IV. Ardipiteco: un «patriarca» per gli ominidi?
Natura non facit saltus (Leibniz, Nuovi Saggi, IV, 16)
Che la vita progredisca gradualmente, o per salti,
verso la complessità, è pura immaginazione (G.Sermonti)
Tra i nuovi fossili datati tra i 7 e i 5 milioni d'anni fa (Miocene superiore-finale), per quanto rari, forse tre nuove "forme" stanno decisamente sconvolgendo tutto ciò che sembrava potersi ritenere da tempo in parte acquisito, sulle "quasi" canoniche suddivisioni tra ominoidi ed ominidi, tra «generi» e «specie», tra «alberi» e «cespugli» filogenetici.
Si ignora insomma - e non è poco - per dirla con A. Bacon, quali siano stati gli antenati diretti degli australopiteci e dell'uomo, le stesse forme di transizione tra postura eretta e locomozione bipede; ci è quindi fondamentalmente "ignoto tutto un periodo di notevole estensione fra 11 e 5 milioni d'anni fa" 22). Proprio i criteri per definire le «specie» poi sono rimasti sicuramente tra i problemi più “spinosi"; con le sole specie fossili, come noto, è infatti impossibile ricorrere alle stesse regole che i biologi usano per definire le specie viventi: ossia che gli accoppiamenti diano prole feconda. Ci ricordano a proposito, G. Biondi ed O. Rickards, docenti di antropologia molecolare, che spesso assistiamo ad un “balletto delle specie che compaiono e scompaiono sotto le luci della ribalta”.
Il paleontologo R. Fondi invece annovera almeno sette concetti differenti di «specie», ricordando che in natura le differenze di specie sono intese in senso statistico/collettivo e non assoluto. Forse la vecchia definizione di «specie» dell’insigne biologo E. Mayr, ossia “gruppi di popolazioni naturali effettivamente capaci di riprodursi per incrocio”, potrebbe non esser più di moda in paleoantropologia. Fa notare infatti il genetista G. Sermonti che la “specie è tuttavia solo una entità potenziale”: la “separazione, anche totale, tra le diverse popolazioni di una stessa specie, per sé, non produce nuove specie” anche se interrompe il flusso genico e fa perdere la compatibilità riproduttiva; ossia anche tornando a vivere insieme, quelle popolazioni non producono più discendenza fertile e sono divenute due specie diverse.
Lo stesso paleoantropologo F. Fedele faceva notare pertanto che "definire che cosa convenga intendere come «ominide» è sempre stato difficile e le idee sono più volte cambiate". Da tempo, anche il paleoantropologo R. Macchiarelli ribadisce che "abbiamo qualche problema nel definire un ominide", asserendo la stessa "grande difficoltà nel mettere l'etichetta del genere Homo" su parecchi resti fossili; in biologia infatti un genere dovrebb’essere monofiletico – quando prende origine da un antenato comune - e noi invece siamo polifiletici, ossia abbiamo uno o più gruppi monofiletici distinti.
La stessa definizione di «genere» poi è ancor oggi un tema assai discusso e - ci si consenta – decisamente “ambiguo” in tassonomia. Per la sistematica evolutiva (E. Mayr) infatti, un genere comprende le specie di una “medesima stirpe” (gruppo monofiletico o più linee monofiletiche) che condividono un’area ecologica definita; per la cladistica invece, un «genere» concerne solo le specie monofiletiche intese quali unità evolutive: non mancano ovviamente recenti tentativi di integrazione dei vari modelli ecologico-adattativi e funzionalisti (B. Wood).
Tuttavia, proprio Messeri ricordava spesso che le varie categorie degli ominidi fossili hanno l'apparenza di essere, sul piano sistematico, "totalmente diverse e significative, mentre non rappresentano altro che caselle di una classificazione pre-costituita e gratuita," spesso fondata sulla convinzione quasi unanime che le modificazioni scheletriche siano intervenute con una sequenza ordinata e cronologicamente progressiva.
Ad esempio il molare inferiore di Lukeino (6,5 milioni d'anni), la mandibola frammentaria di Lothagam (5,6 milioni d'anni), l'omero e la mandibola di Chemeron (5,1 milioni d'anni) del Kenia, presentano tuttora una posizione tassonomica, come del resto molti atri reperti, controversa e profondamente incerta.
Di recente si è voluto individuare nell'Ardipithecus ramidus kadabba (= "primigenio" in lingua afar), definito in base a resti etiopici di circa 5 individui (5,8-5,2 milioni d'anni), il primo "capostipite". Quest'ominide, dotato di canini ben affilati, privi della faccetta dovuta allo strofinio contro il premolare inferiore - invece esistente nel successivo Ardipithecus ramidus ramidus (ramid = radice) in Etiopia (4,4 milioni) - manifesta infatti un carattere equivoco, "tipicamente scimmiesco": una sua falange completa d'alluce, per Lovejoy presenta un'angolatura tipica da locomozione umana, per Begun invece, da scimpanzè, per T. White, infine, un tipo di locomozione "da cercare al bar di Guerre Stellari…" Tuttavia, sia A.r.kadabba che A.r.ramidus costituirebbero, per alcuni, scienziati appunto, due specie del nuovo "genere" Ardipithecus (ardi = suolo, in lingua afar), da ritenersi pertanto, con il solito beneficio d'inventario, alle "sorgenti" del nostro lungo ed assai pluriforcato "fiume" fossile 23). Così l'eventuale, presunta e precocissima bipedia di Orrorin e A.r.kadabba, andrebbe quindi a demolire la teoria dell'esclusivo sviluppo nella savana africana di tale acquisizione, aggravata anche dal fatto che già analisi paleoecologiche hanno verificato che entrambi gli ominoidi vissero in ambienti di foresta, boscosi ed umidi, privi di spazi aperti, abbandonati eventualmente non prima di 4,4 milioni d'anni.
Alcuni dei resti di A.r.ramidus, come per esempio i molari - con smalto più sottile e meno sviluppati rispetto ai canini delle forme australopitecine - e la robustezza delle ossa degli arti superiori, evidenziano inoltre forti somiglianze con l'anatomia delle grandi scimmie africane. Sulla base di prove indirette quindi, si è voluto vedere nell'Ardipiteco sicuramente la presenza di una postura eretta.
Per altri studiosi tuttavia, quest'ominide è sicuramente più affine alle Paninae che non alle Homininae, anche se il foramen magnum (apertura alla base del cranio ove il midollo spinale si connette con il cervello), richiama quello di ominidi successivi. Del resto è la natura stessa dello studio dei fossili, come noto, che offre un grado d'indeterminatezza tale da dipendere proprio dalla pesante soggettività nelle analisi morfologiche: la forma di un reperto può essere infatti valutata diversamente da ogni scienziato, senza speranza di una expertise definitiva.