Quello di Silvano Panunzio è un nome che non necessita certo di presentazioni per i lettori di Simmetria, avendo Simmetria pubblicato negli ultimi anni ben tre volumi di questo importante autore: Contemplazione e simbolo, Metafisica del Vangelo Eterno e Cielo e terra, cui è da aggiungere il volume collettivo, curato da Aldo La Fata, Dalla metafisica alla metapolitica: omaggio a Silvano Panunzio in occasione del centenario della nascita.
Necessita però una presentazione il volume che proponiamo, perché, pur non sconvolgendo i dati noti e acquisiti sull’opera del Nostro, ne amplia i confini oltre il già noto. In verità, questa edizione, che fa seguito alla prima, pubblicata dall’editore Cantagalli di Siena nel 1989 (collana “I classici cristiani” diretta allora dai medievisti Franco Cardini e Marco Tangheroni), porta già una intensa presentazione di Aldo La Fata, allievo e massimo esegeta del Nostro, cui senz’altro rimandiamo per un’esauriente inquadramento dell’opera, limitandoci a citare un passaggio che condividiamo in toto: <<Siamo lontani dalle posizioni intransigenti di un certo anacronistico tradizionalismo cattolico. In questo senso Panunzio si sentiva più in sintonia con un Jacob Bӧhme e un Emanuel Swedenborg (entrambi luterani in odore di eresia) che con un Louis de Bonald e un Joseph de Maistre; più a suo agio con un predicatore pentecostale come Giuseppe Petrelli che con un controrivoluzionario come Plinio Corrȇa de Oliveira; più in accordo con gli “intermediari ecumenici” Thomas Merton e Raimon Panikkar che con i nemici giurati del Concilio Vaticano II, Antonio de Castro Mayer e Marcel Lefebvre>>.
Il volume consta di due parti precedute da una Introduzione, dedicata appunto agli “intermediari ecumenici” (Tra Oriente e Occidente: intermediari ecumenici), termine che, come racconta Panunzio, deriva da una sua conversazione telefonica con Panikkar che, alla domanda se fosse un “missionario” rispose negativamente (<<non senza un certo dissapore>>), mentre dinanzi al termine “intermediario” la risposta fu positiva (<<accompagnata da un vibrante sorriso>>). Gli “intermediari ecumenici” a cui l’autore si sente particolarmente vicino sono, oltre Panikkar, Giovanni Vannucci e Divo Barsotti, ma nella stessa categoria sono figure di rilievo del pensiero cristiano e cattolico del secondo dopoguerra del Novecento, daglii esponenti della Théologie nouvelle (Jean Danielou, Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar) al meno conosciuto Matthias Vereno, che pure fu, anno di grazia 1959, il caporedattore di una rivista ecumenica mondiale, Kairòs-Zeitschrift fȕr Religionwissenschaft und Theologie (“Rivista di scienza delle religioni e di teologia”, Kairòs: “L’ora suprema”), che, sostenuta dal Cardinale Kӧnig, anticipava il Concilio Vaticano II e annoverava nel suo Consiglio Scientifico, oltre lo stesso Panunzio e Panikkar, studiosi del calibro di G. C. Anawati, Titus Burkhardt, Jean Danielou e Mircea Eliade!
Le due parti del volume constano ciascuna di otto scritti, rispettivamente dal 1950 al 1962 e dal 1976 al 1989. Ne esponiamo, a beneficio degli auspicabili lettori, una sintesi.
L’esteso primo capitolo (Tradizione, Oriente e Sacra Scrittura) è già una miniera di affermazioni coraggiose, svolte attraverso una immensa erudizione, mai fine a se stessa, però. Non sappiamo se Panunzio abbia mai conosciuto la straordinaria opera di Marcel Jousse (abbiamo appena curato per Mimesis la riedizione di L’antropologia del gesto), ma il risalto concesso all’oralità è di tutto rilievo: <<Ponendoci dal punto di vista non già della teologia, ma della Rivelazione, la Tradizione precede la Scrittura. La Rivelazione è infatti, al principio, una comunicazione orale: la sua fissazione scritta segue in un secondo tempo. Negli Stromata di Clemente Alessandrino è fatta chiara menzione della Tradizione orale degli Apostoli, dalla quale nacque poi la stesura del Testamento Nuovo>>. La cultura e la penetrazione intellettuale del Nostro gli permette inoltre di superare i limiti di tanti autori, pure a lui cari, della Tradizione (si pensi a René Guénon) nel dichiarare senza mezzi termini: <<Proprio nella cultura creduta laica, si sono formate, dopo il Medioevo, le più grandi correnti intellettuali che han tentato di riportare il senso dell’unità sacra della vita cosmico-umano-divina: il Rinascimento e il Romanticismo. Quest’ultimo fu preparato dal Settecento che non è solo il secolo demolitore mosso dal gusto sadico di sfasciare l’edificio tradizionale, ma anche il secolo che ha aperto le barriere in cui poltriva e marciva l’Europa senile, perché un’Europa giovane abitasse domani una casa più grande>>. Il capitolo si conclude con un appello a “cambiare aria” (<<Questo ci vuole per l’Europa. Questo ci vuole per il cristianesimo: allargarsi, respirare. Oltre i confini. E le sbarre che imprigionano e che sanno di muffa>>), per indicare la linea che da il titolo al volume: <<l’ispirazione orientale del cristianesimo, perseguita in sommo grado dai Padri alessandrini, discepoli dei discepoli di Giovanni, capostipite eccelso dei sapienti cristiani>>.
Il più breve secondo capitolo (Come avvicinarsi all’Oriente) è una sorta di chiarimento dei possibili equivoci cui avrebbe potuto dar luogo una errata interpretazione di quanto scritto nel primo capitolo: <<È forse opportuno chiarire, oggi, che il continuo richiamo all’Oriente non voleva e non vuole significare abbandono dell’Occidente, ma, al contrario, sforzo teso ad incontrare nella Verità centrale del Cristo i due Mondi che Egli venne a unire non solo nel senso dell’altezza (Cielo e Terra) ma anche nel senso dell’ampiezza (Occidente e Oriente). Tale sembrò appunto al Medioevo cattolico il pieno valore, verticale e orizzontale, del “segno del Figlio dell’Uomo”: la Croce>>.
Chi ha cuore una interpretazione “profonda” (ma non della “psicologia del profondo”!) della mitologia antica, greca in particolare, può proficuamente leggere il terzo capitolo (Ellenismo e Vangelo. Restituzione del mito di Edipo), dove, senza attardarsi in una confutazione della nota lettura freudiana del mito, ci indica la via d’uscita nello strettissimo collegamento tra i Misteri orfici e la nascente tragedia ellenica. Per una piena comprensione Panunzio esorta a non considerare solo il sofocleo Edipo re, ma anche il più maturo Edipo a Colono (<<È evidente che il professor Freud, fermandosi tutt’al più all’Edipo re, non ha fatto nessun caso al problema conclusivo dell’Edipo a Colono. Altrimenti si sarebbe accorto di quanti universi qui siamo lontani dai problemi del sesso e della psiche>>): <<La tragedia di Sofocle non può dunque avere, come magari altre, un’interpretazione morale, ma solo simbolica e trascendente. Edipo rappresenta il limite cui può giungere la dispersione umana seguendo la via di caduta tracciata da Eva […] Ma Edipo rappresenta altresì nell’umanità precristiana l’uomo che, raggiungendo il limite massimo della discesa e della caduta, riesce, con il fuoco ardente della verità, a bruciare tutti gli ostacoli e a imboccare la via della redenzione che conduce alla pura Origine>>.
Il quarto capitolo (Continuità della tradizione apostolica) offre un ulteriore tassello al tema dell’oralità, partendo dal commento a due conferenze che lo studioso Oscar Cullmann tenne a Roma alla Facoltà Valdese di teologia sul tema “Tradizione e Scrittura”. Panunzio, riprendendo quanto già indicato nel primo capitolo, ne ribadisce la tesi fondamentale: <<La nascente Chiesa cristiana, la Chiesa di Pietro e degli Apostoli, non ha ricevuto solo il canone delle Scritture ebraiche dalla Sinagoga, ma anche le Tradizioni orali: il cui uso è costante ed evidentissimo nelle interpretazioni apostoliche dell’antica storia sacra che è il fondamento dell’intero sistema. È questo il punto cruciale della questione. Se il libro dell’Antico Testamento, ricevuto manualmente da Pietro e dagli Apostoli, va interpretato alla luce delle Tradizioni orali della Sinagoga […] a più forte ragione il libro del Nuovo Testamento va interpretato anche alla luce delle Tradizioni orali ricevute dagli Apostoli mediante l’insegnamento di Gesù e quindi trasmesse […] alla Chiesa di tutti i secoli>>.
E veniamo al quinto capitolo (Iniziazione biblica e ultimazione eucaristica), dal titolo un po’ criptico, non tanto nel primo termine (<<Iniziazione biblica significa dunque avviamento alla sacra lettura. Ma significa, simultaneamente, consacrazione del nostro corpo della nostra anima e della nostra intelligenza mediante la lettura del Libro sacro>>), per il quale Panunzio ricorre anche ad una spiegazione che ricorda la “manducazione della parola” di Marcel Jousse (ancora una volta!): <<La Parola divina deve dunque esser mangiata, ingoiata senza rimasticature, e assimilata da tutto il nostro essere>>. quanto nel secondo. che è invece indissolubilmente unito al primo: <<Se quella biblica è una vera iniziazione conoscitiva, non però è il compimento della medesima, ossia l’Ultimazione spirituale […] Se la Legge e la Dottrina racchiuse nella Bibbia ci danno l’iniziazione, unicamente l’agape eucaristica ci dà quell’Ultimazione per la quale soltanto si può parlare di cattolicità e di pienezza, di pleromaticità>>. I due poli trovano poiuna perfetta unione nell’esperienza di Francesco d’Assisi: <<L’esempio di Francesco è il più istruttivo al proposito perché la via dell’iniziazione biblica è piuttosto la via della luce intellettuale, come la via dell’Ultimazione eucaristica è piuttosto la via dell’amore spitiruale. Ebbene, Francesco fu perfetto in entrambe; il che significa che non c’è affatto bisogno di essere intellettuali di professione, ovverossia dei dotti, per cercare e percorrere sino in fondo una via intellettuale>>.
Forse un po’ più datato può apparire il rapido sesto capitolo (Il ritorno di Beatrice: o della Teologia), non tanto per l’auspicato ritorno della teologia (<<Cos’è Beatrice? È la verità della teologia? Sì. Ma anche la grazia dei Sacramenti. È la medicina sacramentale e il ricostituente teologico. Cioè quello di cui hanno urgente bisogno le classi intellettuali d’Europa e, per quanto ci riguarda, d’Italia>>), quanto per una certa nostalgìa di Cristianità storico-sociale messa da parte invece in altri scritti…
Ancora più rapido il settimo capitolo (Cultura e “Conoscenza”: la lezione escatologica), che tuttavia riesce ad far luce in maniera risoluta su alcuni indebiti mescolamenti terminologici: <<Non si possono confondere due ordini di valori che sono abissalmente diversi, ossia la scienza sacra e la cultura profana. La seconda è fatta di cognizioni, la prima di conoscenza. Le ‘cognizioni’ sono analitiche e senz’altro a posteriori. La ‘conoscenza’ è sintetica e in certo senso a priori. Le ‘cognizioni’ constano di concetti più o meno razionali: la conoscenza è pura intuizione intellettuale. Vi può essere una cultura di cose profane, ma non può esistere una cultura di cosa sacre. La cultura, pur quando superi l’imparaticcio, è terrena ed estrinseca>>. E così via…Quanto alla “lezione escatologica” del titolo: <<All’origine (e idem alla fine) tutte le erbe erano buone e vigoreggiavano nel giardino dell’Eden ai piedi dell’Albero della Vita e dell’Albero della scienza; finche, dunque, Vita (divina) e scienza (sacra) saranno dissociate, il disegno della prima e della seconda Creazione sarà incompleto tento nel singolo uomo quanto nell’intero universo>>.
La prima parte si conclude con un ottavo capitolo di particolare fascino e originalità (Bibbia e Cosmologia), che prende spunto da due volumi di cosmologia ebraica, tradotti da un professore spagnolo, José M. Millàs Vallicrosa, che fu ordinario di Lingua ebraica e di Letteratura post-biblica nell’università di Barcellona. Il tema è particolarmente intrigante perché tuttora viene totalmente ignorato, pensando che all’ebraismo sia pertinente solo il tema della “storia” (si pensi per esempio ad un autore pur per tanti versi accattivante come Sergio Quinzio), con la conseguenza che, come ci sottolinea Panunzio, <<si è formato il pregiudizio che gli Occidentali debbano cercare fuori dalla Tradizione biblica le scienze cosmologiche, andando raminghi tra Egiziani o Caldei, tra Arabi o Indiani e persino Cinesi. E invece le opere pubblicate da Vallicrosa testimoniano proprio il contrario: ovverossia l’esistenza e la permanenza, nell’alta scienza d’Israele, di una Tradizione dottrinale cosmologica antichissima che non ha nulla da invidiare alle altre>>. Panunzio si sofferma soprattutto sul secondo volume, ossia la Cosmografia de un Judio Romano del siglo XVII, opera di un anonimo giudeo di Roma, <<che dichiara espressamente che la scienza deve fondarsi sulla filosofia, la filosofia sulla Scrittura, e la stessa Scrittura sulla Tradizione orale>> (ecco che ritorna ancora l’oralità!). Non solo, ma <<ciò che più si ammira nella sua “Cosmografia” è il profondo senso di interdipendenza tra tutti i piani dell’essere e del sapere: la Geografia sacra ci inizia ai misteri della Terra, l’Astronomia sacra ci inizia ai misteri del Cielo, mentre la Dottrina sacra per eccellenza, la Torah, ci inizia ai misteri di Dio. Aveva ben ragione il più grande qabbalista medievale dopo Maimonide, Abraham Abulafia, quando ammoniva. “Volta rivolta la Torah e vi troverai tutto>>.
La seconda parte si apre con il capitolo nono (Rosminiana. Latinità e germanesimo-sapienza e semplicità) dedicato a un vecchio amore filosofico di Panunzio, scoperto all’età di undici anni e da lui definito “un anello della Scuola Italica”: <<La Italica Schola procede con delle improvvise stelle, come delle “supernovae”, in apparenza slegate l’una dall’altra, ma legatissime in profondità. Dopo Pitagora, abbiamo Platone, Virgilio, Dante, Leonardo, Vico e, nell’Ottocento, primo fra tutti, Rosmini>>.
Di grande rilievo il successivo capitolo decimo (Simbolismo e pseudoscienza dei simboli), nel quale l’autore non esita a sottoporre a feroce critica un diffuso volume sul simbolismo (La scienza dei simboli di René Alleau): <<Lo si dirà senza giri di parole: il testo è sbagliato fin dal titolo e quindi dal suo inquadramento fondamentale. Alleau ha commesso l’identico, madornale errore di Emanuele Kant, senza, beninteso, possederne la tempra speculativa e la genialità […] René Alleau ha preteso darci un simbolismo come scienza. Ma poiché il Simbolo è l’organo universale e il veicolo perenne proprio della metafisica, proprio della Sapienza, proprio della mistica, proprio dell’iniziazione, proprio dell’esoterismo, proprio dell’Intuizione sopra-razionale, in una parola della Sacralità, esso non può mai ridursi all’inferiore livello razionale e profano pena il negare sé medesimo […] Ma c’è di peggio. René Alleau, in sostanza, ancora le sue disquisizioni e i suoi elenchi alle storture pseudo-simbolistiche dei corifei del neo-positivismo logico e della semiologia epistemologica: le quali distano dal simbolismo quanto i Cieli distano dalla Terra e gli dei dagli Uomini>>. Autori di maggiore peso e sostanza? Ne vengono citati più d’uno: Matila Ghyka, Arturo Reghini, Oswald Wirth…
Con l’undicesimo capitolo (Metafisica e orizzonti sacri in Pico della Mirandola) si torna ad un altro vecchio amore filosofico di Panunzio: <<Se si volesse indicare, per tale “cherubino” dalla più eccelsa intellettualità, qualche analogo esempio degno di lui, si dovrebbe fare il nome di Goffredo Leibnitz […] Se poi risaliamo nel passato, troveremo questa stessa temperie intellettuale nella Scuola di Alessandria e in particolar modo in Origene […] Retrocedendo ancora di altri passi verso le radici arcaiche, troveremo che questa vastissima enciclopedia dell’intelligenza, serrata però al centro di una potente sintesi spirituale, si ritrova nella persona, nell’opera, e nell’insegnamento di Pitagora>>. Questa è solo la presentazione di Pico! Segue una brillante e approfondita ricostruzione del pensiero che termina con il più spinoso problema metafisico, l’Essere e l’Aldilà dell’Essere. <<Vi è anzitutto per Giovanni Pico una differenza primaria tra l’Uno e l’Essere. In questo sia l’allievo che il maestro- diciamo Pico e Marsilio Ficino- si pongono decisamente contro Aristotele che aveva confuso i due valori, sempre distinti in Platone e in Pitagora, nei Platonici e nei Pitagorici. Riconoscendo che l’Uno è assolutamente ipercosmico, infinito e indefinibile, occulto e irrivelato […] ci si accorda non solo con il vertice del qabbalismo puro […] ma con la metafisica del Vedȃnta che Pico non conobbe direttamente, ma indirettamente sì>>.
Il capitolo dodicesimo (Fine delle “religioni universali” e inizio del Regno. Per un ecumenismo gerarchico) si apre un po’ provocatoriamente: <<L’Infinità di Cristo. Ecco un tema. Un tema desueto. O un tema mai affrontato apertamente, realmente, fino in fondo, dai sedicenti cristiani? Questi già zoppicano- e hanno zoppicato abbastanza, secolo dopo secolo- sul tema della “divinità.” […] I sedicenti cristiani si sono bamboleggiati, per i venti secoli dell’Attesa, ciarlando sulla divinità o non divinità di Cristo. Ormai è troppo tardi e non basta più. Occorre che tutto il cristianesimo salga di un grado: è anche una legge fisico-astronomica quella per cui, chi sta fermo, va indietro, scivola, e infine precipita. “Vi ho parlato delle cose terrene e non credete, come crederete se vi parlerò di quelle celesti?”. Parafrasi: Avete avuto venti secoli per credere nella mia Divinità e non vi avete creduto. Ora che sto per tornare e aprire per sempre il Regno non basta più. Dovete credere alla mia Infinità>>. E su tali basi, dopo aver messo in luce i limiti dell’”ecumenismo orizzontale” più diffuso (esemplificato dal volume Il cristianesimo e le religioni universali del noto teologo tedesco Hans Küng) espone le linee portanti del proprio “ecumenismo verticale”, oltre ogni incontro interreligioso: <<La recente mondiali sta Coreografia di Assisi può aver avuto un fascino estetico, ma, nella sostanza, ha dimostrato che le “religioni universali” e quelle “etnocratiche”, chiamate insieme a parlamento, più di quel tanto di folklore non possono dare. In pratica, codesti meetings volgono alla fine. Ciò non significa che, nel proprio sviluppo interno, le singole Religioni non continueranno validamente fino all’ultimo traguardo. Sennonché, mentre procedono ciascuno per la propria via, avanza in silenzio, nell’invisibile, un’altra realtà sempre più imminente: il Regno di Dio e del suo Unto, del Re dei Re, il vero sintetizzatore e unificatore universale>>.
Il tredicesimo capitolo (Il genio di Pio XII e lo spirito di Giovanni XXIII) è un rapidissimo sguardo su due papi posti a confronto: <<Pio XII, pur nella sua ricchissima gamma di valori, come espressione e personificazione degli Attributi divini rappresenta in prevalenza quello della Giustizia. Non per niente, il suo motto, con riferimento a Isaia, suona: Opus justitiae pax. Vale a dire: la pace è una conseguenza, un frutto della giustizia e quindi bisogna, prima di tutto, sulla giustizia insistere. Giovanni XXIII è il frutto maturo di questa semina, la primavera e l’estate dopo il duro inverno, ossia proprio la pace; e il suo motto suona: Oboedientia et pax>>.
Il quattordicesimo capitolo (Avanguardie del Gran Re) è dedicato alla Compagnia dei Gesuiti, di cui si ricorda innanzitutto l’essenza: <<Sono gli “Esercizi spirituali” rivelati dalla Madre Divina a Ignazio nella grotta di Manresa (e in essi chi campeggia è il Cristo cosmico nella sua lotta estrema) quelli che temprano il Gesuita iniziaticamente, formando in lui dalla testa ai piedi, da fuori e da dentro, un uomo tutto nuovo. Dunque questi Esercizi operano la “res mirabilis” di una spirituale immedesimazione con Cristo Gesù>>. Ma poi non si esista a difendere la vocazione sociale dei Gesuiti, scandalo per tanti tradizionalisti di varia risma: <<Circa l’accusa di aver abbandonato la Trascendenza per tematiche terrestri, ciò è veramente un assurdo. E la Beatitudine di chi ha “fame e sete di giustizia”? Non è certo roba da rinviare comodamente all’aldilà, come spiega autorevolmente la terribile invettiva di san Giacomo, “fratello del Signore” (cap.II e V). Davvero i quattro quinti della Terra e dell’Umanità debbono sfamarsi materialmente e moralmente con sillogismi medievali o con modernissime coreografie e proiezioni d’immagini? Né si dica che questo compito appartiene solo alla contingenza. Qui si cela un gravissimo errore teologico. Non si bada al fatto che i diseredati, i disperati, finiscono col maledire la vita e lo stesso Creatore: dunque, la mancata assistenza ed equità ridonda, per essi, in un pericolo per le loro anime e, di conseguenza, in un attentato al medesimo Regno dei Cieli che viene così a svuotarsi; e molto spesso dei candidati migliori>>. Il coronamento del capitolo è un elogio del Concilio Vaticano II e di padre Arrupe: <<Il cristianesimo è un fiore celeste che doveva sbocciare secolo per secolo per poi aprirsi tutto negli “ultimi tempi”. È quel che ha fatto il Concilio Ecumenico Vaticano II i cui testi, regolarmente ignorati, non si compongono né di meccaniche ripetizioni né di sconsiderati rivolgimenti, ma di un rinnovamento nella Tradizione. È l’opera provvidenziale, non ancora ben compresa, ma che ha tutto il futuro davanti a sé, del tradizionalissimo Giovanni XXIII. Ed è quel che ha delineato, con ideazione e azione parallela, la lungimiranza di Pedro Arrupe>>.
Il penultimo e quindicesimo capitolo (Pax profunda. La pace come universalità e l’universalità come pace) è un corposo saggio scritto in occasione dei settanta anni dell’amico “intermediario ecumenico” Raimon Panikkar: <<Asseriamo, senz’ombra di iperbole, che quello di Raimon Panikkar non è un caso qualsiasi, poiché egli è stato fabbricato ad arte dalla Divina Provvidenza per essere un mediatore vivo nell’intelletto e nell’anima, fin dal suo sorgere, tra l’alfa e l’omega, tra l’India “sacra” dei primordi e la Cristianità “santa” della fine. Pertanto i suoi titoli accademici, i libri scritti, le cattedre e i riconoscimenti mondiali d’ogni tipo, non rappresentano la vera celebrazione che si può e si deve fare di lui. Bisogna invece risalire molto in alto nello spazio e molto indietro nel tempo. Secondo gli indù, un occidentale che disponesse di “talento metafisico” non può essere realmente un occidentale: egli è un indù che è ridisceso tra i barbari per illuminarli ed elevarli>>. Segue un colto e acuto excursus fra pensieri e pensatori d’Oriente e d’Occidente di cui non possiamo render conto in questa sede, salvo una proposizione chiave da tenere a mente: <<In nessun luogo e in nessun tempo della storia dell’Umanità, come sottolineano solennemente i Libri sapienziali della Sacra Scrittura, l’uomo è rimasto senza l’aiuto trascendente di una Rivelazione divina che ha costituito il sostrato fondamentale d’ogni sua articolazione del pensiero, indipendentemente dal fatto di averne o no coscienza. Quindi non è mai esistito il cosiddetto “animale razionale” in cui la ragione nuda e cruda operasse da sé medesima, autonomamente, senza i lumi a lei pervenuti o per tradizione (Rivelazione indiretta) o per ispirazione (Rivelazione diretta)>>.
Le ultime pagine del sedicesimo e conclusivo capitolo (I misteri del nuovo Principio. La vera Parusìa) sono brevi ma dense. Prima di tutto il senso critico: <<L’amara verità è che il cristiano, per oltre diciannove secoli, non è stato cristiano: e il cristianesimo non è stato preso sul serio […] L’Annunzio, il bando dell’Evangelo, non è stato- dunque- preso sul serio. Si è creduto a un ritardo per i Divini Moniti, corrispettivi dei Divine Promesse. E l’umanità cristiana è scesa a patti; rinnovando l’esempio del profeta sul monte e del popolo a valle intorno al vitello d’oro. Ne è nata la cosiddetta “civiltà cristiana” che-beninteso- non manca di splendori. Ma la sostanza è un compromesso tra Dio e il mondo; peggio, tra Dio e Mammona. Il che è tanto vero che proprio questo compromesso ha reso possibile, per tutta la Terra, la pseudo civiltà anticristiana>>. E poi quel senso escatologico che ha accompagnato tutta la vita di Panunzio: <<Dunque, massimamente per i cristiani, siamo al Giudizio. E di tutto quello che è stato costruito in diciannove- venti secoli non rimarrà nulla: così come non è rimasto nulla dell’Atlantide, salvo qualche graffito sulla pietra, e il ricordo elegiaco di Platone. Né cattedrali né palazzi né libri né opere d’arte, né città né nazioni: nulla! Rimarrà solo l’aperta Natura; ma sconvolta a causa dei nostri errori e delle nostre passioni>>. Paura della fine? Ecco le parole conclusive di un volume di eccezionale valore che invitiamo davvero tutti a leggere al più presto e soprattutto a meditare: <<La fine è apparente. La distruzione è apparente. Il dolore è atroce ma, passato che sia, non ne rimane neppure il ricordo; come il Signore Gesù ha mirabilmente descritto per il travaglio del parto. Proprio così. Quello che ci attraversa è un travaglio di parto della massima grandezza; tutta la Creazione, visibile e invisibile, avverte siffatte doglie. E la cosmica Vergine dell’Apocalisse- che è la Creazione Primigenia, Immacolata, Perenne- ci darà il nuovo “Figlio maschio”, il Re dei re: ossia un Re senza più sudditi perché tutti finalmente sovrani. Siamo o non siamo maturi per comprendere , di più, per invocare, lo stupendo versetto biblico messo in fase dalla Sacra Liturgia Cattolica:? Manda il tuo Spirito e saranno nuove creature: e rinnoverai la faccia della Terra>>.
BIBLIOGRAFIA
- SILVANO PANUNZIO, Cristianesimo giovanneo. Luci di ierosofia, Prefazione di Aldo La Fata, Edizioni Arkeios, Roma 2022, pp. 204, EUR 24,90, ISBN-13: 978-88-6483-73-5
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