Lo sciamano e il sacerdote (di A. Bonifacio)

Premessa: la terra è un angelo

“Camminavo all’aperto in un bel mattino di primavera. Le messi verdeggiavano , gli uccelli cantavano, la rugiada brillava, il vapore s’alzava; una luce si posava su tutte le cose trasfigurandole; non era che un piccolo frammento della Terra...eppure non mi pareva soltanto così bello, ma così vero ed evidente che era un Angelo, e un Angelo così sontuoso, così fresco, così simile a un fiore, e insieme così concreto e raccolto che si muoveva nel Cielo... che mi chiesi come era possibile che gli uomini fossero così accecati da non vedere nella Terra che una massa arida e da cercare gli Angeli sopra o accanto nel vuoto del Cielo, per non trovarli in nessun luogo...” (Sul problema dell’anima Th. Fechner) 

Di fronte all’imminente appuntamento sinodale denominato appunto Sinodo sull’Amazzonia”, che si prefigura come evento davvero epocale, non solo per il futuro della chiesa cattolica, ma, altresì per il mondo intero, a causa del tentativo di trasformazione giuridica di questo territorio in area protetta e tutelata dalle Nazioni Unite, sono sorte all’interno della stessa compagine ecclesiale due posizioni contrastanti anzi opposte rispetto al tema. Si fronteggiano due schiere che oppongono tra loro due visioni del mondo e dell’approccio evangelico. La prima è composta da chi vorrebbe evitare ogni proselitismo locale in nome dell’ecologismo integrale, della bontà della cosmovisione sciamanica, del carattere caratterialmente anticapitalista e antigerarchica dei gruppi sociali indigeni, tuttora saldi nel loro modo tradizionale di vivere, contro chi, invece, vorrebbe estendere un unico modello religioso, che si ritiene universalmente valido sulla scorta di un pensiero unico progressista, anch’esso universalmente valido, accompagnando il disboscamento compulsivo della selva amazzonica, quale luogo di “non civiltà”, al fine di svellere ogni prospettiva e rivendicazione indigenista dall’orizzonte della contemporaneità.

Un sostenitore di questo secondo partito, Stefano Fontana, stigmatizza intorno alla “collocazione” religiosa delle popolazioni locali che si attarderebbero su una deprecata e deprecabile forma d’animismo. Si tratta un “apprezzamento” dei valori autoctoni in verità oltremodo tranchant che, naturalmente, costituisce una chiave interpretativa della situazione spirituale locale da estendersi ubique e semper, in relazione a qualumque forma religiosa “altra” diversa quindi dal cristianesimo. Questo è un assai passaggio significativo del suo commento di cui ci serviremo come occasione per concentrarci sulla contestatissima figura dello sciamano in generale e sulla sua declinazione amazzonica in particolare, accettando il confronto con il “sacerdote” così come prospetta l’autore del  brano sottostante.    

L’animismo è una forma arretrata e brutale di paganesimo. È una religione che schiavizza l’uomo e lo sottomette a tante forze disumane fuori e dentro di lui. Non è una religione “naturale”, ma naturalistica. Non è una religione spirituale, ma spiritistica. Non ci parla del mistero ma della magia. Non è ragionevole ma superstiziosa. Non ha sacerdoti ma sciamani. Non è in armonia con le forze della natura perché le divinizza. L’animismo produce soggezioni ancestrali, permette la perpetuazione di credenze malefiche, blocca lo sviluppo dei popoli, impedisce di credere nell’uomo. Lo spiritismo è innaturale per l’uomo perché è irrazionale. (Stefano Fontana)

Queste intransigenti espressioni dimostrano che, come appena detto, la disputa tra i due contendenti è al calor bianco, rimproverando i tradizionalisti d’aver abbracciato, mercè le argomentazioni ecologiche assai d’attualità, addirittura un “ritorno all’animismo” e quindi il “ritorno” alla concezione sacrale della terra quale “madre provvidente”, una concezione davvero somigliante a quanto narrato nel film Avatar, all’epoca non certo a caso censurato per il suo tono panteista dalle gerarchie ecclesiastiche. In realtà sembra di potersi affermare che la loro posizione è contraria a qualsiasi ammissione di una possibile metafisica (scienza che con Aristotele diviene parte della filosofia, la metafisica, in realtà,  il cuore della philosophia perennis) della natura, scordando che proprio Giovanni Scoto Eriugena aveva applicato lo schema trinitario alla creazione in cui il Padre era l’essentia, il Figlio la sapientia e lo Spirito Santo la vita che permette e rinnova quindi la vita dell’Universo.

 

Gli spazi sacri degli “altri”: la foresta, il bosco e la radura

Sembra che i Tupis Guaranì siano i discendenti diretti del Homo Brasiliensis il quale sopravvisse agli sconvolgimenti conseguenti al distacco dei continenti sudamericano da quello africano nella mitica terra di Pindorama, l’altopiano centrale del Brasile. Il Tuyabaè – cuuà, la saggezza dei vecchi sciamani, sembra risalire ai primordi dell’umanità ed essere depositaria di una tradizione religiosa e mistica di grande purezza ed elevazione solamente esprimibile da una razza di antichissima maturazione spirituale

(Pierluigi Lattuada, medico, psicologo clinico, psicoterapeuta ed etnologo)

Non siamo qui a spezzare lance a favore di chicchessia, perché anche dell’altro schieramento, così ingenuamente roussoniano, almeno all’apparenza, si omettono di indicare le incompatibilità irriducibili che il supposto animismo amazzonico ha con il cristianesimo (guerre rituali di carattere tribale, cannibalismo, e soprattutto uso delle “droghe” - ayahuasca – che in via normale è impiegato per realizzare una comunicazione  con la realtà che sta dietro le cose e di riflesso medicalmente e anche terapeuticamente per contrastare efficacemente tossicodipendenze e alcoldipendenze), vi sarebbe quindi da soffermarsi criticamente su questa posizione, ma contiamo solo di evidenziare quelle insanabili contraddizioni che hanno portato all’estinzione generalizzata di un sistema di credenze di caratteristiche fortemente sciamaniche che è rimasto comunque schiacciato nei bracci della tenaglia del pensiero occidentale (e non solo, in verità, perché la persecuzione è stata planetaria) e che ha prodotto nei secoli, e ora nell’attualità, l’estinzione di culture millenarie e con esse l’eliminazione, sovente totale, degli uomini che ne erano e ne sono portatori (etnocidio e genocidio) inevitabilmente supportato da un senso di superiorità abbracciante ogni dominio dello “scibile” e del “credere”.


Fig. 1 - Albero su cui sono aggrappate le liane che forniscono alcune delle componenti per la preparazione dell’Ayahuasca

In tempi piuttosto lontani dai nostri e da cui siamo separati da alcuni millenni, gli indigeni dell’Amazzonia riuscirono a “trovare“ in modo del tutto empirico (o su suggerimenti provenienti dall’invisibile visto che la legge delle probabilità esclude che si possa avere la conoscenza delle combinazioni di 80.000 specie vegetali) il sistema di trattare questa coriacissima corteccia di liana per estrarne un succo da combinare con altre sostanze vegetali, un mix altamente sofisticato da un punto di vista biochimico e di grande complessità simbolica che avrebbe generato l’”enteogeno” fondamentale della cultura amazzonica. L’ayahuasca è, in qualche modo, l’espressione vegetale dello stesso sciamano, quale intermediario tra il mondo degli uomini e “gli spiriti”, in quanto il rampicante si serra intorno all’albero del mondo con le sue spire lignee, in un percorso che da terra conduce le robuste liane oltre l’invisibile chioma dell’albero. L’ayahuasca, comunque, non è affatto una “droga ricreativa”, com’è stata frettolosamente rubricata, in quanto non è droga perché non da assuefazione (ma anzi la contrasta), richiede la partecipazione dell’adepto a tutta la laboriosissima preparazione (se questi non è un semplice curioso che mira alo “sballo” esotico), è di sapore e odore disgustoso e, una volta assunta, è di sicuro effetto emetico ed “altro”. Da un punto di vista psicologico si mostra un valido alleato nelle sedute psicoterapeutiche perché fa affiorare nei pazienti i nodi traumatici della loro vita contribuendo alla loro soluzione. Un esempio degli effetti “psichedelici” di essa ce li offre il pittore peruviano (“sciamano” e/o curandero) Pietro Amaringo con le sue brillanti tavole. É idea di chi scrive che queste dipinti presentino una penetrazione nell’immaginale locale come certe miniature iraniche di paesaggi. Oggi che l’iconologia si è aperta all’interpretazione immaginale (vedi il libro di Marco Toti La preghiera e l’immagine) riteniamo che questa arte possa essere indagata con le stesse modalità, auspicando quindi di rinvenire un “canone ermeneutico universale” che rispecchi la definizione di Philip Scherrard di questo stato intermedio “[…] un nesso, un luogo intermedio tra l’Universo archetipico in quanto pensato dalla divinità e il mondo della manifestazione creata”. In sintesi, il mondo
degli spiriti somiglia assai al mundus imaginalis ha (forse) solo cambiato nome.


Cosa differenzia il disprezzo di Fontana da quanto denunciato dall’etnologo Federico Gonzales in questo brano?:

L’opinione ufficiale della Chiesa rispetto alle tradizioni precolombiane ancora continua ad essere – per molti dei suoi prelati – quella che allora le giudicava ispirate dal demonio, come fossero (e continuassero ad essere) il prodotto idolatrico della più oscura ignoranza o della loro candida ingenuità infantile. Questo fanatismo vicino al disprezzo assoluto per ciò che non si conosce va insieme a tutti gli argomenti addotti che indicano e segnalano l’esercizio del potete e spiegano in parte il perché dell’estinzione quasi totale della sapienza precolombiana” (Federico Gonzales: 1993: 39,40).   

Il costrutto accusatorio dei cosiddetti tradizionalisti si focalizza quindi sulla figura dello sciamano (che è contrapposto al missionario inteso come sacerdote), intermediario ubiquitariamente riconosciuto, nel tempo e nello spazio, quale mediatore tra il mondo visibile e invisibile e si dirà, sia pur sommessamente, anche tra il superiore mondo spirituale reputato essente oltre la manifestazione. Di questa figura sono fatti risaltare i tratti presuntivamente “diabolici”, colti nell’ottica della cultura osservante che non ha quasi mai la possibilità di trasformarsi in cultura osservata, tanto che “gli sciamani neri” sono stati deputati tout - court “ultra diabolici”, pur se la loro opera non ha nulla di “satanico” ma si concentra nel recuperare anime destinate al mondo sotterraneo e ai suoi occupanti, esseri con i quali il cosiddetto sciamano nero è in contesa come gli angeli che disputano le anime ai diavoli nell’iconografia occidentale.

Lo sciamano è infatti spesso – ma non sempre - iniziato da spiriti di “dubbia” provenienza (anzi i “tradizionalisti” non hanno dubbi sull’origine degli spiriti), impiega – non sempre e non dovunque - “sostanze stupefacenti” per raggiungere l’estasi (che comunque in altri contesti raggiunge con l’ausilio principale del tamburo); inoltre la sua vocazione sarebbe riconducibile a una riconosciuta “instabilità mentale” (è noto che lo sciamano è un “malato”  quando è un malato “guarito” che acquisisce potere attraverso la malattia che è una chiamata), tutto ciò sempre normato, secondo i canoni sociali, nosologici e religiosi, propri della griglia conoscitiva dell’osservatore, il che rende così spesso grottesco ed eterodosso il soggetto che è l’oggetto dell’osservazione.

La realtà che forse “scotta” di questa figura, alla fine osteggiata e perseguitata in tutto il mondo dalle “religioni”, sta nel fatto che i contenuti della sua esperienza non si pongono nell’ottica del “credere” o “non credere” ma del “sapere” e “vedere” e ...operare efficacemente. La familiarità che lo sciamano raggiunge con il suo ‘spirito guardiano’ è simile a quella che si ha con un parente stretto o un amico. Qui, sommessamente, riportiamo una osservazione di Michael Harner su tale spinoso problema: “Con il ‘core schamanism’ certi dogmi cosmologici della Chiesa, dello Stato e della scienza, profondamente incisi nel marmo, potrebbero iniziare a infrangersi” (pag. 23)


 

 

Fig.2
 

 

Con buona pace dei suoi detrattori lo sciamano quale padrone della tecnica dell’estasi è una figura religiosa che vanta un’antecedenza storica assoluta che non si limita a un passato paleolitico ma che prosegue le sue attività anche in insospettate civiltà storiche tanto da ritrovarsi la sua figura nascosta e camuffata perfino nel mondo romano. Nelle due immagini che proponiamo, molto distanti nel tempo, assistiamo nella prima a una esperienza sciamanica di estasi colta nel dipinto più enigmatico della storia quello realizzato circa 18.000 anni fa nel pozzo di Lascaux (ascesa all’axis mundi individuata da Horst Kirchner nel 1950, nella grotta dove è impresso un universo di figure animali “costellate”). Qui lo sciamano compie la sua impresa in uno spazio perfettamente cosmicizzato secondo l’asse polare e i due solstiziali (estivo e invernale). Nella seconda immagine cambiando continente ci troviamo nella grotta di Balambanché, frequentata in epoca maya dove l’axis mundi è una colonna formata da una gigantesca stalattite -stalagmite (Leonardo Magini: Le origini sciamaniche della cultura europea pag.217). Si noti l’ambientazione “cavernicola” (grotta cosmica) di entrambi i reperti distanti circa 15.000 anni uno dall’altro.

Fig.3

 

Si è giunti perfino a lamentare il fatto che gli indigeni amazzonici, ostinatamente animisti, in luogo di accendere un cero a sant’Antonio per ottenere la grazia di una guarigione, preferiscano rivolgersi tuttora allo sciamano per ottenere un risultato, tutto questo mentre si dimostra che certi miracoli canonici presenti in una religione “evoluta” come il cristianesimo, “predica agli uccelli”, “predica ai pesci” e guarigioni varie, appartengano a una consolidata morfologia sciamanica di eventi e questo la dice lunga sul modo di pensare dell’osservatore (sul tema: Francesco Benozzo 2011 e Luciana Vagge Saccorotti 2017).Con buona pace dei suoi detrattori lo sciamano quale padrone della tecnica dell’estasi è una figura religiosa che vanta un’antecedenza storica assoluta che non si limita a un passato paleolitico ma che prosegue le sue attività anche in insospettate civiltà storiche tanto da ritrovarsi la sua figura nascosta e camuffata perfino nel mondo romano. Nelle due immagini che proponiamo, molto distanti nel tempo, assistiamo nella prima a una esperienza sciamanica di estasi colta nel dipinto più enigmatico della storia quello realizzato circa 18.000 anni fa nel pozzo di Lascaux (ascesa all’axis mundi individuata da Horst Kirchner nel 1950, nella grotta dove è impresso un universo di figure animali “costellate”). Qui lo sciamano compie la sua impresa in uno spazio perfettamente cosmicizzato secondo l’asse polare e i due solstiziali (estivo e invernale). Nella seconda immagine cambiando continente ci troviamo nella grotta di Balambanché, frequentata in epoca maya dove l’axis mundi è una colonna formata da una gigantesca stalattite -stalagmite (Leonardo Magini: Le origini sciamaniche della cultura europea pag.217). Si noti l’ambientazione “cavernicola” (grotta cosmica) di entrambi i reperti distanti circa 15.000 anni uno dall’altro 

Per questo i “conservatori” teologici preferiscono rivolgersi a quella parte politica che avendo consacrato il Brasile, di cui la foresta amazzonica occupa una preponderante parte territoriale, alla Madonna di Fatima stimano che questo silente “accordo pattizio” possa agevolare una ancor più radicale, sollecita e cosciente devastazione territoriale mai compiuta dall’uomo nella contemporaneità, senza minimamente avvertire la contraddizione tra le definizioni di “Sophia Maria”, scaturite dalle visioni della santa e dottore della Chiesa Ildegarda di Bingen, e la muta “Madonna di Fatima” sudamericana.

Tra l’altro il ritmo della devastazione che si sta incrementando odiernamente è stato contenuto in anni appena precedenti ai contemporanei perché, come ci narra Jeremy Narby, antropologo e scrittore canadese e autore del libro “Il serpente cosmico”, libro che contiene le sue conclusioni in merito all’importanza della foresta amazzonica, gli immensi tesori botanici presenti in loco, sono stati reputati assai appetibili alle case farmaceutiche e questo ha rallentato un processo di distruzione che sembrava inarrestabile. Ma, come si vede, questa diminuita deforestazione è frutto di un mero calcolo utilitaristico e non certo di una concezione sacrale del luogo.  

 

 

Per Ildegarda, Sophia - Maria, quale Anima Mundi, è protettrice della “natura”, eppur, malgrado ciò, sarebbe paradossalmente la stessa Vergine che dovrebbe asseritamente promuovere e “benedire” l’accelerazione della devastazione territoriale non solo annunciata ma già in atto, secondo quanto si può apprendere da questo brano giornalistico che fa della Madre celeste l’implicito sponsor dell’impresa: “La consacrazione alla Vergine Maria del Brasile, lo Stato del mondo che ha più cattolici di qualsiasi altro Paese, è stata un'iniziativa del deputato nazionale Eros Biondini e del Fronte Parlamentare Cattolico del Brasile ed è stata tenuta presso il Palácio do Planalto il 21 maggio scorso. L'iniziativa è nata per chiedere la protezione divina sulla nazione e in riparazione dei peccati che offendono il Cuore Immacolato della Madre di Dio... Lo stiamo facendo per il Brasile, grazie all’amore che abbiamo per la nostra nazione", e poi ancora "È un semplice gesto di fede e amore che è di grande importanza non solo per i cattolici ma per tutto il Brasile"

La totale e irreversibile trasformazione ambientale non sarebbe quindi naturalmente un “peccato” quanto piuttosto un segno di materna predilezione e approvazione della devastazione in atto.

Non possiamo omettere dal ricordare che, per una “curiosa” e misconosciuta sincronicità mariana, anche a un altro “ultimo della terra”, un figlio di schiavi, che risponde al nome di Raimondo Irenu Serra, fu conferito un incarico di difforme consistenza in tempi non sospetti. Questi, proprio durante il suo primo apprendistato con l’ayahuasca presso gli indios peruviani, ebbe l’apparizione di una donna che si presentò a lui come Regina della Foresta o Nostra Signora della Concezione ed egli, in seguito a queste visioni incoraggianti, fondò il culto vegetalista del santo Daime (sulla cui nascita come reazione indigena all’oppressione culturale portata dai nuovi venuti ci sono spesi molti studi). Il fatto rilevante è che gli eventi narrati furono contemporanei a quelli delle apparizioni di Lourdes e Fatima e forse per questo il culto indubbiamente sincretista si presenta con una forte colorazione cristiana (Cfr. “Il Vegetalismo” di Adriana Verlangieri e Walter Gioia in Riza scienze n.110). 

A proposito di ciò è da ricordare che Federico Gonzales ha messo ben in luce nel suo libro le marcate similitudini di alcuni miti autoctoni (e i conseguenti riti delle civiltà precolombiane) con il pattern cristiano (tema della nascita verginale, battesimo, eucarestia, sopportazione del dolore come offerta a Dio, in una molteplicità di esempi su cui ha costruito l’intero secondo capitolo del suo libro, “La simbologia americana”). Sono quindi queste spinte similitudini che hanno consentito e consentono un così elevato grado di sincretismo religioso (sempre indice di una difficoltà culturale dei “dominati” ad elaborare il credo dei “dominanti”, in cui, per esempio l’elemento cristico (la croce) e misericordioso (la Vergine) si sono inseriti senza difficoltà per la varietà di similitudini presenti a quelle latitudini. 

Di passata rileviamo che il rituale visionario fondato sulla “sacra pipa” fu consegnato ai Lakota, indiani del nord America, da un altro essere soprannaturale femminile “Donna bisonte bianco”. Il “Bisonte” è una teofania femminile, centro ponderale della cultura locale ed espressione “vernacolare” dell’anima mundi.      

Bene, a questo punto vorremmo completare il pensiero di Ildegarda sul tema con qualche espressione tratta dagli scritti illustrati della medesima che mostrano lo iato tra la “Maria” di Ildegarda e la presunta protettrice del Brasile.

Ildegarda conduce il suo pensiero che comunque è affinato da una profonda visione e lo indirizza verso quella concezione sofianica del mondo che si apparenta con quella di G. Th. Feschner in esordio di lavoro appuntata. Per conseguenza del suo “vedere” (e non per effetto del suo teologico fervore) il santo dottore della chiesa percepisce l’universo come un cosmo dotato di anima e guidato da una forza saggia e provvidente; una guida, un custode che più volte chiama esplicitamente Sapienza (Sophia) riferendosi alla enigmatica figura vetero testamentaria che si sarebbe manifestata teofanicamente come Maria. Ella descrive visioni e immagini nelle quali sembra chiaramente presentarci Sophia, che viene ritratta in circostanze diverse: da sola, in relazione a Dio, con Cristo, con la  Chiesa, e financo, quale co-creatrice, ( Thomas Schipklinger: 104).

Così scrive questo appassionato interprete del pensiero di Ildegarda, Thomas Schipklinger

 

La Sophia è la grande Radice della Creatura totale, cioè il creato tutto integrale e non semplicemente il tutto ...la Sofia è l’angelo custode del creato, la personalità ideale del mondo (Sophia Maria 221)

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Ciò non sembra poi così lontano da questa espressione mazdea che si riconnette alla spontanea visione descritta da G. Th Fechner all’esordio

Noi celebriamo questa liturgia in onore della terra che è un Angelo

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Se l’anima del mondo interrompesse di unificare tutto attraverso Se stessa, tutte le creature perderebbero il rapporto comunitario col tutto, l’unità del cosmo crollerebbe in pezzi nella molteplicità degli elementi individuali, e l’organismo del mondo si trasformerebbe   in un ammasso meccanico di atomi. (Sophia Maria 209)

L’umanità o la natura non sono la somma della individualità delle cose non un astratto concetto o un aggregato empirico, ma un reale essere vivente, un essere transpersonale, non un principio personificato, ma una persona essenziale o persona principio, non un’idea personificata, ma l’idea di una persona. (Sophia Maria 209)

Pur immaginando di essere pedanti vogliamo aggiungere un’ultima considerazione di Ildegarda che, al termine della sua vita, ricordava come le immagini delle sue miniature fossero visioni provenienti dal mondo dello Spirito “mentre ho gli occhi aperti” fuori da ogni fantasia. Il brano è stato scelto da Hossein Nasr e incorporato nel suo libro sulla natura, Nasr, ricordiamolo, è filosofo e scienziato di calibro internazionale e quindi può parlare con cognizione di causa del mondo spirituale e di quello materiale e delle loro possibili inter- relazioni.

Sono quella forza suprema e fiammante che emette tutte le faville della vita. La morte non ha potere in me, anzi la domino perché, come da un paio d’ali, sono cinta di saggezza. Sono quella essenza viva e ardente della sostanza divina che scorre nella bellezza dei campi. Splendo nell’acqua, ardo nel sole, nella luna e nelle stelle. Mia è quella forza misteriosa del vento invisibile. Sono io che do il respiro a tutti gli esseri viventi. Alito nella vegetazione e nei fiori, e quando le acque scorrono come cose vive, ebbene io sono lì...Vivono tutti perché io sono in loro, faccio parte della loro vita. Sono la Sapienza. Mio è il soffio di quella parola tonante che creò tutte le cose. Tutte le permeo affinché non debbano morire. Sono la Vita “(da S. Hossein Nasr L’uomo e la natura pag.106-107 

Brano di contenuti e bellezza certamente non commentabile.


 

Sofia Amon (Amon: Amato, Prediletto, Confidente o architetto co-Creatore) Cosmiarca Da liber divinorum operum visione 2
Fig.4

 

 

Sofia Amon (Amon: Amato, Prediletto, Confidente o architetto co-Creatore) Cosmiarca Da liber divinorum operum visione 2

Si tratta di un’immagine straordinariamente espressiva di un simbolismo cosmologico e antropologico insondabilmente profondo. Uno degli aspetti essenziali che vi viene affermato è che la natura e l’umanità formano un’unità organica con Sofhia. Sophia e Madre e anima di questa unità, la Madre e l’Anima del Mondo, la ‘Cosmiarca, Lei però è anche l’Eubiarca, soprattutto per l’umanità. (da Thomas Schipklinger pag.106).


Questo per quanto riguarda il rapporto che legherebbe nel cristianesimo la figura materna femminile con il creato. Ora, prescindendo brevemente da ogni altra considerazione, dobbiamo nuovamente ribadire che è proprio dall’arcaicità della sua figura, che vanta una presenza oltre la storia spingendosi le sue radici almeno al paleolitico superiore, e dalla costanza delle modalità della sua elezione a “pontefice” tra questo e l’altro mondo (le “torture” sciamaniche “vocazionali” sono documentate in tutti gli “angoli del mondo – si veda Leonardo Magini cit. pag. 240 fig. 10) che garantisce la efficace bontà del suo comportamento. Per conseguenza, secondo una certa ottica di lettura delle cose, legata a un ipotetico disegno di salvezza, lo sciamano “indemoniato” avrebbe avuto in mano il destino animico-spirituale dell’umanità per quasi tutta la sua storia, guidandola evidentemente con le sue arti magiche verso la perdizione eterna. Un procedere degli eventi un poco drammatico, se non melodrammatico, che urta contro ogni sensibilità provvidenziale e contro la stessa logica del divenire creativo nonché dei compiti onerosi che la figura sciamanica assume nelle culture in cui manifesta la sua opera di sostegno degli equilibri del cosmo.

Proponiamo la sintesi di una testimonianza raccolta dall’esploratrice Luciana Vagge Saccorotti nel mondo subartico contemporaneo che descrive una scena che potrebbe benissimo risalire a 30.000 anni fa e mostra la fatica dell’opera sciamanica: “Devi sapere che i tadebja (nome locale dello sciamano) si ficcavano una lancia nel petto e non morivano. Li ho visti, li ho visti, credimi. Ci dicevano cos’era l’anima, la vita, la morte, accompagnavamo le anime dei nostri defunti da Nga, si isolavano per settimane, squartavano gli animali, per conoscere tutto di loro” e poi la stessa donna testimonia di ciò che ha assistito in caso di malattia della madre. “Abbiamo messo le erbe a fumigare in una bacinella accanto all’entrata. Lui arriva, afferra il tamburo e lo scalda vicino al fuoco. La voce del tamburo sarà più forte e più chiara, mi dicono. Poi comincia a battere, piano, piano, dolcemente, poi più in fretta, poi urla e parla e parla ma io non capisco cosa dice, parla e viaggia nel mondo degli spiriti e canta. Nella mia testa suoni di ciondoli e parole, tante parole, l’isola fatta di nuvole, strade di muschio che salgono in cielo, vipere aquile...”.

Non possiamo omettere dal ricordare come Leonardo Magini, nel suo bel lavoro dal titolo Sciamani a Roma antica, abbia ben messo in evidenza le similitudini che legano i comportamenti di Ceculo e di Numenio Suffustio a quelli propri dello sciamanesimo propri di aree ben lontane nel tempo e nello spazio, confrontando alcuni pattern rituali e la presenza di alcuni animali significativi di comune condivisione simbolica. A questo proposito ci sembra ulteriormente “doveroso” inserire un passaggio tratto dall’articolo di Luca Valentini comparso sul sito Ereticamente dal titolo Archeoastronomia e indoeuropeistica comparata, il cui rilievo principale si fonda sulla circostanza che: “...le nuove ricerche di Marcello De Martino, al quale riconnettiamo la massima importanza in funzione del carattere polare della prima tradizione sciamanica”. Non per nulla infatti nello sciamanesimo boreale l’albero cosmico ha il suo vertice nella stella polare che viene indicata come il “Creatore” e l’astro viene raggiunto nel viaggio estatico degli sciamani nord europei (Michel Harner: 156 -158). Queste particolarità collegano la figura sacrale direttamente alla tradizione primordiale. Ecco l’importante brano:

 “Se lo stesso Dumézil, come scrive De Martino, a seguito di successive rettificazioni ebbe a negare la comunanza etimologica, introducendo, nello schema trifunzionale indoeuropeo, la figura del flamine (quello di Giove, in particolare, il Dialis) ed il brahmano in una medesima categoria sacrale, cioè quella della prima funzione, prefigurando, come ipotizza l’Autore, l’esistenza di un ancestrale e comune “facitore del sacro”, la domanda, mai posta in precedenza, è: quale elemento essenziale potrebbe aver accomunato queste due figure afferenti a due tradizioni della medesima koinè indoeuropea? La risposta del nostro assume caratteristiche simili a quella di un Colli quando descrive le peculiarità ontologiche degli sciamani della prima religiosità artica e successivamente orfica, cioè la potestà che determinate persone avevano di impersonare un collegamento reale e spirituale con l’invisibile ovvero con le divinità, essere, cioè, letteralmente dei “ponte-fici”, ossia dei facitori di ponti verso sfere del sovrumano tramite l’utilizzo dell’elemento divino per eccellenza, il fuoco ovvero la fiamma sacra.”

Una conclusione che ci sembra assai notevole se non totalizzante e che presuppone  che all’origine della spiritualità europera si trovi lo sciamano e la “sua” cosmologia.

La capacità estatica non è quindi affatto influenzata dalle forme economiche delle culture retrostanti ma è piuttosto un “in sé” della coscienza, una sua possibilità intrinseca ed è per questo che culture diverse accolgono nel loro lessico comunicativo i medesimi simboli, questo naturalmente quanto le coniugazioni ambientali lo consentano. Così l’aquila, menzionata nella conversazione, è un volatile diffuso nei continenti, che adempie a compiti similari in svariate culture, non certo sincroniche con quella siberiana contemporanea da cui abbiamo tratto un esempio, ma riveste, sotto molti aspetti, le caratteristiche sacrali simboliche proprie del mondo romano che i diversi autori già menzionati hanno, nei loro testi. opportunamente accostato.

In ordine al tema delle potenzialità estatiche della coscienza non vogliamo cavarcela con una affermazione personale di principio, per questo ci piace riferire la qualificata opinione di uno psicoterapeuta, Elvio Facchinelli, che si era già avvicinato alla comprensione di alcuni passaggi della Divina Commedia, secondo la prospettiva dell’immaginale, e che quindi appare un soggetto piuttosto sensibile al tema conseguentemente qualificato a proporre un paradigma diverso dal consueto in ordine al tema della mente estatica, al di fuori della trita e ritrita locuzione-refrain “ampliamento degli stati di coscienza”:

“Esso (il mondo svelato dall’estasi) può cominciare ad entrarvi, a patto di vincere i processi di isolamento e frammentazione, più di una vera e propria cancellazione, a cui è stato sottoposto fin qui. Si tratta di superare, in definitiva, il nostro generale disconoscimento dell’estatico, cogliendo in esso un movimento originario di molteplici esperienze, probabilmente delle esperienze più creative della mente umana. L’apex mentis, l’apice della mente secondo la definizione medioevale, ne è anche la base, e non può essere ridotto alla situazione mistica, che è soltanto una delle sue forme. Abbiamo dunque davanti a noi un’esigenza antropologica, che sta a noi non perdere né sciupare”

Del resto, questo è il medesimo concetto che con parole diverse esprime Nasr che prospetta proprio la necessità di una riappropriane interiore di stati di coscienza dimenticati:

“Richiede una trasformazione davvero radicale delle nostre coscienze, e ciò non significa scoprire uno stato di coscienza completamente nuovo, ma ritornare allo stato di coscienza che ha sempre avuto l’umanità tradizionale. Significa riscoprire la via tradizionale che guarda al mondo della natura come d una presenza sacra” (Seyyed Hossein Nasr: Antropoecologia, pag.124).

 



Fig.5 a

 

Fig.5 b

 

 

Fig.5 c
   

Fig. 5

Palo di Sighir, con incisi volti (3 immagini)

L’ “idolo di Shigir” (la più antica scultura in legno conservata al mondo) è la prova di una cultura religiosa umana esistente 13 mila anni fa, risalente all’11 mila a. C. secondo recenti datazioni ricalibrate in Siberia. Essa svela il carattere sciamanico che ne presiede la realizzazione ed è un argomento solidissimo per mostrare le origini della cultura europea. Simili pali (di cui solo questo è sopravvissuto per fortunosissime circostanze e costituisce una sorta di “pietra di Rosetta” sciamanica) servono come elementi di contatto con “l’alto”, siano spiriti dei “cieli” a cui lo sciamano (di solito mascherato da uccello, o essere alato) si rivolge, o vere e proprie pertiche in cui lo sciamano si inerpica per raggiungere uno dei sette o nove “cieli”, dai quali ottiene poteri sovrannaturali che gli consentono di operare nella società in cui è integrato ogni qual volta si deve mediare tra questo mondo è l’altro. Il palo di Shigir è dunque la testimonianza miracolosa delle attività spirituali di un uomo che non mai è stato “primitivo” (nel senso corrente che assume il termine) e quindi ossessionato dalle necessità materiali; egli era piuttosto un essere “metafisico”, che – come ha scritto Giuseppe Sermonti – più che vivere “recitava”, con danze, canti e incantamenti, indossando sacri costumi – insomma viveva di liturgie per entrare nell’aldilà. Ciò è perfettamente consonante ai risultati di un altro interprete dello sciamanismo Francesco Benozzo (Il segreto sciamanico dell’Eurasia pag 17, ed. Dell’Orso) che scrive: “Lo sciamano non è un residuo di sistemi di credenza primitive. La sua figura in carne e ossa non rimanda a un passato perduto, non ne è la trasformazione. Lo sciamano è una variante riconoscibile (e in qualche modo riconosciuta in quanto tale dalla comunità in cui opera) di Homo poeta. Lo sciamano primitivo non esiste. Non esistono società primitive a matrice sciamanica” (evidenziazione dell’autore).    


A questo punto si vuole proporre una banale osservazione, che, proprio perché banale, dovrebbe essere refrattaria ad eventuali censure di parte.

Se c’è una figura che ha potuto tenere in piedi le molteplici società che si sono affacciate al mondo nei precedenti millenni questi è appunto lo sciamano. Questa è una posizione acclarata negli studi; la figura di questo operatore sacrale mantiene coesa tutta la società come le centine sostengono un arco.  Solo per mezzo di costui - e della sua capacità di trattare e/o di lottare con gli “dèi”, spiriti e quant’altro - che gli uomini hanno trovato cibo e sono guariti dalle loro malattie, sempre relazionandosi a un universo spirituale retrostante a lui ben visibile e accessibile. Sovente ciò è accaduto a scapito della stessa vita dell’operatore il quale, per ottenere questo risultato, ha offerto la propria esistenza per salvare il suo protetto. Svellere lo sciamano, come fosse un elemento superfluo e superato, da certi orizzonti culturali per sostituirlo col sacerdote-teologo, significa eliminare un architrave e condannare a morte quelle residue società che non avranno più mediatori “immediati” con il sacro e, per conseguenza, non percepiranno la rete che lega, in forma non casuale ma causale, il mondo a loro circostante e questo con altri piani dell’essere resisi inaccessibili all’esperienza empirica quotidiana.

Per questo quando i civilizzatori d’ogni stirpe e maniera si sono affacciati alla porta delle società “primitive”, o semplicemente “diverse”, hanno trovato, quasi dovunque, dei popoli sani che convivevano nei luoghi da tempo immemorabile, certo non staticamente immoti come fossero sotto la protezione di campane di vetro, ma che mantenevano, pur tra inevitabili cambiamenti, in magico equilibrio risorse e sostentamento perché non ossessionate dall’esigenza dell’accumulo. Questo è accaduto per effetto di una concezione dell’ambiente “olistico”, soprattutto tra i popoli cacciatori in cui, addirittura, si sospettava di chi aveva troppo fortuna nella caccia, ritenendolo portatore di un elemento di squilibrio per il gruppo umano d’appartenenza. Non si pensi d’altronde che l’uomo che si muove in una società fondata materialmente sul sistema economico della caccia raccolta sia passivo rispetto all’ambiente circostante. E’ acclarato che le foreste amazzoniche sono state “costruite” dall’uomo non alterandone affatto i principi di “funzionamento” (G. Reichel – Dolmatoff pag. 355)

La “rimozione”, si badi bene, è inoltre avvenuta, non solo in relazione all’ambito mitico rituale, da sostituire con una diversa ed estranea forma religiosa, ma è calata anche verso gli aspetti economici della società. Portiamo un solo esempio delle modalità attraverso le quali si affonda ferocemente il coltello nella polpa viva nelle culture etnologiche entrando nelle dinamiche dello “scambio” di beni tra individui. Si dirà brevemente che un numero elevato di culture del Nuovo Mondo praticava (e “nascostamente” pratica ancora) una curiosa forma di economia: si accumulavano beni in gran quantità per consumarli attraverso lunghissimi festeggiamenti fino a ridurre il gruppo umano, o la famiglia che praticava questa forma (potlatch), all’indigenza.

Il potlatch è un esempio di economia del dono in cui gli ospitanti mostrano la loro ricchezza e la loro importanza attraverso la distribuzione dei loro possessi, spingendo così i partecipanti a contraccambiare quando terranno il loro potlatch. Contrariamente ai sistemi economici mercantilistici, infatti, nel potlatch l'essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell'economia di mercato è quindi completamente invertita. L’assenza della deità “profitto” in questa, per noi bizzarra forma economica, ha prodotto come conseguenza la sua proibizione e la praticissima wikipedia ci informa intorno ai soggetti cui non garbava tale comportamento che pertanto fu prontamente rettificato.

La pratica del potlatch è stata resa illegale in  Canada e negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo principalmente a causa della pressione dei missionari e degli agenti del governo che la consideravano "un'abitudine più che inutile", sostenendo che fosse dispendiosa, improduttiva e contraria all’etica del lavoro e ai valori delle società americane e canadesi. Nonostante il divieto, la pratica del potlatch ha continuato ad esistere illegalmente per anni. Molti nativi americani hanno mandato petizioni al governo perché rimuovesse la legge contro un costume che essi non considerano peggiore del Natale, occasione in cui si fa festa con gli amici e ci si scambiano i doni. La legge però non è mai stata abolita anche se nel XX secolo l'opposizione al potlatch si è notevolmente affievolita”. Davvero singolare il fatto che la ultrapervasiva etica del capitalismo prevalga tuttora, in un’epoca di così sconfinati diritti civili, sulle esigenze di intere comunità e che questa etica produttivistica sia difesa proprio da “missionari”.  Wendell Berry in un suo articolo dal titolo Cristianesimo e sopravvivenza della creazione ha scritto.

Ad esempio, la complicità di dei preti, dei predicatori e dei missionari nella distruzione culturale e nello sfruttamento economico delle popolazioni primitive dell’emisfero occidentale, come anche di culture tradizionali di altre parti del mondo, è famigerata. Nel corso dei cinque secoli dalla scoperta di Colombo, l’evangelista ha proceduto di pari passo con il conquistatore e il mercante, troppo spesso presumendo in modo superficiale che le cause fossero le medesime...”  (Wendell Berry pag 65).

É doveroso precisare che l’autore del brano ritiene che questo comportamento derivi da una errata lettura biblica e non sia affatto ‘l’‘in sé’ del testo sacro e della religione che su di esso si è fondata, il risultato storico però non cambia nonostante l’esegesi del commentatore

Un’altra considerazione va fatta ed è estremamente importante che essa risulti ben chiara a chi legge queste note. É del tutto evidente che nell’epoca che segna la grande espansione coloniale e pedissequamente missionaria, soprattutto nel nuovo mondo, non esisteva una modalità d’approccio “paritaria” alle culture “altre”. Antropologia ed etnologia, con tutti i loro limiti e difetti, suggestioni e condizionamenti, con tutte le loro scuole di diverso approccio agli uomini “diversi da noi”, erano di là da venire.

Le terre meridionali del nuovo Mondo, l’America latina s’intende, furono graziosamente concesse dal pontefice ai re di Spagna e Portogallo in quanto come “Isole Occidentali” ritenute possedimento papale e furono cedute alle corone di Spagna e Portogallo con tutti i loro abitanti, che formavano un complesso numerosissimo di culture ben differenziate tra loro per usi e costumi e retrostanti religioni e che, proprio per questo, non conoscevano la realtà dolorosa della disputa teologica portata alle sue estreme conseguenze ovvero quell’esclusivismo dottrinario che si prefigge o la conversione del diverso o la sua eliminazione.

Del resto per molti anni si rimase in dubbio se costoro (gli autoctoni) fossero davvero uomini o minus habens congeniti, avvero solo “animali parlanti” e questo la dice lunga sulle modalità d’approccio dell’epoca e non solo dell’epoca. Non affrontiamo qui il tema dell’acculturazione, ciò che avvenuto, più o meno, lo si sa e il grande antropologo Mighel Leon Portilla nel suo libro Il rovescio della conquista ce lo ha dolorosamente narrato proprio utilizzando il “materiale” ovvero la “memoria” ancora in possesso dei colonizzati. Un atteggiamento suprematista che si è mantenuto nei secoli in Occidente partorendo l’evoluzionismo darwinista che ha confermato l’inferiorità di certi popoli, se non addirittura la loro stessa prossimità all’animalità, animale inteso come essere brutale e puramente istintivo e non certo portatore di una qualche forma di saggezza da interpretare, glifo di un’altra e retrostante realtà. Per questo, in un’epoca in cui si coprivano pudicamente le gambe dei tavolini, perché, come ricorda Franco Cardini, erano pur sempre “gambe” con il loro elevato grado di peccaminosità, si poteva - fino al 1927 con separata licenza di caccia - sparare ai Boscimani “per diletto” e, sempre per medesimo diletto, impagliarli.

Bene, quando le discipline antropologiche si sono accostati a questi universi semibestiali con una mutata “attenzione all’ascolto” molte cose sono cambiate, anche se l’approccio “con l’altro”, ricordiamolo perché è essenziale, è differente tra scuola e scuola e, addirittura, da persona a persona che, inevitabilmente, fa da filtro o da prisma cangiante tra narratore e ascoltatore.

Prendiamo un caso d’approccio ben conosciuto: Marcel Griaule e la sua equipe. Quando questi è partito per la sua missione esplorativa era convinto di andare a visitare un lembo d’Africa dove viveva un popolo fra i più ostili e primitivi. Dopo l’incontro con Ogotomelli (sacerdote dei Dogon) cambiò tutto, tuttavia cambiò molto lentamente perché ci vollero ben diciannove anni di frequentazione affinché si potesse realizzare la giusta “chimica” tra l’osservante e l’osservato. Questo accadde anche per la mediazione, mai sufficientemente valorizzata, dell’interprete Kochem e l’approvazione alla partecipazione dei misteri dogon a Griaule di “Superiori Sconosciuti” locali, mute presenze che erano dietro all’Omero cieco narrante. Furono questi che permisero di passare dalla parole de face alla parole claire, ovvero, per usare termini abusatissimi ma sempre suggestivi, dall’essoterismo all’esoterismo.   

Se questa “chimica” non si fosse provvidenzialmente o fortunosamente realizzata delle stupefacenti costruzioni mitologiche dei Dogon sapremmo oggi molto meno o forse nulla: provvidenza o caso?

Allo stesso modo, evento che ancor più c’interessa, il discorso vale per Gerardo Reichel Dolmatoff, l’antropologo che ha cambiato il corso degli studi amazzonici e i cui risultati sono raccolti nel libro “Il cosmo amazzonico”. Anche qui tutto si deve a un incontro ma, diversamente da Griaule, l’incontro quotidiano non avvenne all’ombra di un baobab nella calura africana, ma in una biblioteca d’istituto a Bogotà. Qui, per diversi anni, le pareti di una saletta furono testimoni dei dialoghi sempre più fitti e incalzanti tra l’antropologo curioso e il suo informatore Antonio Guzman, uno straordinario personaggio, perfettamente inserito nel contesto urbano (Guzman era un ingegnere con vocazione all’antropologia) ma con radici ancora solidissime nella sua tribù di provenienza, i Desana, dove era conosciuto con il suo nome Miro Puù e dove periodicamente questi si recava, riprendendo in pieno i modi di vivere indigeni.

Ebbene anche Miru Puù, come Ogotemmeli, svelò solamente poco a poco le strutture profonde del pensiero indigeno al suo interlocutore, evidenziando la relazione pressoché neurale, che i Desana hanno con gli animali e con il mondo botanico, legame incomprensibile per noi, ma che si riscontra diffusamente nei popoli “etnologici”. Un legame che fece esclamare a un nativo del Nord America, dopo una seduta cerimoniale con la sacra pipa, strumento rituale con cui si comunica con tutto il creato rompendo gli argini della coscienza orizzontale (in pectore siamo tutti “mistici”, secondo la lezione di Elemire Zolla o, comunque, estatici), la celebre espressione “siamo tutti fratelli” che è ben più di una affermazione emotiva dal carattere buonista ma piuttosto costituisce l’espressione di un sentire “olistico” autentico, attraverso il quale si possono comprendere i “pensieri” e i “messaggi” degli “spiriti animali”, soprattutto quelli che si presentano nella fase onirica, esprimendosi queste creature quali suggeritori metafisici come, altresì, è “avvertito” lo scorrere della clorofilla nelle piante come un fluido omnipervadente l’universo.

Naturalmente l’entasi eliadiana (samadhi) è oltre tutto ciò perchè implica il riassorbimento della manifestazione non la percezione sinestetica della sua connessione reticolare ma l’entasi non è mai entrata nella competenza dello sciamano.

Lo stesso Miro Puù affermò al termine dell’inchiesta che, dei quattro gradi di conoscenza della Realtà dei Desana, egli, nel momento dell’approccio con Reichel, si trovava al terzo grado e, solo dopo questa lunga inchiesta, per il carattere introspettivo che assunse durante gli anni d’intensa frequentazione, praticamente quotidiana, stimava d’essere giunto al quarto, quello cioè detenuto dalla ultra minoranza sapiente: ovvero gli sciamani e i sacerdoti dei culti locali.

Vale la pena di leggere i contenuti di questo “sapere” perché sono davvero “istruttivi”: “Soltanto loro conoscono la grande legge del circuito energetico della biosfera e il meccanismo dell’eco (keorì) per mezzo del quale tutta la creazione trasmette continuamente il messaggio al suo Creatore. Per queste persone sono chiari il susseguirsi degli stati intrauterini, l’accelerazione del tempo e l’allucinazione che permette di ritornale alla fonte del tutto, per ricollocarsi al presente con la convinzione della fede” (Gerardo Reichel-Dolatoff pag. 291, con qualche riserva per l’impiego del termine “allucinazione” almeno com’è inteso odiernamente, visto che letteralmente il vocabolo esprime l’idea di “viaggiare nella propria mente”. Il contesto degli eventi parrebbe suggerire più appropriato l’impiego della parola “visione”. Dobbiamo però considerare che l’edizione originale del libro, pubblicata a Bogotà e dal titolo Desana Simbolismo de los Indios Tukano del Vaupés, risale al 1968 e quindi il termine “enteogeno”, da alcuni comunque tuttora inviso per essere etnocentricamente fuorviante, non era disinvoltamente entrato nel lessico antropologico). 

Alla fine di queste osservazioni non scorgiamo poi così profonde differenze tra la concezione della Sofia, come anima del mondo, così come immaginata da santa Ildegarda di Bingen che, come detto, proprio grazie alla visione percepisce l’universo come un cosmo dotato di anima e guidato da una forza straordinariamente saggia e che più volte denomina esplicitamente questa guida Sapienza (Sophia).

Ora, questi citati, sono solo due esempi che vorrebbero semplicemente rimarcare qualcosa che il lettore avrà già perfettamente compreso per proprio conto.

Quando “noi” andiamo a trovare un popolo autoctono, come qualcuno di quelli amazzonici, la cui vita magari è stata già deformata, spesso irrimediabilmente, dalla “civilizzazione” e vale a dire, brevemente, da una cultura che si pone come portatrice di valori legati all’individualismo economicista e modificata religiosamente dall’introduzione del concetto di salvezza di un’anima e del corpo che la ospita, si può affermare di sapere davvero qualcosa di questi uomini “diversi da noi” che non sia una mera proiezione personale o collettiva del nostro catalogo di valori reputati assoluti?

Siamo “noi” gli antropologi, gli “etnologi”, i “missionari”, quelli che si sono assunti il compito di trarre dal meno - il famoso fardello kiplingiano dell’uomo bianco – per portare gli altri al “più”; siamo noi che ci impegniamo a sollevare dalla loro condizione minoritaria i “senza scrittura”, “i senza cultura”, “i senza religione”, senza che costoro l’abbiano minimamente chiesto e/o suggerito e il “più” che offriamo, oggi, è la catastrofe del nostro mondo esportata dovunque.

Il paradigma opposto non si pone, non rientra minimamente nelle mentalità dei popoli nativi l’idea di giudicare e di convertire qualcuno a “qualcosa”; un qualcosa che per loro è l’indigenismo (vivere secondo le regole dei “padri”), per noi è il produttivismo (la società liquida senza riferimenti superiori di alcun genere in cui la vita degli individui si relazione al profitto), l’individualismo (ovvero il contrario dell’olismo), la “religione”, che è parola sconosciuta ai più in molte latitudini, benché essi ci appaiano, sia pur a modo loro, molto “religiosi”.

Pur tuttavia vediamo a tutt’oggi delle categorie “giudicanti” lanciarsi lancia in resta con l’armamentario proprio dell’evoluzionismo teologico contro ciò che resta della sensibilità arcaica e quindi tacciare sprezzantemente di irragionevole primitivismo i popoli nativi, giungendo al punto di considerare quest’umanità pressoché indegna del nome di uomini, perché tuttora attardati nelle loro inutili pratiche superstiziose fondate sul contatto con gli “spiriti”, dimenticando che lo sciamanesimo, come “uscita da sé”, non solo ha riguardato le umanità paleolitiche e neolitiche, ma ha spinto profondamente, come già detto, le sue propaggini in tempi storici, fin nelle religioni “superiori”, e quindi nella grecità, nel mondo etrusco e nella stessa Roma e, d’altronde, “molti miracoli a struttura sciamanica” sono avvenuti in tempi molto vicini ai nostri, come si è accennato in precedenza.


 

Fig.6

 

Sant’Antonio e la predica ai pesci a Rimini ha spiccate caratteristiche con l’interlocuzione sciamanica del mondo animale che però in ambito etnologico non solo ascolta ma, altresì, “suggerisce”, “consiglia”, “avverte” l’interlocutore che è con lui in una situazione di pari dignità ontologica. Gli animali, infatti, in molte culture sono classificati come “popoli” (es. il popolo del castoro) e non come specie il lessico dimostra quindi che a loro viene conferita pari dignità


 

Monoteismi e sciamanesimo: una relazione impossibile?

 “... Non ho trovato il "nobile selvaggio" né il cosiddetto "primitivo". Non ho trovato i cosiddetti indiani degenerati o brutali né ancor meno gli esseri inferiori come furono generalmente descritti da governanti, missionari, storici, politici e scrittori. Quello che trovai fu un mondo con una filosofia così coerente, con una morale così alta, con organizzazioni sociali e politiche di grande complessità e con una sana gestione ambientale basata su conoscenza fondata. In effetti, ho visto che le culture indigene offrivano opzioni insospettate che offrivano strategie di sviluppo culturale che semplicemente non dovremmo ignorare perché contengono soluzioni valide e sono un riconducibile a una varietà di problemi umani. Tutto ciò ha sempre più fatto crescere la mia ammirazione per la dignità, l'intelligenza e la saggezza di questi aborigeni, che non da ultimo hanno sviluppato meravigliose dinamiche e forme di resistenza grazie alle quali la cosiddetta "civiltà" non è stata in grado di sterminarli” . (Gerardo Reichel Dolmatoff) 

La deformità di vedute che si è evidenziata sembra appartenere all’interno del gruppo delle religioni cosiddette “evolute” a un orizzonte religioso ben individuato in quanto il tema dello sciamano risulta assai pruriginoso per il sacerdozio cristiano e cattolico in particolare. Curiosamente Seyyed Hosseyn Nasr, nel suo splendido libro, L’uomo e la Natura, datato ma sempre più attuale, osserva che: “’...i popoli sciamanici’, ossia le culture native” sono stati per millenni i guardiani dell’ambiente con un orecchio finemente sintonizzato con il messaggio della terra. Essi possiedono visioni concernenti l’ordine della natura che rivestono un significato profondo in riferimento al problema della conservazione dell’ambiente” (cit. in Monastra 76).

Si è detto “curiosamente” perché Nasr è un autorevole esponente della spiritualità sufico shi’ita e quindi è un “monoteista” ma, evidentemente, ciò non osta al fatto che egli assuma una posizione in difesa delle concezioni native e di quelle ad esse prossima, in luogo di quelle dell’occidente cristiano cui spiritualmente dovrebbe certamente essere più prossimo. Questo concetto lo si vuole far dire ancora a Nasr: “La ragione fondamentale è che né nell’Islam, né in India e neppure in Estremo Oriente la sostanza ed essenza della natura fu tanto svuotata del carattere sacramentale e spirituale, né la dimensione intellettuale di queste tradizioni fu tanto indebolita da consentire una scienza della natura esclusivamente secolare e a una filosofia secolare di svilupparsi fuori dell’alveo dell’ortodossia intellettuale tradizionale” (cit. in Monastra 76).

Vogliamo aggiungere a queste parole una considerazione proposta da Marcel Griaule che, nel primo numero di Conoscenza religiosa risalente al 1969, (la celebre e rimpianta rivista di cui è stato direttore Elemire Zolla) ha pubblicato un articolo il cui titolo, non obbediente al politicamente corretto (allora non c’era) è il seguente: ”Conoscenza dell’uomo negro”, una conoscenza in cui l’autore prospetta un accostamento tra l’uomo africano e le tradizioni mistico- esoteriche occidentali (su cui ampiamente torneranno da un punto di vista mito-astronomico - il Timeo platonico - Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend) presentando l’autore la sua maturata convinzione con queste parole: 

lo spirito dei negri costruisce una specie di rete di equivalenze fra tutte le cose per mezzo di un apparato di simboli che, mediante giochi armoniosi e ad insensibili slittamenti, ci conduce dall’arpa al telaio, dall’abbigliamento al verbo creatore, dal demiurgo all’ultimo detrito”.

Brano da accostare al seguente proveniente da tutt’altro ambito

Se guardiamo al mondo… con gli occhi dello spirito scopriremo che il più semplice oggetto materiale ...è un simbolo, un glifo, di una realtà superiore  e di una relazione più profonda delle forze universali e individuali”  (Anagarika Govinda).                            

E’ quindi dalla carenza di una prospettiva metafisica della natura (che, insistiamo, Ildegarda aveva) che è conseguita la concezione puramente meccanicistica e utilitaristica della stessa che odiernamente si ha e tutto ciò, secondo il pensiero di Nasr, esprime la profonda malattia dell’anima del mondo occidentale. Non a caso un suo significativo saggio da cui abbiamo tratto queste ulteriori considerazioni s’intitola: ”Le dimensioni spirituali e religiose della crisi ambientale” delineando quindi il parallelismo esistente tra lo svuotamento spirituale dell’homo (in)sapiens contemporaneo e lo “svuotamento” della natura. Non sarà mai il laicismo imperante a “salvare la natura”, per mero calcolo utilitaristico, e con essa l’anima umana dalla sua perdizione, in quanto è proprio essa, ovvero l’anima impura, l’autrice dell’olocausto naturale. Questa riabilitazione della creazione/manifestazione passa esattamente, secondo una comprensione spirituale e/o religiosa della stessa, in quella modalità che è propria degli estatici, come lo fu Alce Nero che testimonia nel brano successivo, con molta semplicità e “naturalezza”, la compresenza di più piani di realtà che si schiudono nella visione:

Cavallo Pazzo sognò di uscire dal mondo ed entrare in quel mondo dove vi sono gli spiriti di tutte le cose. Quello è il vero mondo che sta dietro questo mondo apparente ed ogni cosa che vediamo qui non è che un ‘ombra di quell’altro mondo”     

Allo stesso modo annota l’antropologo colombiano Luna Eduardo Luis, uno dei maggiori esperti del tema, l’esperienza sinestetica dello yajè, altro nome dell’ayahuasca, è considerata dagli assuntori locali come la penetrazione in una “vera realtà che sostiene questa realtà” e quindi tutt’altro che una allucinazione, nel senso corrente del termine. Questo atteggiamento “aperturista” è piuttosto diffuso presso gli “studiosi” d’origine sudamericana e Federico Gonzales, importante studioso del simbolismo, ne definisce efficacemente il carattere in questo lungo brano:

Riguardo alle ‘droghe’ utilizzate dagli iniziati indigeni, che offendono il decoro della classe media,  spiegheremo l’intenzione e il significato con cui sono ingerite, e come si realizzano queste pratiche, cioè quale sia la loro funzione come agenti mediatori della conoscenza, in quanto rendono possibile l’accesso alla realtà metafisica e attraverso questa, parimenti, alla comprensione di quella fisica, che si intende come un prolungamento materiale di quella. Questi riti e sostanze conducono, inoltre, alla catarsi, attraverso una forma di “limpiezza” o purificazione – una morte e una successiva resurrezione - […] che promuove una rottura di livello […] che equivale all’esperienza di un’altra lettura della realtà, o di una realtà diversa, che appare ora come più certa e vera...” (F. Gonzales 84, 85)        

In aggiunta, si vuole qui rammentare che la contemplazione della natura, richiede per realizzarsi, oltre alla limpiezza, naturalmente raggiungibile anche in qualsiasi altro modo, la capacità di operare un profondo atto di esegesi spirituale, atteggiamento tutt’altro che somigliante a un mero abbandono emotivo e quindi di natura passeggera. Così scrive lo studioso di fede ortodossa Philip Sherrard, autore del libro denuncia L’uomo e la natura storia di uno stupro nel suo articolo Cristianesimo e dissacrazione del cosmo a proposito della lettura del Liber Mundi, una lettura che implica una specifica capacità esegetica (H. Corbin avrebbe definito ta’wil tale capacità in quanto riconduce anagogicamente la “parola” alla sua fonte divina, qui si riconduce il simbolo al suo archetipo):

Richiede di saperlo leggere nel modo simile a come i grandi esegeti ci dicono di leggere la Bibbia o qualsiasi altro Libro Sacro, non secondo il senso letterale ed esteriore, ma secondo il suo significato interiore e spirituale. Ciò vuol dire che dobbiamo imparare a guardare il mondo delle forme naturali come ad espressioni apparenti ed esteriori di un mondo nascosto interiore, un mondo spirituale: tutti i fenomeni del mondo della natura rappresentano, ovvero sono, simboli delle cose celesti o divine” (Antropoecologia pag. 22)   

Questa conoscenza intima implica una possibilità di “colloquio” con il mondo botanico che manifesta le sue potenti energie in alcune specie. Ci sarebbe quindi da riflettere sul fatto, testimonialmente documentato, di come una ingestione di yaje da parte di un occidentale, condotta in loco con tutto il rituale d’accompagnamento precedente e successivo all’assunzione imprescindibile per l’esatto compimento del rito, produca in questo esperienze fisiche quasi traumatiche per la violenza con cui si presentano (inarrestabile vomito e dissenteria) e correlative visioni variamente terrificanti. Queste espulsioni fisiche di parti “sporche”, sono reputate essere in parallelo con la riemersione al conscio delle “parti sporche” del proprio inconscio individuale e, si badi bene, anche storico (il rimorso d’occidente?). Si tratta di una violenta purificazione, una liberazione necessaria di ciò che è immondo in noi stessi. Nella circostanza il testimone narra come vengono rivissuti particolari eventi legati alla Conquista e alla conseguente predazione, congiuntamente ai traumi individuali, che si spingerebbero fino al ricordo vivissimo del momento, spesso doloroso e contrastato, dell’espulsione dall’utero. Queste drammatizzazioni sono prodromiche ad altre successive visioni di ben diverso tenore e bellezza che scaturiscono nella coscienza una volta che si sia raggiunto il nitore della superficie specchiante e che svelano profonde similitudini strutturali con alcune rappresentazioni dell’arte rupestre soprattutto sudafricana (Graham Hancock: Sciamani da pag 360).  

Tale è il potere arboreo: gli ent tolkieniani sono a un passo da questa concezione.

 

Ambiente e sacertà

“il naturale s’è fatto uno con lo spirituale e l’eterno, senza perdere in questa sua fusione nella della sua ricchezza, del suo calore della sua immediatezza [...] Nel loro mondo il divino non domina l’avvenimento naturale quale potenza sovrana: si rivela nelle forme del naturale medesimo, quale sua essenza e suo essere” (W. Otto: Gli dei della Grecia)

La rivoluzione neolitica fu davvero una rivoluzione perché portò a un mutamento totale delle relazioni tra l’uomo e l’ambiente che lo circondava, In luogo della raccolta occasionale di frutti spontanei subentrò la coltivazione, al posto della caccia con le sue complesse regole, l’allevamento. Il mondo è ora (quasi) sotto controllo umano. Naturalmente esistono ed esistettero forme miste di utilizzo economico come per esempio caccia, pesca praticate congiuntamente con l’orticoltura com’è tipico della foresta amazzonica che è l’oggetto focale di queste considerazioni.


 

Fig.7

 

Il “mondo” come si presenta a Caspar David Friedrich, un uomo osserva, sembra ammirare ciò che vede, ma che più non comprende. Scrive Giovanni Monastra: “Non esisteva allora in Occidente, come a lungo non è esistita da altre parti della Terra, la cesura Io-mondo, cioè  una separazione rigida e netta tra ciò che siamo e ciò che ci attornia”.


Si è visto nell’incipit come il Fontana, dopo aver individuato il “male” degli animisti (la  “natura”, gli “spiriti”, gli “sciamani”), giustifichi implicitamente con le sue apodittiche (in realtà “razziste”) osservazioni il rimedio a tale soverchio male contenendolo in una formula implicita, come a dire: eliminiamo quel santuario senza pareti che è l’ambiente naturale, nel caso di specie abbattiamo la foresta amazzonica e, fatto ciò, i nativi recalcitranti, ormai privi di “setting”, saranno costretti dalla forza delle cose a mutare i loro comportamenti. La spietata disamina del commentatore implica quindi l’antidoto all’empietà animista che questi risolve eliminando, espiantando, estirpando l’ambiente. Fatto ciò verranno meno gli “spiriti” che lo abitano e conseguentemente gli “sciamani” che con questi trattano con tutto il loro superstizioso armamentario. 

Riprendiamo, per memoria e comodità, una parte del brano:

“...Non è in armonia con le forze della natura perché le divinizza. L’animismo produce soggezioni ancestrali, permette la perpetuazione di credenze malefiche, blocca lo sviluppo dei popoli, impedisce di credere nell’uomo. Lo spiritismo è innaturale per l’uomo perché è irrazionale.”

Purtroppo, nulla di nuovo e da questa dichiarazione nascono inevitabili corollari. “Credenze malefiche”, “sub - ominazione”, “irrazionalismo” e a seguito di ciò non c’è da stupirsi che nel corso degli eventi accada quanto un giornalista recensore del libro di Zolla, ha scritto in questo passaggio:

Un uomo (Elemire Zolla) che ha fatto ricerche da pioniere in argomenti che gli studiosi americani hanno trascurato…ci sono bibbie delle origini nella biblioteca dell’Università del Texas rilegate in pelle indiana. Un simbolo concentrato di ciò che Zolla ha da dire». G. Davenport, The Geography of Imagination, San Francisco 1980.

Ecco le bibbie rilegate in pelle indiana mostrano la bontà dell’approccio occidentale intorno al tema dell’incontro, oggi tanto auspicato come toccasana di un’umanità perpetuamente belligerante con se stessa e con l’ambiente che la circonda.

Fontana, evidentemente, per esprimersi in cotal modo non ha letto, e se ha letto è rimasto indifferente, la prefazione e men che mai il corposo libro di Elemire Zolla “I letterati e lo sciamano” risalente all’ormai lontano 1969 e periodicamente riedito.

Un testo fondamentale in questo campo d’indagine per non dimenticare e pensare ad altri giorno della memoria, non solo un testo di etnologia religiosa, che è piuttosto quasi un derivato obbligatorio della sua disamina mostrando l’apparato ideologico che sosteneva le motivazioni degli autori da lui esaminati. Dello scritto qui, tignosamente, e proprio per memoria proponiamo la mentovata prefazione, a ludibrio dell’autore del brano evidenziato e delle sue sconsiderate osservazioni suprematiste:

La storia delle tante immagini dell’indiano che via via appaiono nella letteratura americana mostra una prospettiva abbastanza strana di opere e d'autori, ma altresì insegna i (semplici) mezzi stilistici con i quali si suole agevolare un genocidio. Insegna che criminale, colpevole dell'eccidio, è stata l'idea del progresso, che per sua natura vuole l'eliminazione di ciò che si decreti invecchiato, sorpassato, attardato, nostalgico e reprime l'amore, congeniale all'uomo, della patina delicata e sapiente che il tempo depone sulle cose. Il fedele del Progresso, dopo il suo catecumenato, accede a una partecipazione sacramentale, s'identifica per incorporazione col Progresso medesimo ed il sacramento progressista sta nel trucidare, come fa il dio, coloro che lo ostacolino, se non fosse inimmaginabile o blasfemo ostacolare l'inarrestabile; meglio si dirà dunque: coloro che ostacolerebbero, potendo, la Marcia dei Tempi (altro Nome del dio). Il sanguinoso sacramento si può vivere con una smorfia truce o con uno sguardo compassionevole, a talento, verso gli esseri immolati. L’idea del progresso ha giustificato, promosso (e rimosso dalla coscienza) l'eccidio, che fu ora fisico ora spirituale, a seconda dell'occasione. Ha anche riatteggiato come le conveniva l'immagine dell'indiano, quando non ne ha inibito la visione. Questa storia insegna infine che essa non è tanto una storia quanto una morfologia, se i giorni e le opere vi si connettono piuttosto secondo forme (quasi) permanenti che secondo i rigori della cronologia. La materia è rimutata e svariata dai tempi, ma le sue forme o entelechie persistono, eclissandosi spesso soltanto per riemergere (la forma che l’ideologia del libertinismo filosofico imprime alle cose è oggi la più diffusa, ma essa non plasma forse già certe visioni secentesche del mondo aborigeno? Così è vetusta la tradizione d’un’ipocrita benevolenza illuministica che atteggia in particolari forme gl'indiani; e via enumerando).

L’intelletto d’amore come forma che illumini gl’indiani, viceversa, è una straordinaria scoperta dei tempi più recenti. Quasi a compenso dell’infuriante libertinismo progressista, proprio di recente si costellano tanti e tanti casi di intelligenza e carità, che permettono veri ritratti d’indiani, e, altra novità, questi sono talvolta degli autoritratti: gli oppressi medesimi parlano, sia pure ancora spesso attraverso mediatori; si forma una letteratura indiana.

 La fede nel progresso nella sua declinazione religiosa, se si vuole, è doppiamente infausta in quanto ha necessità per il suo affermarsi di deformare completamente il pensiero altrui, etichettandolo arbitrariamente secondo le proprie categorie concettuali, ovviamente superiori, e distruggendo radicitus le relative società che da quella cultura dipendono e della cui “retalità” si è fatto un sufficiente cenno.

Ecco quindi che si crea una invenzione (come il termine “pagano”) ovvero l’inconsistente bolla di sapone del panteismo, quale concezione indirizzata a “divinizzare” le forze della natura errando e mentendo, forse, anzi senza forse, sapendo di mentire. Annota Arthur Versluis, di cui dovremmo citare tutto il libro limitandoci però solo a qualche cenno tratto dalla sua opera che riproduce concetti già incontrati in altri ambiti a dimostrazione del sentimento pressoché planetario che ha legato i popoli alla “natura” prima che irrompesse il Progresso.

Si tratta di vere perle:

Il mondo fisico e quello spirituale sono visti come due dimensioni parallele dell’esistenza che si riflettono l’uno nell’altra come in uno specchio: il mondo fisico e materiale è solo un’ombra di quello reale, della dimensione spirituale oltre lo specchio” e ancora: la natura dunque è nelle tradizoni indigene americane il palcoscenico in cui s’incontrano il regno degli spiriti e il mondo umano. Il mondo fisico è il riflesso a livello di materia dei suoi archetipi

e ancora:

Nelle tradizioni indigene americane come in altre religioni del mondo troviamo anche una spiritualità visionaria […] la natura è ierofanica e riflette e rappresenta il regno dello spirito [...] la venerazione che gli Indiani d’America riservano alla natura non è assolutamente questione d’idolatria pagana, come certi cristiani un tempo sostenevano (ma anche adesso! n.d.r.), non si tratta nemmeno di venerazione di una natura divinizzata, come cercavano di dimostrare gli antropologi (e non solo loro n.d.r.). Piuttosto, la natura è per i popoli nativi metafisicamente trasparente e in essa questi popoli riconoscono la manifestazione della realtà spirituale”.

 Pertanto, utilizzando la puntuale espressione di Monastra, lo spirituale, per la mediazione dell’immaginale è la radice ontologica della realtà empirica che costituisce l’espressione vivente e pulsante di una “trascendenza immanente”.

Il problema è quindi rovesciabile; il meno diventa più e quindi casomai è nelle religioni storiche che non c’è o si è perduta quella adeguata e indispensabile metafisica della natura, sola possibile prospettiva della restituzione del mondo e quindi della natura alla purezza delle origini (Monastra 74, 75).

La speranza che ciò accada è assai fievole perché la corazza dell’uomo contemporaneo è praticamente imperforabile e il suo intento distruttivo inestirpabile, tuttavia confidiamo nell’opera silente e nascosta dei “Guardiani del mondo”, secondo le indicazioni di ibn Arabi e di quanto espresso in alcuni testi “sacri” a proposito di un possibile “ritorno al futuro”

Ora io vedo

la Terra ancora

sorgere tutta verde

dalle acque nuovamente

Poi campi non seminati

dare frutti maturi,

tutti i mali alleviarsi

(Profezia della Sibilla)

...tali che faranno un mondo nuovo, sottratto alla vecchiaia e alla morte alla decomposizione e alla corruzione, eternamente vivo, eternamente crescente, potente secondo la sua volontà, allorquando i morti si risolleveranno, l’immortalità verrà ai viventi e il mondo si rinnoverà a meraviglia.  (Yasht XIX, 11 e sgg) 

 

  

Bibliografia

AA.VV. - Le origini sciamaniche della cultura europea Quaderni di studi indo mediterranei Edizioni dell’Orso

AA.VV. - Il Brasile e la cultura della trance Riza scienze n.110

AA.VV. - Antropoecologia Terre sommerse

Gerardo Reichel Domatoff - Il cosmo amazzonico, Adelphi

Michel Harner - Caverne et cosmos, Mama edition

Graham Hancock - Sciamani, Corbaccio   

Seyyed Hossein Nasr - L’uomo e la natura, Rusconi

James Hillman - Presenze animali, Adelphi

Federico Gonzales - I simboli precolombiani Mitologia cosmogonia teogonia ed. mediterranee

Giovanni Monastra - La concezione della natura nelle grandi tradizioni in Octagon n. 3

Mircea Eliade - Lo sciamanismo e le tecniche arcaiche dell’estasi, Mediterranee

Mircea Eliade - Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1, Sansoni

Elvio Facchinetti - la mente estatica, Adelphi Milano, 

Jeromy Narby - Il serpente cosmico Venexia, Roma

Mighel Leon Portilla - Il rovescio della conquista, Adelphi   

Eveline Lot falk - I riti di caccia dei popoli siberiani, Adelphi

Thomas Scipklinger - Sophia Maria, Estrella de Oriente 

Philip Scherard - L’uomo e la natura, storia di uno stupro, Irfan 2012

Luciana Vagge Saccorotti -  Leggende sugli sciamani siberiani, Tarka 2017

Arthur Versluis - Terra sacra religione e natura degli indiani d’America Mediterranee

Elemire Zolla - I letterati e lo sciamano, Rusconi

 

 

 

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