caccia, a nostro giudizio. E' ciò che ci insegnano immancabilmente le Sacre Scritture ed i miti di qualsivoglia ambito tradizionale[11]. Vedi, ad esempio, i personaggi emblematici di Caino ed Abele nella "Genesi". Dei due l'uno è orticoltore, essendo oblatore di primizie vegetali; mentre l'altro è pastore, apparendo nella veste di sacrificatore dei primogeniti delle greggi. Fra di essi, il primo è correlato alle figure di Tubal-Cain (il "Fabbro-Artefice") e di Lamek (leggendario "Cacciatore" dai tratti orionici, nonché padre di Noè); quest'ultimo in alcuni Midràshìm haggadici colpisce a morte l'avo Caino (suo alter-ego, non meno di Tubal-Cain) con una " Freccia ", avendolo scambiato per un "Cervo" a causa della propria cecità[12]. Parrebbe infatti, secondo tali testi, che il primo mitico orticoltore avesse un "'Corno' sulla fronte, al modo degli Unicorni[13]. Donde Caino risulterebbe simultaneamente equiparabile, per via del suo doppio ruolo orticolo-venatorio, al "Signore degli Animali" oltreché al Dio Agrario di altre mitologie. Il che testimonierebbe, se non altro, l'evidente relazione d'identità esistente in tempi remoti tra il "Signore della Foresta", spesso da più parti raffigurato teriomorficamente con corna cervine od antilo-caprine, ed il "Signore del Campo" (in senso orticolo). In proposito, segnaliamo ancora come nella Lingua greca le coppie omologhe di termini agrós ("campo coltivato") / agra ("caccia") e àgos ("grave colpa, delitto di sangue") / hàgos ("sacrificio") siano filologicamente correlate tra di loro. Parimenti, la dottrina brahamanica c'insegna come il Sacrificio (scr. Yajna, gr. Hàgos) fosse sorto, ad opera di Rudra e Prajàpati (una coppia cosmogonica che ha per allotipi tra gli Elleni i personaggi divini di Apollo e Orione), in tempi primordiali; o, più precisamente, all'inizio del Tretayuga, vale a dire dell'Età dell'Argento. Ciò corrisponde in termini di cronologia ciclica, parallelamente a quanto sostenuto nella leggenda biblica di cui sopra e nella mitologia greca, all'inizio della coltivazione agraria (sia pure in forme primitive e rudimentali); ovvero, a quel che si è convenuto prima di chiamare appunto proto-orticoltura. Tornando alla questione alimentare più addietro sollevata, potremmo concludere affermando che, non a caso, presso i Celti i sacerdoti — ossia i Druidi — erano allegoricamente paragonati ai cinghiali[14]; dato che notoriamente questi animali si nutrivano di ghiande e radici ed amavano nascondersi nei querceti. Al di là di ogni riferimento esoterico, ciò dovrebbe aver avuto materialmente a che fare con il cibo effettivo dell'umanità primeva. Ma è indubbio d'altro canto che implicitamente il nome Drùidai, attribuito dai Greci — secondo Plinio[15] (15) — ai sacerdoti celtici in riferimento alla Quercia, vale a dire all'Albero Sacro per antonomasia (cfr. il gr. dr-ys = "albero, quercia" e dor-u — "tronco"; scr. dru — "albero " e dàr-u = "legno"; lat. quer-cus; a. si. dr-uvo- — " legno "; got. tr-iu — " albero "; a. at. tr-og = id.; ingl. m. tr-ee = id.), si richiamasse nello stesso tempo alla visione interiore (cfr. il gr. horào = "vedere" ed hoida = "sapere" [per aver visto]; lat. video = "vedére"; scr. dric = id.); donde si riteneva scaturisse la vera sapienza, la quale era ritenuta trascendere totalmente la semplice erudizione. Siccome codesta disposizione contemplativa è la virtù naturale attribuita per eccellenza alla prima umanità (miticamente agli esseri dell'Età Aurea), secondo quanto ci è stato tramandato dagli antichi, si noterà come ciò collimi con quanto rilevato in precedenza. La Quercia, quindi, deve essere interpretata in ambito celtico come un parallelo di quel che è nella Bibbia l'Albero della Conoscenza. Dobbiamo far notare, a tal proposito, che una dieta di tipo vegetariano era pure attribuita tradizionalmente agli Iperborei, a seguito di un costume inveterato. Il Guénon riteneva, d'altro canto, che parte del patrimonio culturale druidico fosse di origine iperborea, come indica apertamente il simbolismo della Quercia; l’Arbor Mundi infatti, oltre ad essere un emblema dell'inizio del mondo (cioè del Paradiso Terrestre o dell'Età Aurea, che dir si voglia), è simultaneamente una rappresentazione polare. Tanto più che sulla cima di detto Albero, indipendentemente dalla specie vegetale che lo raffigura di volta in volta nelle varie culture, compare talora il Sole (od una Ruota equivalente) quale suo unico "Frutto": siffatta immagine è reperibile nel Rig-veda e nell'iconografia induista; nonché tra gli Egizi[16], gli Assiri[17], i Cinesi[18] e gli Amerindi[19], sì da poter essere considerata tra le più universali.
Ora, è sentenziato da molte parti che la causa della "Prima Caduta", cioè della perdita dello stato naturale primevo, spiritualmente contrassegnato in base a molteplici tradizioni da un monismo semplice ed austero (ossia da un senso spontaneo dell'eternità dell'universo ed una percezione non duale della realtà, intesa come soprannaturale e divina), sia stata un atto di superbia; peraltro variamente descritto nelle Scritture delle culture letterate.
[1] Secondo un hadith della tradizione islamica (citato da R. Guénon in Forme Tradizionali e Cicli Cosmici, Mediterranee, Roma 1970, p. 46; ed. or. Formes traditionnelles et Cycles cosmique, Gallimard, Parigi 1970) prima dell'Adamo da noi conosciuto, la cui esistenza — evidentemente simbolica — ci è tramandata dalle Scritture, sarebbero esistiti cento, mille Adamo a noi sconosciuti.
[2] (2) Cfr. R. GUÉNON, Le Règne de la quantità et les sìgnes des Temps, Gallimard, Parigi 1945, e. XXI, n. 2, p. 197 (ed. or. Il Regno della quantità ed i segni dei Tempi, Studi Tradiz., Torino 1969, p. 175, n. 1). Sul tema è tornato A. Grossato in Aspetti della simbolica vegetale kindu, Univ, " Ca' Eoscari " (Tesi di laurea), Venezia 1981, p. 79, n. 82,
[3] Cfr. H.O. ROTERMUND, Le credenze del Giappone antico; sta in "Storia delle religioni" (a cura di H.C. Puech), Laterza, Bari 1978, voi. XVII, p. 13 (ed. or. Hist. des Religions, Gallimard, Parigi 1978).
[4] Cfr. M. ELIADE, La creatività dello spirito. Un'introduzione alle religioni australiane, Jaca B., Milano 1978, e. I, pp. 38-9 (ed. or. Australian Religions. An Introduction, Cornell Un., Ithaca (N.Y.) 1973; il quale si rifà a T.G.H. Strehlow. Questi sembra abbia dichiarato che la fonte dei dati sugli Aranda occidentali trasmessigli dal babbo (C. Strehlow) fosse costituita da un esperto medicine-man, di notevole intelligenza e paladino inflessibile dell'ordine tradizionale, nonché autorità spirituale prestigiosa del luogo del soggiorno paterno,
[5] E' risaputo come Angeli e Demoni abbiano sostituito, già nel Cristianesimo primitivo, rispettivamente gli Dei e i Titani della tradizione greco-latina. Cfr. in India il ruolo analogo dei Deva e degli Asura, nonché quello (invertito) degli Ahura e dei Daéva in Persia.
[6] Da un lato ella individua il principio lunare e passivo del cosmo, vale a dire la Dualità naturale, che sorge dall'Unico Ente divino. Dall'altro è, per esprimerci nel linguaggio della Qabbalàh ebraica, la Shekhinah; cioè la trasmissione spirituale della Rivelazione primeva, in altre parole la Tradizione. Sotto un diverso profilo, più modestamente antropologico, l'avvento della " Donna " va di pari passo col mutamento dei costumi da una condizione sociale amorfa e prefamiliare ad una di carattere matriarcale e familiare.
[7] E' da notare che nel Cristianesimo il ruolo di Diana o di Artemide è stato assunto da Maria, la quale è divenuta la "La dei Trivi e dei Quadrivi" (con allusione alla Triplice ed alla Quadruplice Via, connessa ai solstizi e agli equinozi); tuttavia, nella dottrina cristiana di epoca postridentina, il triplice o quadruplice aspetto originario della Madre di Cristo — una volta raffigurato complessivamente dalle "Tre Marie" e dalla Madonna — ha lasciato il posto de facto ad una dicotomica rappresentazione della Vergine-Madre. Orbene, l'equivoco sotteso a codesta bipolarizzazione della figura della Madre del Redentore dipende ovviamente dalla particolare accezione in cui l'idea di verginità è stata intesa nel mondo cristiano. Anticamente essa era attribuita alla donna che, trovandosi in giovane età e non avendo avuto figli, risultava in certo modo indipendente dall'amato o dal marito, dimostrando insomma un atteggiamento non già propriamente muliebre; secondo quanto è illustrato per l'appunto dal lat. virgo, evidente contrazione di virago, termine che indica difatti una donna assai poco femminile (lett. " dalla condotta virile "), cioè dall'ambigua natura (= mercuriale). Invece presso i Cristiani il concetto di virginitàs si è pudicizzato, venendo così a designare la condizione di fanciulla, che in quanto tale non aveva ancora conosciuto carnalmente l'uomo. Quindi, se prima il suddetto concetto di ' Vergine ' contrapponevasi a quello di ' Prostituta ', più tardi esso è venuto a contrapporsi a quello di Madre. Simbolicamente la prima contrapposizione ha a che fare, concependo un parallelismo tra le quattro fasi del ciclo lunare ed analoghe periodizzazioni della vita della donna, con l'antagonismo Luna Crescente-Luna Calante; mentre, la seconda rispecchia un equivalente antagonismo Luna Nuova-Luna Piena. L'idea delle ' Tre Marie ' è dunque un adattamento cristiano di un trimorfismo, relativo ad una 'Grande Dea', un tempo diffuso in tutto il Mediterraneo; questo dato mitico aveva trovato una formulazione precisa presso gli stessi Ebrei, tramite la concezione delle tre leggendarie spose di Adamo (Naamàh, Hawwà e Lìlìt). Tra gli Zìngari (convertiti al Cristianesimo durante il II millennio dell'E.V.) è però reperibile — insieme alla venerazione del triplice, o quadruplice, aspetto della Divina Madre appena esaminato — il culto di un'ulteriore figura di santa (denominala "Sara-la Nera"); che è, invero, una versione cristianizzata della dea Kàli indiana. Ricordiamo a tal proposito che nell'Induismo si concepiscono cinque raffigurazioni della Devi, di poi trasmesse al Buddhismo nelle forme, variamente colorate, delle Cinque Tara o delle Pancaraksha; tra le quali una di natura eterica ed atemporale. Una è disposta centralmente nell'iconografìa ed ha color Bianco, i colori delle altre quattro Tara (Blu, Giallo, Bosso e Verde) le rivelano quali emanazioni elementali dei Cinque Dhyàni-Buddha. Torà è, d'altra parte, un epiteto di Durgà o di Maya, la Madre del Buddha. Le età della 'Fanciulla' lunare hanno ricevuto in India una moltiplicazione delle fasi intermedie con le nove o diciassette forme di Durgà (8 o 16 + 1) e con le Dieci Mahàvidyà. Presso i Greci si avevano egualmente, ma con un ordine di colori differente (più simile a quello delle Śakti indù che non a quello delle Śakti buddhiste; ed in relazione al ciclo lunare, prendendo avvio dalla Luna Crescente), quattro dee omologhe: 1) Demetra (con ' Testa di Giumenta ' e color Bianco), 2) Rhea (con ' Testa di Leone ' e color Rosso), 3) Adrastea (con ' Testa di Scrofa ' e color Nero) e 4) Ecate (con ' Testa di Cagna ' e color Verde). E' evidente che nell'Ellade mancava un colore centrale, poiché l'attenzione degli Elleni poggiava sui Quattro Elementi, anziché sulla loro Quintessenza. Inoltre, il color Verde, esattamente come in India, era costi associato all'Elemento Terra ed alla Luna Nuova; siccome era proprio a partire da tale momento ciclico che veniva stimolata la crescita della vegetazione, ciò che naturalmente doveva avere un chiaro valore emblematico. Cfr. presso gli Amerindi la presenza di culti Innari similari a quelli dell'area indomediterranea, in rapporto alle suddivisioni periodiche della vita femminile; ivi era peraltro assolutamente palese l'equiparazione tra la funzione sociale di ' Vegliarda ' ed il ruolo di ‘Etera, giacché l'esercizio sacrale della prostituzione riproponeva a livello tribale — e la cosa poteva certamente essere estesa in tempi remoti pure ad altre aree culturali — la ripetizione imitativa di un costume primordiale e paradisiaco, caratterizzato da una estrema libertà sessuale.
[8] Cfr. R. GIRARD, La Bibbia maya. Il Popol-Vuh: storia cultu¬rale di un popolo, Jaca B., Milano 1976, P. II, e. I, p. 76 (vedi anche P. I, e. I, p. 43); ed. or. Le Popol-Vuh. Histoire culturelle des Maya-Quichés, Payot, Parigi 1972.
[9] J.C. GREENE, La morte di Adamo. L'evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale, Feltrinelli, Milano 1971; ed. or. The Death of Adam. Evoluction and Its Impact on Western Thought, The Iowa St. U., [?] 1959.
[10] C. BLACKER, The Catalpa Baui. A Study of Shamanistic Practises in Japan, G. Alien & Unwìn, Londa 1975, e. V, pp. 86-8.
[11] Nel ' Libro dei Giubilei ' o ' Piccola Genesi ', un apocrifo dell’A.T., si racconta (vedi iii. 15-6 e 28) come Adamo sia stato posto da Dio quale ' Custode ' nel Giardino dell'Eden, dopo che gli fu insegnato quel che era atto alla coltivazione. Per coltivazione s'intende qui, secondo quant'è specificato subito di seguito nel passo citato, la sola raccolta dei frutti e la loro conservazione a scopo alimentare, con difesa del territorio nei confronti delle fiere e degli uccelli. Ma è chiaro da ciò che segue che il rapporto con gli animali, esattamente come quello con la foresta, era di natura idillica; tant'è che si aggiunge più in là che alla fine di quest'epoca beata " la bocca degli animali e degli uccelli . . . smise di parlare "; mentre, in precedenza essa aveva parlato con " un sol labbro ed una sola lingua "
[12] Il Graves (R. GRAVES & R. PATAI, I miti ebraici, Longanesi, Milano 1980, § 19.o, p. 131; ed. or. Hebrew Myths. The Book of Genesis, Intera. Auth. N.V. & R. Patai, [l. di ed. n.c] 1963-4) descrive il passo più in dettaglio, facendo riferimento nell'insieme (ibid., p. seg.) ad una triplice fonte: un Midràsh di carattere omiletico (Tanhùmà Noàh-xi), uno di tipo esegetico (Bèreshit Rabbàh- ccxxiv-v) ed un altro per così dire storico-narrativo (Séfer ha-Yàshàr- vii-iii). L'A. (ib., p. 133, n. 1) segnala nella mitologia greca un analogo episodio, concernente il personaggio di Atamante; che, impazzito dal dolore, uccise il figlio Learco, avendolo scambiato per un ' Bianco Cervo '
[13] Nel testo canonico della ' Genesi ' (iv. 15) si parla di un ' Segno ' — ossia un emblema — posto da Yahweh in fronte a Caino, a protezione del reo, dopo l'assassinio di Abele. Evidentemente si sottintende, pure colà, che l'Altissimo abbia dotato il nostro comune * Antenato ' di un ' Corno ' in funzione apotropaica; onde permettergli di riscattarsi dal male, cioè dalle proprie colpe. Ma al di là dell'allegoria, sul piano esoterico, codesta attribuzione non può che indicare l'avvento di una primordiale pratica meditativa; infatti il Corno dell'Unicorno corrisponde nella cultura ellenica all'Occhio Magico dell'iniziato ermetico. Cfr. in India la raffigurazione di Śiva quale Cervo Unicorne ed Unipede (Vr.P.- ccxv 24-5). Ivi (ibid., 28-32) il ' Como Tripartito ' del dio, in aspetto teriomorfico, funge parimenti da Terzo Occhio, essendo inoltre in connessione con le Direzioni e l'Anno Sacro. Trattasi, peraltro, di un simbolismo perdurato in Occidente fino al Rinascimento, tramite le figure dell'Uomo o della Donna Selvaggia (nelle quali sono adombrati un dio solare e una dea lunare, di assai antica memoria), ritratti nell'atto. d'impugnare il ' Corno ' del suddetto animale (= Axis Mundi); codesta simbologia ha dei precedenti, crediamo, nell'arte preistorica. Potremmo aggiungere, alfine, che il ' Segno ' di Yahweh (di cui sopra) altro non è che la pura Essenza dell'Altissimo, contenuta simbolicamente nella prima lettera del Nome Divino; la Y; o meglio la Yod ebraica, il cui segno grafico in effetti equivale alla forma di un corno. Cfr. in Dante (Par.- xxvi. 133-34) la tradizione iniziatica dell'I come primo nome divino per tutti i mortali. La qual cosa trova conferma, ovviamente, nella lettera iniziale — e nell'etimo — dei principali nomi divini di vari rami della cultura indoeuropea (vide lo I-àn-us latino, lo Y-am-a indiano, lo Y-im-a iranico e 1' Y-m-ir norrenico) o semitica (vide lo Y-am palestinese, filologicamente apparentabile allo Y-ahw-eh ebraico, secondo alcuni).
[14] (14) Anche nella tradizione induista i sacerdoti hanno sempre avuto per emblema il Verro, in ricordo forse di Varàha, il III Avatàra vishnuita; alla cui epoca (= ciclo orientale) la casta brahmanica è subentrata nel dominio agli Hamsa, la Sovracasta primaria. Difatti il Nirukta (v. 4, s.v. Varàha) di Yàska spiega un celebre passo rigvedico dell'annientamento del ' Cinghiale Celeste ', da parte di Indra, asserendo che il nome dell'animale era applicabile indifferentemente ai numi atmosferici (cioè dell'Età Argentea) oppure alla sottoclasse sacerdotale degli Angiras.
[15] (15) S. PIGGOT, II mistero dei Druidi, sacri maghi dell'antichità, Neuwton C, Roma 1982, e. Ili, p. 79 (ed. or. The Druids [edit. e 1. di ediz. n.c], 1968-75)
[16] Vedi ad es. la raffigurazione di Nut, la dea egizia identificata all'Albero della Vita, avente sulla sua Cima (equivalente al Capo del¬ la medesima) il disco solare quale unico ' Frutto ' (in un vaso di bronzo egizio del periodo Baitico, 600 a.C. e); sta in E. NEUMANN, The Great Mother. An Analysis of the Archetype, Princeton Un., Princeton 1963, (I ed. 1955), tav. 103
[17] Su un sigillo cilindrico assiro, segnalatoci ancora una volta dal Neumann (ibid., t. 108/A), abbiamo invece l'Albero del Sole e della Luna, con l'effigie dei due luminari sulla Cima.
[18] Il Guénon (R. GUÉNON, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, § 51, pp. 281-2; ed. or. Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, Parigi 1962) rileva come l'ideogramma cinese il quale raffigura il tramonto solare dipinga l'astro nell'atto di posarsi su di un 'Albero' alla fine della giornata. L'A. avvicina inoltre l'Albero Solare, ch'egli ritiene rappresenti la base di partenza e di arrivo di ogni ciclo (giorno, anno, grande anno, eone), al 'Roveto Ardente' del Sinai od all' 'Albero di Luce' cabalistico; oltreché all' "Ulivo né orientale né occidentale" della Sùra della Luce (Cor. xxiv. 35).
[19] Il Girard (op. cit., P. II, e. II, f. 23 a destra) offre un'esemplificazione dell'Albero Cosmico, tratta da un codice amerindo imprecisato, nella quale in mezzo ai Sei Rami — Tre per ciascuna metà del¬ l'Albero — è posto l'Uccello Solare, proprio sul diretto prolungamento del Tronco e quasi ad individuare il 'Settimo Ramo' (invisibile). Per la verità, codesta rappresentazione palesa un significato zenithale piuttosto che polare, a differenza delle precedenti indicate; ma, necessariamente, l'ima (equinoziale) è derivata dall'altra (solstiziale), più arcaica. La stessa cosa può dirsi, analogamente, di un'ulteriore immagine, presente nel Chilatn Balam di Chumayel (ibid., P. I, e. III, p. 54, fig. 8). Ivi, però, il disco solare raggiato è collocato al centro di Dodici Stelle ( = Dodici Dèi stellari, altrove designati e tratteggiati quali 'Uccelli' o 'Re'), disposte a semicerchio celeste; in modo tale da fungere da Capo del Dio Solare (altrimenti conosciuto come ' Dio Tredici ') — avente l'Albero Cosmico per Corpo, i Due Rami per Braccia, nonché le Due Radici per Gambe — e simultaneamente collocarsi sulla Cima sia dell'Albero (che ha un 'Terzo Ramo' intermedio, a mo' di lungo Collo), sia della Montagna Cosmica (il senso della quale è spiegato infra). Tornando al tema dell'Uccello Solare, di cui sopra, vi è da rammentare che esso è presente in molteplici forme presso varie culture, ora con una o due teste; ora invece duplicato nella figura. In India Io ritroviamo, ad esempio nella Ri.S.- i. 164, 20-2. Cfr. pure al riguardo gli studi del Wensinck.