Ritorno a Lascaux - parte prima (di A. Bonifacio)

Prima Parte

 

 “Nel fare ciò abbiamo dovuto addentrarci nella lettura di svariate fonti giudaico-cristiane extrabibliche e pagane, nelle quali abbiamo con sorpresa trovato frequenti e talora consistenti riferimenti astronomici. Tutto ciò ci ha ulteriormente convinti – sostanzialmente in accordo con De Santillana e von Dechend (De Santillana G., von Dechend H. 2004) – che il peso e l’importanza dell’astronomia nelle culture del mondo classico e forse anche pre-classico sia stata in gran parte sottovalutata. Questo sarà l’oggetto di una o più nostre future pubblicazioni”.

(Ettore Bianchi, Mario Codebò, Giuseppe Veneziano)

Premessa

 

Perché ritorno a Lascaux?

Perché trascorsi cinque anni dalla pubblicazione dell’articolo “Solstizio a Lascaux” nuovi dati e nuove ricerche impongono di ritornare al tema dell’arte rupestre, per approfondire i suoi significati coinvolgendo l’ambiente che la ospita, ovvero quelle “grotte santuario” nelle quali sono presenti le principale testimonianze di quest’arte. Si tratta quindi di riaggiustare il tiro dell’indagine per approfondire il ruolo che questi antri, affatto casuali e quindi acutamente scelti, hanno assunto nella spiritualità umana delle origini, argomento questo di nostro principale interesse.

Sono quindi “i luoghi” dell’arte rupestre che forniscono le istruzioni per comprenderne in una certa misura il senso ed essi, per conseguenza, sono speciali, ossia ierofanici, non semplici cornici dove appendere le opere come fossimo in una galleria d’arte.

Si ha l’impressione che in lingua italiana manchino pubblicazioni divulgative atte a partecipare a un pubblico non specialista circa l’incedere dei continui e stupefacenti progressi che investono questo campo di studi, fattisi necessariamente interdisciplinari a causa della complessità di lettura di quanto è emerso in ambito paleoarcheologico e di quanto sta emergendo in questi anni.

Da tali progressi scaturiscono inevitabilmente nuovi interrogativi sulle classiche domande della filosofia (chi sono, da dove vengo, e dove vado) man mano che si scopre la sempre più complessa e reticolare vischiosità simbolica del pensiero arcaico e, allo stesso modo, si fa chiara la perfetta padronanza razionale che questi nostri stupefacenti antenati ebbero della realtà celeste e della sua coniugazione con la realtà interiore, sia pure se tale conoscenza è stata perseguita con l’ausilio di un armamentario tecnico efficacemente e necessariamente semplice, visto che ci riferiamo alla cosiddetta all’età della pietra.

La molteplicità delle discipline cui riferirsi per disbrigare una matassa fattasi via via sempre più aggrovigliata, è divenuta in poco tempo inaspettatamente molto più ampia di anno in anno, perché le competenze investite per la comprensione dei dati investono in maniera peculiarmente interdisciplinare diversi settori di ricerca, all’apparenza disparati, in conformità di questa dichiarazione: “Un nuovo metodo integrale combina i risultati di archeologia, astronomia, etnologia, cartografia, mitologia, fotogrammetria, studi religiosi, semiotica e simbolismo. I pensieri sorprendenti di questo libro studiato con precisione costringono a ripensare alla "preistoria" della scienza e al suo rapporto con la vita umana.” Ebbene tale dispiegamento di forze incrociate è sicuramente ormai indispensabile al fine di fornire suggerimenti, in riferimento alla domanda “da dove vengo”, perché in relazione a questo interrogativo molte cose sono cambiate nel tempo e lo studio delle manifestazioni esteriori dell’attività “pensante”, colto nella sua manifestazione simbolica come prospetta quest’arte, offre impareggiabile occasione di meditazione sul tema ineludibile dell’Origine.

 

Lo studio dell’immenso patrimonio dell’arte rupestre è già stato avviato da molti anni da qualificati studiosi e, attese le nuove conclusioni, non si può certo dire che sia ancora arrivato al suo capolinea perché nuove e convincenti interpretazioni si affacciano nel campo degli studi ed esse si propongono con grande legittimità all’attenzione dei cultori di queste forme d’espressione del lontano passato.

Ricordiamo, solo per mnemonico richiamo al fine di stabilire un canovaccio narrativo lineare, i vari possibili approcci che, storicamente, si sono succeduti nel tempo, ossia le chiavi in cui si è tentato di risolvere il tema dell’esistenza prolungata di quest’arte: arte per l’arte, magia della caccia, disposizione organizzata degli animali rappresentati secondo uno schema strutturalista fondato sull’opposizione binaria. Ebbene tutte queste interpretazioni hanno sofferto nel tempo dei loro limiti intrinseci e così sono nate nuovi approcci ermeneutici per comprendere qualcosa che, sebbene sia così istantaneamente comunicativo in quanto espressione principalmente figurativa , rimane al contempo parimenti criptico nelle sue funzioni e nei suoi scopi, resistendo finora ad ogni definitiva soluzione.

E’ singolare però che nessuna di queste proposte interpretative sia totalmente incompatibile all’altra, visto che anche la ricercata bellezza, che rivela oltre una perfetta padronanza del mezzo espressivo, un indubbio compiacimento estetico nella resa dei soggetti, giustifica, seppur in modo obliquo, l’accreditamento della stessa alla tesi “di arte per l’arte”. Allo stesso modo vera è la relazione che interessa le varie figure animali che occupano sezioni non causali della grotta secondo l’indicazione strutturalista, come parimenti può ritenerci compatibile l’idea della caccia nella prospettiva della catasterizzazione di alcuni raggruppamenti stellari in funzione di una possibile caccia celeste prototipica che ci è giunta abbondantemente documentata nei miti d’epoca successiva.

Fin qui la storia (molto semplificata)                  

Girata una pagina si sono affacciate nuove proposte derivate da nuove acquisizioni di cui, davvero epocale, è stata la scoperta e la datazione di Chauvet che ha sparigliato così le carte e decostruito un castello evolutivo faticosamente eretto.

Con questa scoperta l’arte rupestre, fin dal suo esordio, si manifesta complessa e matura, grondante di possibili significati che vanno dallo psicologico-spirituale (in senso di psicologia del profondo, “hillmaniano”), attribuendo all’orchestrazione dello sciamano l’autorialità delle composizioni e giungendo financo a vedere in quest’arte una connessione costante con la volta celeste di cui comunque lo sciamano arcaico resta dominus.

Un dato è certo: l’approfondimento interpretativo è proceduto di pari passo alla comprensione, via via crescente, sulle capacità intellettive del sapiens cromagnoniano. Questo ha spaventato molti interpreti che hanno bisogno, per appagare la fissità inamovibile dei loro schemi mentali, di vedere nel primitivo sempre il bruto.

Odiernamente, in qualche modo, si sta rovesciando la clessidra e ciò che si riteneva inferiore, oggi si rivela persino superiore al modello contemporaneo, perché anticipatore di una comprensione della realtà che diverrà manifesta in epoche successive in presenza di fonti scritte verificabili. Questo percorso di riscoperta dell’uomo ancestrale, letto nell’ottica discensiva delle ere, ha permesso allo scrivente di iniziare seppur da semplice orecchiante della materia, un duraturo rapporto di collaborazione con l’associazione Simmetria, decorsi circa due decadi da allora, cercando di seguire all’indietro le tracce di una possibile Tradizione primordiale, laddove essa dovrebbe verosimilmente essere e dove unicamente è dato all’interprete di cercarla, ovvero nel passato. Ciò ha dato modo di proporre una serie di pubblicazioni (libri e articoli) in cui lo scrivente s’è impegnato, man mano che s’accresceva la disponibilità dei dati, a mostrare due cose fondamentali che tra loro sono senz’altro relazionabili e vale a dire: la complessità del pensiero simbolico arcaico, inteso come preistorico e con ciò la possibile bontà dell’interpretazione perennialista la cui validità, ad oggi, appare è ben più di una suggestione pur tra molteplici e giuste cautele.

E’ infatti all’interprete che tocca il compito di ricucire tra loro l’Ur mythos delle simplegadi di A. K. Coomaraswamy, espressione peculiari delle ghigliottinanti porte celesti, con Giorgio de Santlllana e Hertha von Dechend, che sposano anch’essi la tesi di una comune sapienza arcaica. A ciò vi sono da abbinare gli studi dei paleoastronomi ed etnoastronomi attuali che indicano che la scienza astronomica arcaica, che non si esplica in una conoscenza profana, oltre a esprimesi nel mito nel mondo classico attraverso abili travestimenti (Es. Marte e Venere catturati nella rete delle Iadi una volta scoperti da Vulcano) sta alla base del rito e qui il rito sembra inequivocabilmente connesso al tema delle porte celesti ovvero di quei passaggi che nelle tradizioni arcaiche e storiche consentivano in passaggio dell’anima da una dimensione “terrestre” a una “celeste”.

Abbandoniamo quindi le vecchie interpretazioni e con esse lo strutturalismo, cui va il merito d’aver proposto l’idea che la caverna istoriata sia un luogo organizzato secondo determinate regole binarie (es. maschio, femmina) e riavvolgendo in nastro, approfittiamo di una riflessione di Hillman che declina perfettamente le inclinazioni spirituale di cui qui ci si propone di trattare, sia pure in chiave di psicologia archetipale, per un cenno sulla sua visione di questo mondo arcaico. Al momento è alla mente degli antichi che cerchiamo di arrivare e appare congruo lambirla con quanti più approcci possibili e quanto accennato dal controverso discepolo di Jung appare particolarmente illuminante a questo scopo perché antecedentemente al parlare dei luoghi è necessario prima indagare sulle menti che questi ambiti frequentarono.

Il cuore del pensiero di questo autore è l’Anima e i suoi contenuti, i suoi poteri, il suo senso e la sua riflessione s’incentra sul grande curatore di anime, qual è stato lo sciamano, operatore in grado di raccordare la frattura tra l’anima individuale e l’anima del Mondo e scrutare quindi nel buio, proprio quel buio dove l’artista paleolitico aveva messo in gestazione il suo universo animale per innalzarlo direttamente al cielo e facendo di lui non tanto un suggeritore psichico quanto un suggeritore metafisico secondo la felice espressione utilizzata da Zoccatelli e da Salzani nell’introduzione al libro di Louis Charbonneau Lassay Il giardino del Cristo ferito

Donde nascevano quelle composizioni senza linea di fondo almeno nella quasi totalità dei casi? Da quale abisso scaturivano?Qui si assiste a un totale rovesciamento di posizioni che riguardano il dentro e il fuori. Le immagini non rappresenterebbero il fuori, il paesaggio esteriore, piuttosto in contrario, è il dentro che viene “messo fuori”, quindi il paesaggio interiore, colto nella sua radice archetipale più profonda. Hillman si serve di una riflessione di Origene per illuminarci e proporci una chiave di lettura dei temi proposti da questo universo pittorico.

Il filosofo e teologo greco ribalta la comune concezione secondo la quale gli esseri che popolano il cosmo siano esterni alla nostra persona, questi, differentemente, riconobbe ad essi un alto grado di “animicità” affermando che essi esistono in primo luogo dentro di noi e per questo così ne scrive: “Comprendi che hai in te stesso greggi di buoi, greggi di pecore e greggi di capre, Comprendi che in te ci sono anche gli uccelli del cielo...Comprendi che tu sei un altro mondo in piccolo e che in te ci sono il sole la luna e anche le stelle“. Dal che potrebbe concludersi con Hillman che, come sempre ritenuto dai “pagani”, ognuno di noi è un microcosmo che incorpora gli animali, un’arca di Noè, ma gli animali hanno anche una funzione dentro di noi e a noi si presentano come “anime escrescenti”. (J. Hillman Presenze animali pag.73)

Ai tempi nostri un poeta, studioso di poeti, internazionalmente conosciuto, trasformatosi proprio in virtù della sua inclinazione, in appassionato ricercatore, Clayton Eshleman, è stato folgorato dall’arte rupestre e ne ha fatto uno dei sui più rilevanti centri d’interesse della sua vita a tal punto da essersi ritirato per molti anni in Europa proprio per studiare, o meglio vivere, quest’arte proprio nei luoghi in cui essa si è manifestata. Egli quindi spontaneamente si è collegato al sovraesposto concetto origeniano per cui gli animali, in primis, vivono dentro di noi e per questo in questo suo pellegrinaggio, davvero congiuntamente interiore ed esteriore, ritenne di sostare per così lungo tempo nei “luoghi di potere” per accedere ai contenuti peculiare di quell’arte, per carpire i segreti di quell’anima da cui le opere erano scaturite. In fondo il compito del poeta o del semplice lettore quando tenta di comprendere altri poeti è quello di entrare nelle loro anime e qui l’homopoeta arcaico parrebbe fosse lo sciamano.

Da qui la sua sintesi sul tema e la proposta di leggere queste rappresentazioni come momenti di coscienza riflessiva innescatasi nel momento di quell’illo tempore in cui “si sono nominati gli animali”, situandoli “fuori”, per questo sarebbe da affondare in strati lontani in una forma di “paleoecologia della mente” per illuminare la nostra secondo i propositi illustrato dal suo libro Juniper Fuse (gli stoppini con i quali i nostri antenati illuminavano le grotte) perché sono stati dipinti su quelle pareti traendoli dalla visione interiore al buio claustrofobico delle specole, raramente interrotto da sprazzi lampeggianti di luce. Dopo di ciò la percezione numenica dell’animale lentamente si annebbiò operandosi la grande diserzione tra l’uomo e il resto e l’animale, esteriorizzandosi, non fece più parte di noi se non a livello onirico

L’impossibile arte rupestre

“Questo perché i traduttori dei vecchi testi avevano la religione nel cervello e per di più sotto l’influsso dell’evoluzionismo, dovuto, quest’ultimo a peccato originale dei nostri progenitori storici e filologi del XIX secolo che avevano osato applicare lo schema biologico dell’evoluzione alla storia della cultura di una sola specie quell’homo sapiens” (Hertha von Dechend: Il concetto di Simmetria nelle culture arcaiche)

La citazione in esergo è quanto mai salacemente beffarda se l’applichiamo ad alcuni interpreti dell’arte arcaica e preistorica che pretenderebbero di risolvere certe anomalie diacroniche dell’arte rupestre con comode soluzioni di incompatibilità ...cronologica.

Così ha pubblicamente fatto il noto storico e critico d’arte Alberto Cottignoli, che di fronte alla qualità stupefacente dell’arte di Chauvet e ai numerosi esempi di prospettiva in essa presenti, ebbe stizzito ad affermare: “Mi sembra chiaro che gli “esperti” che hanno analizzato queste pitture, ammesso che ciò sia stato fatto, non avevano la più pallida idea di come le capacità dell’uomo di disegnare si sia sviluppata e dei tempi in cui ciò è avvenuto. Supporre che sia esistito qualcuno, 37.000 anni fa, capace di produrre il disegno in fig.1 è cosa demenziale o che deve presupporre un altrettanto demenziale intervento di extraterrestri”. ”http://albertocottignoli.over-blog.it/2015/06/la-grotta-chauvet-pont-d-arc-un-falso-clamoroso

Cottignoli, quindi, dall’alto della sua competenza in materia di expertise, ha rimarcato come la succitata visione prospettica essendo “estremamente complessa” sarebbe incompatibile con la storia dell’arte in quanto la “scoperta” della prospettiva risalirebbe categoricamente alla data certa del VI secolo a.C. e che quindi, per questo solo motivo, la sopraddetta immagine non può essere autentica.

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Fig. 1

Le motivazioni per la falsità di questo dipinto secondo il maestro:

“Provare la falsità di questo ciclo pittorico non ci porterà via molto tempo, basterebbe infatti esaminare la fig.1 per chiudere la questione.Bene, la freccia A, indica la zampa anteriore destra del bovino che è stata disegnata in visione prospettica estremamente complessa, esattamente secondo questi principi: primo, la zampa è parzialmente nascosta (nella zona alta) dal corpo dell’animale, secondo, la zona terminale della zampa medesima è molto, molto più in alta di quella della zampa sinistra. Bene, ciò allude ad una specifica situazione prospettica che è quella della visione dall’alto che fa si che la zampa più lontana appaia più corta (perché nascosta parzialmente dal corpo) e con la parte terminale impostata più in alto in quanto più lontana di quella della zampa sinistra. Peccato però che questa situazione disegnativa non possa sussistere in un “dipinto” di quell’epoca”. Questa la conclusione dello studioso “Dato che questo rython è un ritrovamento archeologico recente (1960 circa), siamo adesso anche in grado di datare i falsi dipinti che interessano tutto il ciclo in quanto prodotti dopo la scoperta della testa di toro di Creta: trattasi di pitture eseguite con certezza non prima del 1960!”.

Naturalmente l’illustre critico e storico d’arte ha sposato appieno l’idea dell’evoluzionismo del sapiens, sopra stigmatizzata dalla Von Dechend, non ritenendo di produrre neanche due righe di argomentazioni in riferimento, che andassero oltre il suo sdegno d’artista - si consideri che il suo articolo è del 2015 e quindi a datazione ormai pienamente acclarata del luogo criticato -, a quello che è il sito preistorico più datato della preistoria, la cui conoscenza è promossa dalla Repubblica francese accogliendo pienamente la datazione accertata.

Oltre a questa ben altre sorprese ci attendono nel corso di questa esposizione visto che ci siamo prendiamo l’occasione per parlare di un altro paio di spunti che si generano intorno a Chauvet che sta proprio all’esordio dell’arte del paleolitico superiore e si mostra già sorprendentemente matura stabilendo delle convenzioni rappresentative che continueranno a essere usate per tutto il successivo paleolitico e che si può dire, ad esempio, ritroveranno “la via di casa” solo con la pittura futurista, corrente artistica nata da tutt’altri intendimenti.

Alludiamo a quell’idea del movimento che da vita all’immagine e che a Chauvet gode di numerosi aspetti

Iniziamo con il dire che, per comprendere i meccanismi realizzativi e percettivi dell’arte rupestre, l’immagine non può essere decontestualizzata dal supporto che l’accoglie, ovvero la roccia, e quindi calligraficamente riprodotta su una superficie piana. Tale processo di riproduzione falserebbe l’autenticità dell’esperienza visiva di immagini che non sono state concepite, né sarebbe stato possibile, alla luce piena di una illuminazione artificiale, perché esse hanno trovato vita alla luce tremolante di una torcia alimentata con il grasso animale. Così sono state “pensate”, così sono stare realizzate, così sono state godute.

Esaminando in situ il graffito così com’è ancorato al suo irregolare supporto rupestre esso si rivela “semanticamente poliglotta” in quanto alla luce delle torce d’allora le scabrosità della superficie generano diverse associazioni d’immagini indubitabilmente volute che si propongono come portatori di complessi significati propri sicuramente compiutamente comprensibili solo ai realizzatori (cfr. Matteo Meschiari Sciamanesimo paleolitico europeo pag. 93 in AA.VV. Le origini sciamaniche della cultura europea).

Qualcuno è andato anche oltre tale posizione.

Se si esaminano alcune immagini dell’arte rupestre, tra loro apparentate, si scopre che alcune di esse non si riferiscono a due soggetti distinti, bensì allo stesso soggetto colto “in movimento” come se le due immagini fossero due fotogrammi con il medesimo attore. Nel suo ultimo lavoro, La preistoria del cinema, pubblicato da Errance con la prefazione - benedizione di Jean Clottes e di Bertrand Tavernier, lo studioso d’arte preistorica e documentarista cineasta Marc Azéma ha evidenziato questa caratteristica del pensiero paleolitico, assolutamente inedita e che in un certo modo anticipa il futurismo, cui prima si accennava, ovvero la presenza del movimento stesso della vita che si esplica in atti propri alle specie nelle immagini rappresentate.

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Fig. 2

Immagini dinamiche di Chauvet

Azema ha distinto le immagini animate in due classi distinte da altre sottoclassi con Accanto al libro con la suggestiva copertina troviamo la decomposizione dei movimenti per sovrapposizione di immagini successive. Il bisonte a otto zampe di Chauvet è il primo di una lunga serie di animali che sarà caratterizzato da questo tipo di movimento di cui una sottoclasse è il felino de la Grotte de la Vache che possiamo considerare un taumatropo (che “funziona” per effetto della persistenza retinica). L’immagine completa dinamica si compone di tre movimenti distinti. (animazione in https://gfycat.com/arcticspicyalligatorgar)

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Fig 3

Decomposizione del movimento per giustapposizione di immagini successive

La serie di cavalli di Chauvet secondo Azema rappresenterebbe, il movimento colto nel tempo di un medesimo soggetto ,contrariamente alla linea di rinoceronti presente nella stessa grotta, considerati invece in prospettiva,

Azéma ha infatti individuato il principio delle animazioni sequenziali su alcune rappresentazioni parietali disseminate a Chauvet, la cui eccelsa qualità rappresenterebbe l’apice tecnico e non l’esordio pittorico, come converrebbe alla sua datazione aurignaziana estremamente arcaica. In effetti, la moltiplicazione di alcuni dettagli come le gambe, le teste o le code in alcune figure, costituiscono effetti visivi che evocano la corretta scomposizione del movimento dell'animale in fotogrammi distinti e non un errore dell'artista, oppure un pentimento o una correzione introdotta in seguito da qualcun altro.

Secondo questo stesso principio, un'immagine in cui lo stesso animale è rappresentato sovente incompleto spezzato in due o tre immagini contigue si ricompone nella mente dell’osservante, forse con artifizi luministici, come una torcia mobile, oppure ricorrendo “all’immaginazione” per mezzo della quale i fotogrammi sono ricomposti per effetto della persistenza retinica (quello che rende possibile la magia del cinema)

In altre parole l’artista paleolitico e il suo “direttore spirituale”, lo sciamano, pensavano dinamicamente: non facevano istantanee ma “pellicole”! Nel 2007, Rivère, un collaboratore di Azema, aveva identificato nei siti di Francia e Spagna i primi taumatropi. Lì infatti erano stati rinvenuti dei dischi di pietra e osso, solitamente con dei fori centrali, con incise ai lati opposti le immagini di animali seduti e in piedi. Facendoli ruotare con una corda di tendini al centro, li avrebbe messi “in movimento”. Una forma di taumatropia già contemporanea (di cui esiste anche una precisa ricostruzione di archeologia sperimentale) seppur molto, ma molto ante litteram e che è diffusa persino nell’arte mobiliare arcaica come mostra esemplarmente una magnifica incisione di osso rinvenuto nella “Grotta della vacca” in Ardéche che raffigura, in maniera davvero stupefacente, il triplice movimento di un felino. A ciò si aggiungono altri reperti tematicamente affini (nonché cinematicamente affini!) perlomeno curiosi.

A Chauvet si ha quindi un ampio impiego della prospettiva e parimenti del movimento dinamico di alcuni soggetti che avendo preceduto Boccioni di circa 38.000 anni sarebbe, secondo il Cottignoli pensiero, sicuramente falso..

Il grande “pannello della caccia”, di Chauvet, messo suggestivamente in copertina nel libro di Azéma come fosse uno schermo cinematografico, è davvero una vera sala cinema in cui si ‘racconta’ una storia. Tutto ciò deve tener conto che nella prefazione del citato libro Azéma dichiara di condividere la bontà della tesi sciamanica di Jean Clottes e David Lewis Williams, secondo i quali l'arte della caverna preistorica è la traccia dei viaggi sciamanici degli uomini preistorici nell’Altrove. Le rivoluzionarie tecniche di trattamento dell’immagine di Azéma hanno fatto concludere a questo specialista - e dopo un lungo studio - che ben il 40% dell’arte delle caverne va letta nel senso del “disegno animato” e quindi dell’azione, da qui la sua davvero rivoluzionaria concezione intorno al significato dell’immagine nell’arte rupestre: “le figure dell'arte paleolitica non sono solo descrizioni ma narrazioni”.

Piace aggiungere un’ulteriore riflessione che è conclusiva del complesso studio del già citato Matteo Meschiari dal titolo Sciamanesimo paleolitico europeo in cui il ricercatore afferma: ”Lo sciamano è un professionista delle immagini che, accompagnandole e facendosi accompagnare da esse, getta un ponte di corda sui vuoti della parola” (Le origini sciamaniche della cultura europea pag. 49)

Proprio partendo da questo pressoché indiscusso legame tra arte rupestre e sciamanesimo, superata naturalmente a nostro parere la ristretta visione “entottica” di Clottes, ci sentiamo di aggiungere degli ulteriori riferimenti alla circostanza: Scrive C. Jegues Wokiewietz “Ma sempre ignorandone la struttura i rapporti tra gli astri luminosi del cielo e la terra madre che sono i principi fondamentali di ogni religione e dello sciamanismo in particolare. Essi esistono ancora eppure pure nello spazio visibile che che i paleolitici ci hanno lasciato in eredità come nel nostro, o ancora nei popoli che praticano ancora lo sciamanismo. Le coordinate costanti della luce sono ancora le medesime è per questo che questa religione animista ha attraversato il tempo e s’è propagata in tutto lo spazio della nostra terra madre”. (Wolkiewiez: Lascaux pag. 12) Una conferma della sostanziale ubiquitarietà della figura sciamanica sia nella sia accezione spaziale che in quella temporale, una figura “necessaria” quindi, un pontifex tra questo e l’altro mondo.

  

Immagine acustica

Lo sciamano è un viaggiatore cosmico […] che opera una rottura di livello fra le diverse zone del cosmo e il suo canale di comunicazione; una comunicazione illo tempore aperta a tutti gli uomini, ma ora prerogativa del viaggio estatico dello sciamano che trasforma così un ideogramma cosmologico in un concreto vissuto esperienziale (…) Una dimensione analoga a quella visione coesiva della terra, con tutto ciò che vi è sopra , come un solo e complesso sistema vivente, formalizzata recentemente dallo scienziato inglese Lovelock nell’ipotesi geofisiologica di Gaia”

(F. Speziale: Il volo dello sciamano)    

 

Una menzione ulteriore lo merita senz’altro l’archeoacustica anch’essa propostasi come nuova possibile chiave di lettura dell’arte rupestre relazionata al “Santuario” nel quale certe speciali riverberazioni hanno trovato ancestrale attenzione. Necessariamente i vari approcci, ovvero quello dinamico, quello acustico e inoltre quello astronomico che si vedrà nel prossimo paragrafo, debbono combinarsi possibilmente ed efficacemente tra loro e non elidersi uno con l’altro, visto che ciò che si descrive dovrebbe discendere dalla oggettività dei fatti. E’ come se di una cattedrale gotica ci si limitasse a far risaltare la perfezione acustica trascurando il resto. Noi sappiamo che tale edificio non è una sala concerto ma fra 10.000 anni eventuali archeologi, senza altri elementi di supporto, potrebbero valutarne l’aspetto solo sotto questo profilo perché l’acustica del luogo è insuperabile.

Così vale per altri approcci ad esempio l’orientamento delle vetrate, i contenuti delle stesse, la presenza della cripta e il suo ruolo, i labirinti, l’animalistica profusa nei capitelli ed altro ancora. Per conseguenza se la la cattedrale deve essere compresa nella sua interezza, valutando tutti gli aspetti che concorrono alla sua unicità, identicamente l’approccio conoscitivo non dovrebbe essere rivolto tanto all’arte rupestre in sé quanto piuttosto all’ambiente che la ospita e quindi al di fuori di ogni aspetto funzionale di coloritura pratica. Essa è un santuario perché ivi si manifesta una ierofania e le pareti, una volta istoriate, esprimono delle narrazioni, come fossero iero-storie, che riguardano il mondo celeste che vengono, a volte, e in circostanze precise, vivificate dalla luce come le vetrate templari (Fulcanelli docet!). Qui tra le pareti della grotta la musica che vi si ode è quella propria che scaturisce dalla roccia stessa quand’essa è percossa sia pure lievemente.  

E’ quindi indispensabile fare un cenno agli studi di Iegor Reznikoff nella considerazione che questo ricercatore è passato dallo studio delle risonanze nell’ambito dell’architettura romanico – gotica, a quello delle grotte preistoriche. Tale disinvolto passaggio reca il segno della continuità e non della frattura, in quanto il Reznikoff ha solo proceduto all’indietro cercando la radice del codice acustico che in qualche modo accosta tra di loro determinati spazi uniti dallo loro comune dedicazione al sacro utilizzando - e sorprendentemente - codici comuni. Le collimazioni con l’astro del giorno e della notte, oggettivamente presenti anche in molteplici testimonianze templari anche di modesto rilievo architettonico ma significativamente orientate (si pensi ad alcune architetture del Salento studiate da Aldo Tavolaro o alle chiese croate che hanno avuto la fortuna d’essere “lette” da interpreti preparati) d’epoca cristiana, fanno il paio con le risonanze dello studioso francese che ha rivelato come a ‘certi’ animali rappresentati si leghino ‘certi’ suoni. L'associazione tra suono e immagine nell'arte rupestre è confermata ormai anche da nuovi studi. In Spagna in alcune grotte nella regione di Vallorta, a Nord di Valencia, dei test acustici effettuati utilizzando voce, fischi e il battere delle mani hanno mostrato che le pitture sono concentrate in angoli caratterizzati da una forte risonanza acustica e da numerosi echi. Lo studioso ha inoltre confermato l’opinione di chi ritiene detentore di questa sapienza arcaica legata alla risonanza dei luoghi sia lo sciamano cui tutto sembra ritornare.

Reznikoff ha mostrato come alcune “nicchie sonore” si rivelino particolarmente suggestive, nella loro capacità di risuonare, dal momento che individuano luoghi della grotta che sono decorati con particolare insistenza, la risonanza che qui si ode può perfino richiamare le stesse grida degli animali rappresentati (rimuginare il bisonte, nitrire del cavallo ...), ovvero il loro ritmo sonoro, l’essenza più intima del loro essere, direbbe forse Marius Schneider, un effetto constatato, per esempio, in una nicchia nella Grande grotta d’Arcy, circondata da stalattiti con punti rossi.

La controprova della bontà interpretativa di quanto proposto può rinvenirsi in una grande sala della grotta di Le Portel, dalle pareti completamente lisce. Essa sebbene sia stata intensamente frequentata durante il maddaleniano e non reca traccia alcuna di pittura, infatti è completamente priva di effetti di risonanza e Reznikoff annota: «Ci ho messo del tempo a rendermi conto che gli uomini del paleolitico utilizzavano i suoni anche come guida nelle grotte», e, aggiunge lo studioso: “È illusorio comprendere il significato dell'arte rupestre limitandola all'aspetto visivo”.

Il suo studio rimanda un poco a quello compiuto dallo Schneider sui fregi animali dei capitelli di San Cugat del Valles e della cattedrale di Gerona in cui a ogni animale è attribuito un valore musicale e che congiuntamente formano un armonico spartito .

Si mostra così come a ogni nuovo passaggio la profondità percettive di questi uomini arcaici mostri caratteristiche sempre più complesse legate anche da una sensibilità derivata dalla situazione di immersione ambientale, affatto narcotizzata, e questa sensibilità coinvolgeva evidentemente anche la dimensione della sfera celeste oggetto di incontaminata contemplazione in queste avite ere.

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