L'occulto palazzo del re - (di F. Polito)

L'occulto palazzo del re

Scrive Julius Evola: «… La natura, oggi, si esaurisce in un insieme di leggi puramente pensate circa varî fenomeni – luce, elettricità, calore, ecc. – che ci sfilano caleidoscopiamente dinanzi, privi di ogni significato spirituale, fissati unicamente da relazioni matematiche. Per contro, nel mondo tradizionale la natura era non “pensata”, ma vissuta come un gran corpo animato e sacro, “espressione visibile dell'invisibile”. … Il mito, allora … scaturiva da un processo necessario, ove le stesse potenze che formano le cose agivano sulla facoltà plastica dell'immaginazione parzialmente discioltasi dai sensi corporei» (sottolineatura mia)[1].

Prosegue Evola queste considerazioni riportando due brani da inni introduttivi a «sacre operazioni»; ne cito uno.

«“Innàlzati oltre ogni altezza, discendi oltre ogni profondità; raccogli in te tutte le sensazioni delle cose create – dell'Acqua, del Fuoco, del Secco, dell'Umido. Pensa di essere simultaneamente dappertutto, in terra e in mare e cielo: che tu non sii mai nato, che sii ancora embrione: giovane e vecchio, morto e oltre la morte. Comprendi tutto insieme – i tempi, i luoghi, le cose: le quantità e le qualità”.

Queste possibilità di percezione e di comunicazione, questa attitudine ai “contatti” … non erano “lirismi” … facevano parte invece di una realtà così reale, quanto quella delle cose fisiche».[2]

 Questo scrive Evola, per introdurre il tema dell'Alchimia come Tradizione Ermetica, così come lo stesso tema è proposto dal Gruppo di Ur (del quale, del resto, lo stesso Evola faceva parte) nei primi saggi del primo volume di Introduzione alla Magia. Il primo di questi, per il suo carattere preliminare, è intitolato Sub specie interioritatis, ed è firmato da Pietro Negri, che quasi sicuramente è lo pseudonimo di Arturo Reghini[3]. Reghini riferisce come venisse “folgorato”, in un momento qualsiasi della vita, senza importanza particolare, e percepisse quello che egli chiama «il senso della realtà immateriale” (sottolineatura mia). Un'esperienza difficilmente comunicabile, e infatti le parole di Reghini donano solo un'idea della realtà da lui colta in quell'attimo.

«… mi accorsi che il mio corpo era in me, che le cose tutte erano interiormente, in me; … tutto faceva capo a me, ossia al centro profondo, abissale ed oscuro del mio essere»[4];

«… fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; … l'io … sentiva il proprio corpo entro di sé, sentiva tutto sub specie interioritatis»[5].

“Lo Spirito soffia dove vuole”, come lo stesso Reghini scrive in questo saggio, e quindi un'esperienza del genere. che non è stata consapevolmente né indotta, né cercata, dev'essere posta tra quei fenomeni imprevedibili, seppure reali e, pertanto, determinanti. Egli poi riferisce casi simili ricordati nella letteratura: quelli capitati ad Arjuna nel Bhagavad-gitâ, a Tat nel Pimandro, e come egli avesse percepito quello che il Filalete chiama l'occulto palazzo del re, e Santa Teresa il castello interiore[6].

Il punto comune che emerge da queste poche citazioni – se ne potrebbero addurre molte e molte altre di più – consiste nell'affermazione che, volendo accedere ad uno stato di coscienza che superi quella quotidiana, legata alla realtà fisica, si deve risalire dal molteplice all'Uno.

La necessità di tale risalita discende direttamente dai principi metafisici, sintetizzati nella formula “L'Uno e il tutto”, ed esposti nella forma più sistematica – anche se non in un'opera dall'esposizione sistematica, trattandosi di appunti presi durante lezioni orali – nelle Enneadi di Plotino. Quest'esposizione dei principi della metafisica in Occidente coincide – e non deve assolutamente sorprendere – con quella indiana, in particolare quella del Vedānta.

È curioso che Vedānta significhi “fine dei Veda”, mentre “metafisica” indichi “dopo la fisica”, generalmente “ ma non obbligatoriamente – inteso come “dopo i trattati sulla fisica”. Entrambi i titoli esprimono comunque un “oltre”, in sé indicibile ed indicabile solo come un travalicamento, che richiama le esperienze sulle quali prima ci siamo soffermati. Un caso, per certi versi analogo, viene dal termine Qabbalah, che in ebraico significa “ricevuta”, di nuovo esprimendo un “oltre” – la realtà divina da cui essa origina – evidentemente inesprimibile.

C'è chi ha parlato di trasmissione, dall'India all'Impero Romano, dal momento che gli scritti indiani relativi sono databili molto approssimativamente al medesimo periodo, ovvero, al più tardi, ai primi secoli d. C., contemporanei quindi all'insegnamento di Plotino a Roma. Plotino visse nel III secolo; nacque nell'attuale Asyūṭ, 150 km circa a nord di Abydo, santuario principale di Osiride, e morì in Campania. Spese undici anni ad Alessandria d'Egitto, alla scuola di un misterioso Ammonio Sacca, che nulla ha lasciato di scritto – e, coerentemente, Plotino nulla scrisse: fu l'allievo Prorfirio a comporre le Enneadi – ed il cui nome potrebbe essere «la deformazione greca del termine Sakka-Muni, indicante gli asceti di origine Sakya, cioè i monaci buddhisti …»[7].

Ma non è solo questo il legame con l'Oriente. Morto Ammonio, Plotino si arruola come amministrativo nelle truppe dell'enorme esercito con cui l'imperatore Gordiano III mosse guerra all'Impero Sassanide. Lo scopo di questa scelta era la speranza di giungere in Oriente e poter conoscerne i sapienti, dei quali aveva sentito evidentemente parlare. L'impresa si concluse presto: le fonti non sono conciordi, ma in Mesopotamia Gordiano morì forse in seguito alla congiura che portò sul trono Filippa l'Arabo. Fortunosamente Plotino riuscì a salvarsi, e si recò a Roma, dove intraprese l'insegnamento filosofico.

Fra Ammonio Sacca / (= ? Sakka-Muni,) e la guerra persiana di Gordiano III, risultano evidenti connessioni di Plotino verso l'Oriente, il che non comporta assolutamente che il pensiero indiano del Vedānta sia stato trapiantato sic et simpliciter nella metafisica di Plotino, che, va ricordato, si è sempre dichiarato mero interprete fedele del pensiero di Platone.

Altri, invece, piuttosto che parlare di diffusione di idee dall'India, preferiscono rilevare come la mente umana sia la stessa, e quindi concepisca sistemi simili.

Questa seconda ipotesi risponde meglio alle considerazioni esposte, tratte dagli scritti di Evola e Reghini: la Tradizione Primordiale ha assunto in India come nel bacino mediterraneo dell'Impero Romano forme comparabili, perché compatibili con i tempi.

Che tali forme discendano realmente dalla Prisca Theologia è chiarito dagli episodi riferiti da Porfirio, allievo a Roma di Plotino. Il suo maestro andò più volte in estasi speculando sull'Assoluto (ovvero: l'Uno).

L'“Uno e il tutto” costituisce un cardine del pensiero tradizionalista, e si fonda sulla “processione” dall'Uno nel molteplice. Ogni singolo filo d'erba, ogni persona, ogni sasso, ogni albero, ogni stella è un'emanazione (termine improprio, ma rende l'idea) dell'Unità assoluta. Tutto discende da lei. È l'inizio del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. / Egli era in principio presso Dio: / tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.».

È chiaro, quindi, che la percezione ordinaria della realtà è legata al molteplice, di cui noi stessi siamo parte; per accedere all'occulto palazzo del re, prima menzionato e che valga per tutti, questa realtà ordinaria dev'essere trascesa. Occorre dal molteplice risalire verso l'Uno.

I “lirismi”, cui allude Evola, sono peculiari del linguaggio poetico, e, infatti, il canto poetico ha una posizione di spicco, poiché richiede una forte ispirazione divina. Omero ed Esiodo furono conseguentemente considerati alla stregua di profeti, e i loro canti vennero studiati per oltre un millennio e mezzo come rivelazioni sul Divino. Omero è attribuito all'VIII secolo a. C. e, per esempio, Porfirio scrisse L'antro delle ninfe,[8] speculazione su un passo dell'Odissea, nel III/IV secolo d. C., ovvero a 12 secoli di distanza!

La poesia è la lingua parlata che si “musicalizza”, che è sacra alle Muse, e al dio-sole spirituale, il fulgido Apollo, è il primo veicolo di rivelazione divina: infatti, il suono della lira del dio era «in grado di interpretare il tessuto del mondo»[9]: ecco l'accesso all'occulto palazzo del re. Non sorprende che la Comedia di Dante Alighieri venisse, in questo ordine di idee, ri- intitolata da Boccaccio la Divina Commedia, in quanto presenta un percorso completo nell'animo umano, culminante con l'accesso all'occulto palazzo del re, ovvero la visione di Dio.

Il percorso di Dante offre lo spunto per una riflessione: il poeta, chiaramente, procede passo dopo passo incrementando la sua consapevolezza attraverso l'insegnamento di Virgilio prima e di Beatrice, poi: insegnamento sollecitato ad ogni dubbio o sorpresa incontrati lungo il cammino.

Non quindi un abbandono che comporti una perdita di consapevolezza, ma una graduale, continua “scalata” verso le vette della conoscenza.

Bisogna precisare, a questo punto, aprendo una parentesi, che la via da seguire per questa salita, infatti, non è tracciata una volta per tutte, come un binario ferroviario: anzi tante strade vi sono, quanti sono i cuori, dicono i sufi. Ma comunque esse possono essere suddivise in due grandi categorie, non prive di sfumature intermedie. Possiamo, seguendo Guénon, considerare una via, che egli chiama specificatamente “mistica”, connotata da una natura passiva, priva di qualsivoglia metodo nel procedere, contrapposta all'impegno attivo, quale quello, per restare al nostro esempio, mostrato da Dante.[10]

In altro contesto, lo stesso impegno viene ritualmente vissuto in Massoneria.

«Al culmine dell'iniziazione muratoria, dopo lunghi percorsi purificatori, nell'attimo esatto in cui avviene la trasmissione dell'influenza spirituale, i Rituali prescrivono questo dialogo:

MESTRO VENERABILE: “Fratello …, cosa chiedete per il Candidato?” PRIMO SORVEGLIANTE: “La Luce, Maestro Venerabile”.»

La Luce, che discrimina irreversibilmente tra profanità e stato d'inizato, non è forse in relazione con la “visione” dei Misteri Eleusini, quando l'iniziando conseguiva la “beatitudine”, attraverso l'incontro con la divinità, apprendendo il destino felice degli iniziati nell'Aldilà?[11]

Conosciamo troppo poco sui Misteri Eleusini per poter procedere oltre nel discorso, ma sappiamo che l'iniziato usciva da quest'esperienza essendo innalzato «ad un'esistenza superiore, una trasformazione di tutto il suo essere»[12]

La “Luce Massonica” (simbolicamente), l'epopteia (la “visione” di Eleusi) non sono altro che accessi all'occulto palazzo del re, secondo l'espressione che qui usiamo come Stichwort.

È fondamentale il concetto di “trasformazione” dell'individuo, trasformazione che si designa con il termine di “teurgia”, in quanto l'individuo trasformato “poteva agire come Dio”. Questa trasformazione avviene ad opera di entità direttamente presenti ed attive durante il percorso, “puri spiriti o divinità non incarnate” (nell'iniziazione massonica rappresentate dalla luce del “Testimone” e dall'apertura del “Libro Sacro”), che consentono al teurgo di diventare «co-reggente con il suo Creatore», ovvero, come spiega Seri, «… l'anima, parte intermedia della tri-unità dell'essere umano, potrà pervenire, solamente tramite la teurgia, alle più elevate vette della divina essenza, alla comprensione dell'insondabile, ineffabile ed eterna esistenza della divinità una e al raggiungimento della definitiva convergenza e reintegrazione»[13]: l'occulto palazzo del re.

«Chiunque si sia accucciato e abbia gattonato sottoterra lungo un cunicolo stretto e completamente buio per più di un kilometro, scivolando fra cumuli di fango e sguazzando attraverso laghi oscuri e fiumi nascosti, per trovarsi alla fine – al termine di un percorso tanto rischioso – davanti al dipinto di un peloso mammuth estinto da tempo o di un poderoso bisonte gobbuto, non sarà più la persona di prima. Infangato ed esausto, questo esploratore avrà contemplato la sconfinata terra incognita della mente umana» (sottolineatura mia).[14]

Perfino un testo scientifico di archeologia (l'autore è decisamente materialista![15]) rileva la trasformazione che ha luogo nell'individuo, che sia determinato e risoluto, a seguito di un arduo percorso! Lewis-Williams infatti sostiene che quel disagiato itinerario nelle viscere della terra fosse un momento di un'iniziazione probabilmente di tipo sciamanico in senso lato, preliminare ad una fase successiva, in cui venivano tracciati i pregevoli dipinti visibili ancora oggi. Un punto centrale verte sull'intervento di spiriti tutelari nello sciamanesimo: non possiamo dire per l'iniziato del paleolitico, se non ipotizzare che i ritratti di animali (visione nella caverna priva di luce) non fossero allusioni appunto a spiriti tutelari.

Altri generi di percorsi sono quelli realizzati attraverso l'intensa preghiera, che diviene così una via diretta di Conoscenza, capace di portare all'Unione con il Divino.

Si tratta, in questi casi, di conoscenza ispirata, rapportabile a quella di cui s'è detto innanzi, a proposito degli antichi poeti greci. Gli aedi, fra i quali emersero Omero ed Esiodo, ricevettero l'insegnamento del loro canto direttamente dalle Muse, e così potevano conseguire un'estasi discesa da Apollo, grazie alla quale risalire al Principio (l'occulto palazzo del re).[16]

Bonaventura da Bagnoregio riferisce puntualmente sulla “visione” che ebbe sul monte della Verna, dove lo stesso fondatore del suo ordine, Francesco d'Assisi, ricevette le stimmate, nel suo trattato Itinerarium mentis in Deum[17]. Le giornate di intensa preghiera nell'eremo culminarono sia per Bonaventura che per Francesco, con l'apparizione di un Serafino “alato in forma di Crocefisso”. È proprio partendo dalle sei ali del Serafino che Bonaventura scrive un trattatello breve quanto denso, dove ad ogni segmento delle ali è riferito un significato simbolico atto a guidare alla visione, ovvero all'accesso all'occulto palazzo del re. Non a caso il trattatello era tenuto in massima considerazione da Dante Alighieri.

L'apparizione del Serafino (i Serafini sono gli angeli più vicini a Dio) conferma il ruolo determinante dei “puri spiriti o divinità non incarnate” cui si era riferito Seri, ruolo che conferma la massima evangelica di Matteo 11, 12:

Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono

Il messaggio è così interpretato da Dante (Par. XX 94-99):

Regnum coelorum vïolenza pate da caldo amore e da viva speranza, che vince la divina volontate:

non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza

Il Cielo scende in aiuto all'uomo di desiderio, conducendolo all'occulto palazzo del re.

 

[1] Julius Evola, La tradizione Ermetica, Mediterranee, Roma 2006: 44-45.

[2] Ibid.: 45.

[3] Pietro Negri, Sub specie interioritatis, in: Gruppo di Ur (a cura di), Introduzione alla magia, vol. I, Mediterranee, Roma 1978: 13-18.

[4] Ibid.: 14.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Nuccio D'Anna, Il neoplatonismo - Significato e dottrine di un movimento spirituale, Il Cerchio, Città di Castello (PG) 2011: 32-33

[8] Porfirio, L'antro delle Ninfe, a cura di Laura Simonini, Adelphi, Milano 1986.

[9] Nuccio D'Anna, Da Orfeo a Pitagora - Dalle estasi arcaiche all'armonia cosmica, Symmetria, Roma 2010: 46.

[10] René Guénon, Considerazioni sulla via iniziatica, Basaia, Roma 1988: 27.

[11] Pietro Mander, Appunti sulla teurgia nel mondo antico. saggio introduttivo, in: Martinez de Pasqually, Manoscritto di Algeri, a cura di Mauro Cascio – Federico Pignatelli, Tipheret, Acireale e Roma 2015: 11-78.

[12] Walter F. Otto, Il senso dei misteri eleusini, in: Walter F. Otto - Walter Wili - Hugo Rahner, I culti misterici, Quaderni di Eranos, Red ed., Como 1995: 9-33.

[13] Giancarlo Seri, Presentazione, in: Luciano Albanese – Pietro Mander (a cura di), La teurgia nel mondo antico, ECIG, Genova 2011: 7-10.

[14] David Lewis-Williams, The Mind in the Cave, Thames & Hudson, London 2002: 11. Trad. Pietro Mander,

Appunti sulla teurgia…. cit.: 35.

[15] Mander, Appunti sulla teurgia…. cit.: 39-40.

[16] Nuccio D'Anna, Sapienza sacra ed esperienze estatiche, Cenacolo Pitagorico Adytum, Lavarone (TN) 2014: 16.

[17] Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente in Dio, a cura di Mauro Letterio, Rusconi, Milano 1996,

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