GLI ORNAMENTI NELLA DANZA CLASSICA INDIANA  ... (di M. L. Sales)

GLI ORNAMENTI NELLA DANZA CLASSICA INDIANA ... (di M. L. Sales)

GLI ORNAMENTI NELLA DANZA CLASSICA INDIANA

BHARATA-NÂTYAM E LE SUE CONNESSIONI SIMBOLICHE

CON LA FISIOLOGIA SOTTILE

di Marialuisa Sales

 

Nell’affrontare la tematica dei significati simbolici delle tradizionali parure di gioielli indossate dalle Devadāsī, le "servitrici degli Dèi" dei Templi dell'India del Sud, avvicineremo in primo luogo le fonti testuali classiche, in particolare i capitoli VI e XXIII del trattato di drammaturgia Nātyaśāstra. In tal senso approfondiremo la complessità dell’arte degli ornamenti teatrali (Āhārya abhinaya) e il canone artistico dei navarasā (nove stati emozionali e coscienziali) del capitolo VI della medesima opera, vero sistema metafisico e filosofico che influenza indubbiamente anche l’arte degli ornamenti con le sue articolate connessioni astrologiche. Nella seconda parte di questo scritto analizzeremo come tali fonti, integrate da alcune nozioni dell’arte alchemica indiana (Rasaśāstra), abbiano ispirato le produzioni di gioielleria per danza tradizionale, mostrandoci un sistema articolato che connette ogni monile alla consolidata nomenclatura dei centri sottili della fisiologia yogica. Tutte le informazioni di questa seconda sezione non hanno un preciso riferimento testuale, ma si rinvengono quale consuetudine condivisa nella prassi delle arti sceniche indiane moderne.

 

PARTE PRIMA: LE FONTI TESTUALI CLASSICHE

1. Āhārya abhinaya nel Nātyaśāstra

Nella trattatistica classica relativa al teatro-danza indiano il termine sanscrito Āhārya abhinaya, introdotto dall’opera Nātyaśāstra[i], comprende in modo generico tutte le indicazioni relative all’utilizzo dei costumi, degli ornamenti e del trucco, nonché include anche tutte le indicazioni per l'allestimento della rappresentazione, la preparazione delle scene, le caratteristiche del teatro, ecc.…Il testo dedica l'intero XXIII capitolo a questo aspetto dell’arte drammaturgica, identificandolo con il termine nepathya (नेपथ्य - “costumi e trucco)[ii], sottolineando che solo l'apparizione di personaggi visivamente adeguati compirà la rappresentazione - ancor prima che venga eseguita una parola o un'azione - poiché costumi, gioielli e trucco hanno la funzione essenziale di introdurre immediatamente il ruolo interpretato, la situazione, il periodo di tempo ed ogni altro aspetto della comunicazione artistica. Per tale rilevanza, questo aspetto delle arti sceniche è dunque enumerato come uno dei quattro grandi mezzi di comunicazione del teatro (caturvidhā abhinaya)[iii]. Tale prassi sembra aver raggiunto una notevole articolazione e complessità regionale, stilistica e tipologica già all’epoca della redazione del testo. Solo a titolo di esempio accenniamo brevemente che questo śāstra descrive undici tipi di orecchini da donna, tre per gli uomini ed enumera precisi dettagli decorativi come, ad esempio, che le giovani donne Siddhā (v. 56) debbano indossare abiti gialli, adornati di perle e smeraldi, che i musicisti celesti siano adornati di rubini, abiti color zafferano e uno strumento chiamato vīṇā, e che i demoni siano interamente vestiti di nero. I danzatori celesti sono riconoscibili da i loro ornamenti di perle e lapislazzuli, mentre le consorti degli esseri celesti e delle scimmie dovrebbero essere vestite di blu. In una storia d’amore la donna indossa pochissimi gioielli di colore bianco. Inoltre, la trattazione specifica i quattro colori base per costumi e trucco: bianco, blu, giallo e rosso. Il blu è considerato il colore della potenza e della forza mentre è doveroso, per attori e ballerini, indossare abiti bianchi quando si partecipa a un rituale in un tempio, a un matrimonio o a un giorno di speciale congiunzione tra stelle e pianeti.

È necessario evidenziare che questo trattato non si occupa in modo esplicito dell'oggetto di nostro interesse - dunque la connessione tra i monili utilizzati e l’anatomia yogica - ma detta solo delle norme generali relative alla predisposizione dei costumi e dei gioielli e, nel capitolo VI, sviluppa la connessione tra il canone degli stati emozionali della fruizione artistica (rasa) con precisi aspetti astrologici, correlazione da cui discendono di conseguenza numerose indicazioni circa lo stato emotivo, il colore e la divinità associata, dunque da considerarsi idonea introduzione alla comprensione della complessità del tema degli ornamenti connessi alla fisiologia sottile.

2. Connotazioni astrologiche della teoria del rasa

Da un punto di vista filosofico il teatro è una rappresentazione della realtà in cui uno o più attori vivono delle emozioni (bhāva) che vengono trasmesse allo spettatore (rasa). Il termine sanscrito rasa (lett. “sapore”, “succo”) designa, in tutte le tradizioni artistiche indiane, il piacere estetico[iv] e denota una condizione emotiva che riguarda sia l’interprete dell’esecuzione sia lo spettatore medesimo. Secondo il Nātyaśāstra, l'arte del dramma accetta che gli esseri umani siano in diversi stati interiori quando giungono come pubblico e dunque, attraverso l'arte eseguita, viene offerto divertimento a coloro che desiderano piacere, conforto a coloro che sono nel dolore, calma a chi è preoccupato, energia a chi è coraggioso, coraggio al codardo, erotismo a chi cerca compagnia, godimento a chi è ricco, conoscenza a chi è incolto ed infine la saggezza a chi è educato.

Il dramma rappresenta le verità sulla vita e sui mondi e, attraverso le emozioni e le circostanze, offre indubbiamente intrattenimento ma - ancora più importante - ethos, pace e felicità. La funzione dell'arte drammatica è quindi di ripristinare il potenziale umano, accompagnando l'uomo gioiosamente verso un livello superiore di coscienza. L’opera Nātyaśāstra, ci introduce dunque alla nozione del profondo aspetto teatrale della vita, che divenne la caratteristica fondamentale della cultura post-vedica e determinò la comparsa del pensare il mondo come il frutto del gioco divino. Proprio come il gusto del cibo - afferma il trattato - è determinato dalla combinazione di verdure, spezie ed altri elementi quali lo zucchero e il sale, così il pubblico assapora gli stati dominanti di un dramma attraverso l'espressione di parole, gesti e temperamenti: queste inclinazioni emotive sono l’amore, la gioia, la tristezza, la rabbia, il coraggio, il terrore, il disgusto e lo stupore.

I principi espressi nel Nātyaśāstra assumeranno nel tempo una rilevanza ontologica tale che Abhinavagupta (950-1020 d.C.), uno dei massimi pensatori del Subcontinente, sentirà la necessità di dedicarvi un commentario monumentale, Abhinavabhāratī. Questa analisi è notevole per la sua ampia discussione di questioni estetiche e metafisiche e, proprio in merito al rasa, sottolinea la centralità ontologica della percezione del piacere estetico definita rasasvāda (il cosiddetto “sorseggio di succo”,). Per Abhinavagupta, come per Plotino, la Bellezza è l’elemento vivificante dell’Universo e dunque il rasa è capace di rimuovere le fitte nubi che ricoprono la nostra vita, squarciando la quotidianità con il suo potere trasformativo. Colui che gioisce del rasa, lo yogin per eccellenza, viene definito rasika, essere capace di risuonare sensibilmente ed esteticamente, poiché l’uomo religioso si muove nel mondo in maniera estetica. In questo “misticismo estetico” il rasasvāda percepito dallo spettatore si amplifica nel brahmāsvāda dell’uomo religioso: tale assaporamento estetico sarà interpretato dunque come capace di annullare la divisione tra soggetto e oggetto della percezione, anche solo in via transitoria:

"Una completa assenza di meravigliarsi è, in effetto, mancanza di vita. Inversamente, la ricettività estetica, l'essere dotato di cuore non è altro se non l'essere immerso in un intenso meravigliarsi, il quale consiste in una scossa della forza. Solo chi ha il cuore tutto alimentato da quest'infinita forza aumentativa, solo chi è consueto alla pratica costante di tali fruizioni, solo egli e non altri è dotato, per eccellenza, di questa capacità di meravigliarsi. E questo meravigliarsi c'è anche nel dolore. L'essenza del dolore non è, in effetto, se non un meravigliarsi particolare, cagionato dall'assenza di ogni speranza."[v]

La trattatistica classica[vi] arriverà a definire Navarasā , ovvero nove tipi di essenza, connessi indissolubilmente all’arte dell’astrologia, poiché questa scienza divina opera principalmente sullo stato mentale o bhāva. Queste associazioni seguono sinteticamente quanto indicato in questa tabella sinottica da noi elaborata, con l’eccezione del nono rasa che fu aggiunto successivamente:

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Un nono rasa, shānta rasa (la “pace” o “tranquillità”) fu aggiunto da autori successivi[vii], provocando non pochi dibattiti filosofici tra il sesto e il decimo secolo prima che l'espressione navarasā (i nove rasa) potesse essere definitivamente accolta. Śānta rasa viene associato alla tranquillità quale stato originario dell’essere e, pur appartenendo all’enneade della codificazione dei rasa, ne è allo stesso tempo distinto come la forma più chiara di beatitudine estetica: Abhinavagupta lo paragona al filo interno di una collana di gioielli poiché, dando la forma, consente di gustare le gemme degli altri otto stati coscienziali, assaporamento auspicabile e analogo – anche se mai uguale - alla beatitudine dell'autorealizzazione sperimentata dagli yogin.

 

PARTE SECONDA: MONILI ED ANATOMIA YOGICA NELLA DANZA CLASSICA INDIANA Bharatanāṭyam

1. L’arte degli ornamenti nella danza Bharatanāṭyam: i monili Vadaserry

In linea generale il XXIII capitolo del Nātyaśāstra elenca quattro tipologie di ornamenti per danzatori e danzatrici:

a) Āvedhya – ornamenti che vengono fissati perforando il corpo, come ad esempio gli orecchini;

b) bandhaniiya - quelli che sono legati intorno agli arti, come cinture e bracciali;

c) praksheepya – ornamenti che vengono indossati, come cavigliere;

d) Āropya – quelli che vengono indossati intorno al corpo, come le collane.

Rispetto a questa complessità straordinaria del Nātyaśāstra, la danza neo classica Bharatanāṭyam [viii] permane abbastanza sobria nella scelta degli ornamenti, del costume e del trucco ma, analogamente alle divinità dei templi[ix], il danzatore rispetta il simbolismo religioso connesso ai gioielli, al belletto e alla scelta dei colori. In particolare, per quanto riguarda la tematica della forma dei monili, è possibile in parte ritrovare i modelli di questi preziosi nella statuaria di molti templi dell’India del Sud, come Madurai, Kanchipuram, Tanjore e i bellissimi ornamenti delle apsarā (le ninfe celesti) del Tempio di Belur in Karnataka[x], poiché i gioielli del tempio prosperarono sotto il patrocinio del dominio Cholas, Pandyaas e Rayars, dal IX secolo fino al XVI secolo.

Si ipotizza che questa forma di gioielleria del tempio, qualificata successivamente come “da danza”, sia ispirata ai monili offerti alle divinità, oppure, di converso, che tali preziosi, realizzati principalmente per i reali, furono successivamente donati ai sacri precinti e alle loro danzatrici. Questi “gioielli del tempio” o “gioielli della danza” sono ancora ampiamente utilizzati dai ballerini degli stili neoclassici di ispirazione templare, sia in India che all'estero.

Da un punto di vista artigianale i gioielli per la danza Bharatanāṭyam sono tradizionalmente in oro o ricoperti d’oro e decorati con pietre preziose o semi-preziose, come rubini e diamanti, contornati da piccole perle bianche. Versioni originali e più antiche dei monili sono infatti visibili nei musei indiani[xi] e sono tendenzialmente analoghe alle riproduzioni oggi adottate nelle comuni performance. Le pietre Kemp, di colore rosso o verde (lucide e non tagliate), sono la parte più caratteristica di questi "gioielli del tempio" indossati dalle danzatrici. Sono inseriti in una base d'oro, abbinandole a pietre preziose e semipreziose quali rubini, smeraldi, diamanti e perle e sono incastonate utilizzando una cera naturale chiamata arraku in una lunetta in argento placcata d’oro. La base stessa può essere d’oro puro, d’argento placcato oro o un’imitazione dell’oro. Il nome tradizionale Kemp significa “colore rosso” in alcune lingue indiane (Telugu e Kannada), ma le pietre Kemp, sebbene generalmente rosse, possono anche essere anche verdi o blu. Secondo alcuni esperti gioiellieri il termine veniva genericamente utilizzato quale sinonimo dei rubini, benché fonti orali lo intendessero come “imitazione” o “pietra sintetica”. La squisita arte di realizzare intricati gioielli per le divinità ebbe origine in India durante il periodo Chola, con il suo epicentro nella città di Vadaserry a Nagercoil, Tamil Nadu. Chiamati anche gioielli Vadassery, gli ornamenti sono stati creati con argento puro e foglia d'oro e impreziositi da pietre preziose come rubini, smeraldi, zaffiri e perle, principalmente per adornare le divinità nei templi e per i reali. Gli asaris (orafi e gioiellieri) affinarono la tecnica, utilizzando rubini cabochon (a forma di cuscino) e altre pietre preziose provenienti dalla Birmania, con cui l'India commerciava a quel tempo. La maggior parte dei disegni sono stati ispirati dalla ricca architettura della regione; pilastri, archi e vari motivi parietali venivano spesso replicati nei gioielli con dettagli squisiti, conducendo questa specifica produzione ad essere ampiamente classificata come "del tempio". Altri motivi dei gioielli Vadassery sono sovente di tipo naturalistico con significati religiosi, quali cigni, pavoni, pappagalli e fiori.

2. Peculiarità e affinità astrologiche e yogiche dei monili. Influenza dei Rasaśāstra (alchimia)

Benché, ad esempio, il teatro-danza del Kerala, così come alcune forme arcaiche del suo omologo Kuchipudi dell’Andhra Pradesh, utilizzino ornamenti e gioielli in fibre naturali (quali cocco, legno di tek, ecc..) ricoperti di foglia d'oro o dipinti, la maggior parte degli stili neo classici di danza del tempio predilige di contro alcuni metalli, coerentemente con le qualità specifiche del genere teatrale. Secondo una consolidata e soventemente ripetuta tradizione orale, il Bharatanāṭyam, stile marziale del Tamil Nadu, tradizionalmente connesso ad Agni e Sûrya, (il fuoco e il sole), ha privilegiato l'oro; di contro la danza Oḍissī, che si reputa espressione dell'elemento dell'acqua e dell’elemento lunare, utilizza l’argento.

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Figura 1: monili tipici dello stile Bharatanāṭyam ( questa come tutte le immagini seguenti sono foto di proprietà dell’Autrice).

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Figura 2

Nell’analizzare le connessioni tra gli ornamenti delle sacerdotesse-danzatrici Devadāsī e la fisiologia sottile dello Yoga, occorre in conclusione sottolineare che tale analogia è possibile in primo luogo attraverso l’attualizzazione non solo dei dettami più generali del Nātyaśāstra, ma anche dei principi dell’arte tradizionale indiana denominata Rasaśāstra[xii], una branca farmaceutica del sistema medico indiano, ritenuta rapportabile all’Alchimia occidentale e che si occupa principalmente di metalli, minerali, prodotti di origine animale, erbe tossiche e del loro uso terapeutico Tale branca della medicina ayurvedica[xiii] descrive in dettaglio i processi mediante i quali i vari metalli, minerali e altre sostanze - compreso il mercurio - vengono purificati e combinati con le erbe nel tentativo di curare le malattie.

Un tributo scientifico doveroso è il riconoscimento della professoressa Katya Legeret come prima studiosa occidentale a divulgare questa tematica in un breve capitolo del suo testo “Manuel Traditionnel du Bharata-Nâtyam”[xiv].  Dalla nostra esperienza sul campo, le conclusioni a cui la Legeret approda al termine dell'opera sono indubbiamente basate su una prassi consolidata e condivisa nella comunità degli insegnanti di danza classica indiana e dai loro allievi; nel corso di questa esposizione riprenderemo dunque alcuni aspetti sviluppati da questa insigne studiosa. Nella nostra esperienza pratica, e dai dialoghi avuti con maestri e performer di differenti scuole nei venticinque anni che ci siamo occupati di quest’arte, abbiamo sempre rilevato sul campo un'attitudine concorde relativa alla tendenziale affinità dei monili per danza con l’anatomia yogica, circostanza che trova il suo fondamento nell'analoga decorazione preziosa delle statue di culto, da cui in parte sarebbe stata ispirata[xv].

 

3. I monili e l’anatomia yogica

In conclusione analizziamo come ogni specifico gioiello utilizzato della danza Bharatanāṭyam sia per tradizione associato ai centri sottili:

1. Il grande bijou della testa, posto sulla sommità del cranio, contornato da ghirlande di fiori bianchi e arancioni, è spesso intarsiato di nove pietre (navaratna) corrispondenti ai pianeti (navagrahā)[xvi]. Questo gioiello è collegato al Sahasrāra Chakra e porta il nome di chudamani o rakoti. Avrebbe per virtù medicinali di proteggere dalle emicranie e dalle influenze nefaste la medulla oblongata, il principale punto di ingresso della forza vitale (prāṇā) nel corpo.

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Figura 3

2. Un secondo gioiello, netrichutti, orna la testa, con un medaglione che ricade sul terzo occhio, Ājñā Chakra, rappresentato anche dal segno rosso, tilak che la danzatrice disegna tra le sopracciglia.

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Figura 4

3. Sulla sommità del cranio sono inoltre posti due bijoux: sulla destra uno rappresenta il sole, e sulla sinistra il secondo la luna, dunque chiamato Sūrya - Candra.  Ricorda al danzatore d’armonizzare la sua polarità femminile e maschile e ha per funzione d’illuminare e stimolare la testa, le orecchie, gli occhi, il naso e la bocca.

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Figura 5

4. Gli orecchini sono prolungati da un’altra barretta decorata, detta matalo jhumki, che protegge il timpano e stimola la facoltà uditiva.

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Figura 6

5. Il naso è decorato su un lato da un piccolo diamante, e porta all’estremità un anello ricoperto di pietre. Chiamato mukutti o nathu, è volto a preservare la castità dell’artista.

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Figura 7

6. Due collane sono poste l’una attorno al collo e l’altra che ricade sul petto. La prima, detta adigeipatakam, tocca la regione di Viśuddhi Chakra ed ha per funzione di stimolare il canto e la parola. La seconda collana, detta anche patakam, ricade all’altezza di Anāhata Chakra e ha per funzione di evitare le malattie polmonari e di incrementare la potenza mentale.

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Figura 8

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Figura 9

7. Braccialetti ornano i polsi e le braccia: hanno per funzione di proteggere le articolazioni; anelli ornano le dita sia delle mani e sia l’alluce, ricordando alla danzatrice l’unione alla divinità.

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Figura 10

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Figura 11

8. Una cintura decora il punto vita e un’altra, formata di piccole catene, ricade sulle anche. La prima, odhiyanam, è posta davanti all’ombelico e corrisponde al nodo energetico da cui irradiano i dodici centri nervosi del corpo umano.  Viene tradizionalmente connessa all’area del Manipūra Chakra.

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Figura 12

9. All’altezza di Svādhiṣṭhāna Chakra, al livello degli organi genitali, la danzatrice lascia cadere le pieghe della sua sāṛī e la seconda cintura di piccole catene d’argento che orna le anche.

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Figura 13

10.       La lunga treccia termina a livello del coccige con tre pompon ed è ricoperta dal gioiello detto jadainaga, a forma di dorso del serpente cobra, simbolo d’energia divina e d’eternità. Questa decorazione viene connessa a Mūlādhāra Chakra e ai tre canali sottili Iḍā, Piṅgalā e Suṣumṇā.

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Figura 14

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Figura 15

11.       Le prime falangi delle dita delle mani e dei piedi sono dipinte di rosso “per dare il colore naturale dei fiori dell’albero aśoka” precisa il Nātyaśāstra. Un cerchio, talvolta contornato da puntini, è disegnato sui palmi e sul dorso dei piedi, simbolizzando il fiore di loto e il suo messaggio di purificazione, rinascita e d’evoluzione.

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Figura 16

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Figura 17

[i] Il più antico trattato indù di drammaturgia, il Nātyaśāstra, è stato sempre considerato nell’ambiente artistico un Quinto Veda. Esso esordisce narrando come Brahmā, il Creatore, insegnò al saggio Bharata la scienza dell'arte scenica affinché gli uomini raggiungessero la pienezza spirituale attraverso un metodo meno astratto di quello descritto nei Veda.

Il titolo del testo è composto da due parole: "Nāṭya" e "Śāstra": la radice della parola sanscrita Nāṭya è Nat (नाट) che significa "agire, rappresentare", il termine Śāstra (शास्त्र) significa "precetto, regole, manuale, compendio, libro o trattato" ed è generalmente utilizzata come suffisso nel contesto della letteratura indiana per indicare un’opera dedicata alla conoscenza in un'area definita del sapere (ossia ciò che noi comunemente indicheremmo come “un manuale”). La tradizione indù attribuisce il Nātyaśāstra al Ṛṣi Bharata. Potrebbe essere opera di diversi autori, ma gli studiosi non sono concordi in merito: ad esempio Bharat Gupt afferma che il testo mostra stilisticamente le caratteristiche di un singolo compilatore nella versione esistente, una visione condivisa da Kapila Vatsyayan, eminente studiosa di estetica indiana le cui opere sono notevolmente rilevanti nell’analisi delle geometrie sacre della danza Bharatanāṭyam. Il Nāṭyaśāstra è dunque il primo e più autorevole testo indiano sull'arte drammaturgica, redatto in sanscrito, principalmente in śloka epici con alcuni frammenti in prosa, è datato dagli studiosi in un arco temporale compreso dal V secolo a.C. al VII-VIII secolo d.C. anche se si ipotizza che, tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C., assunse la forma attualmente nota. I manoscritti sopravvissuti, di data significativamente successiva, sono costituiti da 36-37 capitoli, contenenti circa 6.000 versi, sebbene la tradizione si riferisca a un testo di 12.000 versi. Il testo si apre con la citata genesi mitica e la storia del dramma, menziona il ruolo di diverse divinità indù in vari aspetti delle arti e il rito iniziale adeguato ad un palcoscenico per le arti performative. L’opera descrive quindi la teoria della danza Tāṇḍava, la teoria del rasa, del bhāva, l'espressione, i gesti, le tecniche di recitazione, i passi fondamentali e le posizioni erette. I temi trattati dal trattato comprendono la composizione drammatica, la struttura di un'opera teatrale e la costruzione di un palcoscenico per ospitarla, i generi di recitazione, i movimenti del corpo, il trucco e i costumi, il ruolo e le finalità di una direzione artistica, le scale musicali, gli strumenti musicali e l'integrazione della musica con le performance artistiche. Il Nātyaśāstra è noto dunque come un antico trattato enciclopedico sulle arti, che ha influenzato la danza, la musica e le tradizioni letterarie in India. I nomi e la successione dei capitoli variano nei diversi manoscritti. Secondo la Manomohan Ghosh Edition (MGE), il capitolo 1 descrive la genesi del dramma; 2, le caratteristiche del teatro; 3, la pūjā per la consacrazione di un nuovo teatro; 4, tecniche della danza Tāṇḍava; 5, il rito del pūrvaraṅga; 6, la teoria del rasa; 7, la definizione di bhāva; 8, mimica facciale e differenziazione degli sguardi; 9, gesti delle mani (singoli, combinati, danzati); 10, tecniche per la posizione degli arti e dei piedi; 11, passi fondamentali, posture erette e posizioni con le armi; 12, passi e movimenti combinati; 13, tipi di andature sceniche; 14, zone sceniche e convegni, usi teatrali locali; 15, la teoria della prosodia, della recitazione sanscrita e dei modelli metrici; 16, esempi di modelli metrici; 17, attributi della poesia e figure retoriche; 18, recitazione in Prākr̥t; 19, modalità di indirizzamento e di enunciazione; 20, dieci tipi di gioco; 21, struttura di un complotto; 22, modelli base della rappresentazione scenica; 23, oggetti di scena, costumi e trucco; 24, teatro femminile; 25, definizione delle donne di facili costumi e degli uomini amorosi; 26, rappresentazioni varie; 27, successo del dramma; 28, descrizione generale della musica Gāndharva; 29, tipi di melodia di base e parti musicali per il pūrvaraṅga; 30, strumenti cavi; 31, misura del tempo, canzoni di scena e loro applicazione nella performance femminile; 32, canzoni dhruva; 33, strumenti coperti (tamburi); 34, tipi di caratteri; 35, distribuzione dei ruoli, troupe ideale; 36, discesa del dramma sulla terra.

Numerosi trattati medievali, tra cui il famoso Daśarūpa di Dhanañjaya (X secolo) dipendono dal Nāṭyaśāstra. Di molti commentari ne sopravvive solo uno: quello di Abhinavagupta (X-XI secolo) comunemente noto come Abhinavabhāratī. Il significato del Nāṭyaśāstra va ben oltre un semplice compendio sul dramma poiché contiene la nozione del profondo aspetto teatrale della vita, che divenne la caratteristica fondamentale della cultura post-vedica e determinò la comparsa del pensare il mondo come il frutto del gioco divino.

[ii]Di seguito sono riportati i vari tipi di Āhārya come spiegato da Bharata (Nāṭyaśāstra, Cap 23).

Āhārya può essere classificato in quattro tipi: pusta, alaṃkāra, aṅgaracanā, sañjīva.

1. Pusta: modellini o rappresentazioni simboliche realizzate in cartone o legno. Rientrano in questa categoria i palazzi, le colline, le armature, gli animali ecc. utilizzati. Questo è ulteriormente suddiviso in:

a) sandhima - gli oggetti uniti, quelli che sono fatti legando insieme materiali come stuoia, pelle, stoffa, pelle di animali, ecc.

b) vyājima – gli oggetti indicatori. Qui viene utilizzato un dispositivo meccanico per indicare l'oggetto, cioè uno yantra. Ad esempio, le tende dipinte vengono sollevate e abbassate utilizzando una puleggia.

c) ceṣṭima – gli oggetti in movimento. Questi sono gli oggetti che vengono fatti muovere sul palco, ad es. barche, cavalli, carrozze, simhaasana (troni), palanchini, ecc. Questi sono oggetti che possono essere spostati dentro e fuori dal palco.

2. Alaṃkāra: le decorazioni che utilizzano fiori e ornamenti sono chiamate Alaṃkāra. Si riferiscono specificamente a due tipologie, la prima con ghirlande di fiori e la seconda con ornamenti.

3. Aṅgaracanā: questa sezione si riferisce alla pittura degli arti per adattarsi a vari personaggi. Vengono utilizzati quattro colori primari/naturali: nero, blu, giallo e rosso. Vengono utilizzati anche colori secondari o derivati creati combinando i colori primari ed adeguati ai diversi personaggi.

4. Sañjīva: Questo si riferisce alle creature viventi. Bharata chiama l'ingresso degli animali sul palco "Sañjīva". Gli animali possono essere quadrupedi, bipedi o senza piedi. Anche l'uso di varie armi come lance, punte, arco e frecce, mazza, ecc. rientra in questa categoria. Viene anche spiegato in dettaglio l'uso di oggetti come ombrelli, personale, maschere e altri accessori.

[iii] In tutti gli stili di danze classiche indù, l'artista esprime concetti metafisici e religiosi prestando attenzione a quattro aspetti di una performance, che rappresentano quindi le quattro partizioni dell’abhinaya:

  • Aṅgika (i gesti e il linguaggio del corpo),
  • Vācika (il canto, la recitazione, la musica e il ritmo),
  • Āhārya (la scenografia, i costumi, i trucchi e i gioielli),
  • Sattvika (la disposizione mentale dell'artista e la sua connessione emotiva con la storia e con il pubblico, in cui risuona lo stato interiore ed esteriore dell'artista).

[iv] Il testo afferma che il drammaturgo dovrebbe conoscere i bhāva (stati interiori dell'essere) di tutti i personaggi della storia, ed è proprio a queste emozioni che si collega il pubblico durante la rappresentazione. L'eroe o l'eroina si mostrano simili a tutti gli altri esseri, cercando di raggiungere i quattro obiettivi della vita umana teorizzati nella filosofia indù. Quindi la vastu (trama) emerge attraverso la rappresentazione di tre mondi - il divino, l'umano e il demoniaco.

[v] Dall'appendice IV, in Abhinavagupta, Luce delle scritture (Tantraloka), a cura di Raniero Gnoli, UTET, edizione elettronica De Agostini, 2013, p. 761.

[vi]Nel Nāṭyaśāstra vengono catalogati quattro rasa fondamentali: śṛṅgāra, il sentimento amoroso-erotico; raudra, il sentimento furioso; vīra, il sentimento eroico; bībhatsa, l’odio e il disgusto. Da questi quattro rasa fondamentali derivano i quattro corrispondenti rasa secondari: hāsya, il sentimento comico; karuṇa, la compassione; adbhuta, la meraviglia; bhayānaka, il sentimento terrifico. A questi otto rasa Abhinavagupta aggiunge il śāntarasa, il sentimento della tranquillità e della quiete, caratteristico dello stato di ascesi, fine ultimo dell’essere umano.

[vii] Il Nāṭyaśāstra di Bharata elenca otto rasa e dunque śāntarasa non era inizialmente incluso nell'elenco. Tale iniziale classificazione fu accolta anche dalla letteratura classica successiva al manuale, benché alcuni esperti accennino a come molti poeti antecedenti a Bharata già individuassero śāntarasa come nono e finale elemento del canone. Il sanscritista V Raghavan attribuisce il riconoscimento di śāntarasa come nono rasa a Udbhata (nobile alla corte del re Jayapida del Kashmir durante il 779-813 d.C. e contemporaneo di Vamana), che discusse in modo elaborato dei nove rasa nel suo commento al Nāṭyaśāstra. Egli ipotizza anche l’attribuzione della paternità del nono rasa come tema principale nella drammaturgia e nella poesia ad alcuni poeti e drammaturghi buddisti o giainisti. Gran parte della critica letteraria su questo nono stato è stata ulteriormente svolta da Ānandavardhana nel suo commento al Mahābhārata e Rāmāyaṇa e successivamente da Abhinavagupta nel suo commentario al Nāṭyaśāstra.

[viii]Il neologismo Bharatanāṭyam è stato coniato nel 1932, all’epoca della ricodificazione di questo stile, in precedenza generalmente denominato sadir (“offrire”, in marathi) o “dasi-attam” (in tamil). In particolare il termine “Bharata” fu prescelto in quanto esplicativo dei tre aspetti salienti della rappresentazione:

“Bha” da Bhāva, lo stato emotivo

“Ra” da Rāga, la melodia

“Ta” da Tāla, il ritmo

Agli inizi del Novecento la pratica della danza templare e di corte, malvista dal governo coloniale e disprezzata dalle élite, attraversò un periodo di grave crisi e la danza delle devadāsī riacquistò importanza solo successivamente nel contesto del revival nazionalistico degli anni Trenta e Quaranta. Il movimento revivalista, influenzato dagli orientalisti del XIX secolo, ebbe inizio nel Sud dell’India, dove la forma coreutica neo-classica venne dunque istituzionalizzata come Bharatanāṭyam. Alla base della scelta di questo neologismo, in luogo del precedente sadir vi è stato infatti l’intento consapevole di connettere questo stile al nome dell’autore del Nāṭyaśāstra, per cui il Bharatanāṭyam sarebbe “la danza [descritta da] Bharata” e - essendo inoltre Bharata il nome dell’India - può essere inteso come “danza dell’India”.

[ix] In generale la storia dei cosiddetti "Gioielli del Tempio" è indissolubilmente connessa alle consuetudini templari dell'India meridionale, poiché questi gioielli erano inizialmente donazioni di pellegrini e devoti. Ad esempio, quando una persona moriva, i suoi gioielli venivano spesso donati al tempio quale atto propiziatorio per il passaggio nell'aldilà. Doni come questi sono stati registrati nei grandi templi di Chidambaram, Kanchipuram, Madurai, Srirangam, Thanjavur e Tiruvanamalai, solo per citarne alcuni.

[x]In particolare, per quanto riguarda la tematica dei gioielli, è possibile ritrovare i modelli di questi monili nella statuaria di molti templi dell’india del Sud, come Madurai, Kanchipuram, Tanjore e i bellissimi ornamenti delle Apsaras, le ninfe celesti, del Tempio di Belur in Karnataka.

[xi] Come ad esempio le parure esposte nel National Museum di New Delhi. La galleria dei preziosi del museo nazionale si chiama "Alamkara" e comprende la più vasta collezione di gioielli in India, con oltre 250 oggetti esposti per narrare la storia dei monili indiani.

[xii]Nella tipologia di testi Rasaśāstra vengono in primis annoverate opere composte tra il X e il XIII secolo, quali Rasendramaṅgala (considerato la più antica opera alchemica e composta in lingua sanscrita da Nāgārjuna Siddha);  Rasa Hridaya Tantra (composto da Shrimad Govind Bhagvatapad, guru di Shankaracharya e che include i processi alchemici preposti alla trasformazione del mercurio nei metalli preziosi come oro o argento); Rasa Prakasha Sudhakara ( testo che descrive sia Lauhavad, ovvero l'uso di processi metallurgici per convertire metalli inferiori in metalli superiori, sia Chikitsavad, uso di metalli e minerali per uso terapeutico, nonchè l'origine del mercurio); Rasendracūḍāmaṇi (testo in 13 capitoli che danno una descrizione elaborata del mercurio e della sua lavorazione per uso medicinale e la descrizione di 64 droghe con effetti miracolosi).

[xiii]Il merito di aver sviluppato il Rasaśāstra come una corrente dell'Āyurveda classico, in particolare nel raggiungimento dei suoi obiettivi relativi alla salute, va a Nāgārjuna (V secolo d.C.).

[xiv] Secondo la studiosa Katya Legeret, le proprietà attribuite ai monili troverebbero il loro fondamento negli Āgama Śāstra – testi in sanscrito dettati dal Dio Śiva allorché s’intrattiene su questo tema con Parvati - nonché dal Rasaśāstra, opera dedicata alla branca farmaceutica ed alchemica del sistema medico indiano, che si occupa principalmente dei metalli, dei minerali, dei prodotti di origine animale, delle erbe tossiche e del loro uso terapeutico. In questo senso l’arte degli ornamenti è ovviamente connessa all’alchimia indiana.

[xv]Nella Trimûrti, le rappresentazioni di Brahmā, il Creatore, sono molto rare. Śiva, dio distruttivo e signore della danza, non indossa quasi nessun gioiello attraente tranne la falce di luna come tiara e le collane con teschi, i bracciali con serpenti e la pelle di tigre simboleggiano soprattutto il suo potere trasformativo. È il secondo grande dio della Trimûrti, Viṣṇu, principio di conservazione, assieme alla sua paredra Lakṣmī, dea della fortuna, che detiene la sovranità su tutte le cose preziose nell'universo. Il gioiello più simbolico è indossato da Viṣṇu, sul petto: si chiama Kausthubha, "tesoro dell'Oceano". Rappresenta la coscienza universale, che risplende attraverso tutto ciò che brilla, come il Sole, la Luna, la parola e il cuore stesso dell'essere umano. Viṣṇu indossa al collo la "Collana della Vittoria chiamato Vaijayanti. È composto da fiori e cinque file di pietre preziose, corrispondenti ai cinque elementi: la perla, la rubino, smeraldo, zaffiro e diamante.

[xvi] Navaratna: secondo la citazione del testo "Jataka Parijata" (cap. 2, sloka 21), compilato da Sri Vaidyanatha Dikshitar, queste gemme devono essere di lignaggio alto e impeccabile. La loro associazione planetaria è la seguente:

il rubino (Māṇikya) per Sūrya (il sole), la perla (Muktāphala) per Candra (la luna), il corallo rosso (Vidruma) per Maṅgala (Marte), lo smeraldo (Marakata) per Budha (Mercurio), lo zaffiro giallo (Pushparaja) per Bṛhaspati (Giove),

il diamante (Vajra) per Śukra (Venere), lo zaffiro blu (Nīla) per Śanaiśchara (Saturno), l’hessonite (Gomeda) per Rāhu (il nodo lunare ascendente) è l’occhio di gatto (Vaidūrya) per Ketú (il nodo lunare discendente).

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