PARCA MARZIA, DÈA DELLA PROFEZIA (di P. Galiano)

 PARCA MARZIA, DÈA DELLA PROFEZIA

 

Paolo Galiano

 

 1383 0 cop Bigio Le parche

 

Anni fa, prendendo spunto da alcuni accenni negli appunti che Domizia Lanzetta aveva lasciato e che andavo ordinando per trasformarli in un testo in suo ricordo[1], pubblicai un articolo[2] su di una figura poco nota del pantheon romano: Parca Maurzia o Marzia, considerandola una “qualità” di Marte connessa alla generazione e come tale facente parte della triade delle Parche romane, analoghe delle Moire greche, le quali a Roma ebbero nome Neuna (o Nona), Decima (o Decuma) e Parca (o Morta, forse per erronea interpretazione di “Marzia”), divinità correlate ai tre stadi del completamento della gravidanza, cioè il neonato non perfetto nato al nono mese[3] (nel nostro computo l’ottavo), quello giunto al compimento della gestazione al decimo mese (il nostro nono) e quello morto per aver superato il tempo necessario all’espletamento del parto.

La prosecuzione degli studi negli anni successivi mi consente ora di rivedere completamente le conclusioni a cui ero giunto nel 2013, dando una più complessa interpretazione della figura di questa misteriosa “Parca di Marte”, non semplice “Dèa del parto” qual è comunemente considerata.

Le Coppie divine

Georges Dumézil, uno dei più grandi interpreti al mondo indo-europeo, nel 1940 aveva pubblicato un importante saggio su Mitra e Varuna come divinità della sovranità[4], prendendo in considerazione il loro rapporto con coppie simili, quali Wotan e Tyr, Romolo e Numa, ecc., personaggi divini o umani le cui qualità si possono riassumere rispettivamente come il Creatore Sovrano-Mago[5] e il Legislatore-Protettore.

Il Dumézil prende in esame coppie costituite da due divinità o personaggi maschili, ma nel caso di Roma e del mondo religioso dei Latini, credo che questa coppia originaria dovesse essere invece costituita da un Dio e da una Dèa[6], di cui purtroppo col trascorrere dei secoli sono rimaste solo tracce difficili da seguire. La coppia Parca-Marte ha tale antichità da essere ormai sconosciuta agli stessi romani, e per l’influsso del pensiero della Grecia sul mondo latino Parca è stata identificata con le tre Moire greche, è stata diciamo per così dire “triplicata”[7], generando interpretazioni parziali o non corrette tra gli studiosi della religione e della mitistoria romana.

Se esistesse un parallelo con le ipotesi del Dumézil, Marte ricoprirebbe un ruolo analogo a quello di Varuna come divinità uranica da cui tutto promana (la radice di Varuna è infatti comune a quella del greco Ouranos, il Cielo), il duonus ceruses (bonus creator) del Carmen saliare nella citazione di Varrone[8], e Parca sarebbe la Legislatrice in quanto Protettrice del mondo creato come il Mitra indoiranico. L’analogia tra le due coppie però termina qui, in quanto Roma aggiunge alle due divinità altre funzioni che ne fanno figure complesse e di non facile comprensione, considerata anche la scarsità di documentazione in nostro possesso. L’esame delle possibili etimologie dei loro nomi può aiutare a comprendere meglio il significato di queste divinità.

Etimologia e funzioni di Marte e di Parca

Il nome di Marte nelle diverse forme assunte nella religione dei Latini viene fatto derivare da  radici differenti, Mavort-, Maurt-[9], Mamert, Mavert-; Marte non è l’Ares guerriero dei Greci ma una divinità uranica al tempo stesso benefica e terribile, come leggiamo nell’arcaico Carmen saliare che lo evoca come colui davanti al quale tremano le divinità quando tuona[10], ma protegge i suoi fedeli sia nella città che nei campi coltivati (come si vede nel rito degli Ambarvalia); come tale è anche il “Dio del limite”, ma in un senso molto ampio: Marte è un Dio creatore e come tale si pone tra il cosmo ordinato e il caos non organizzato e quindi “pericoloso”, che deve essere tenuto “lontano” dal cosmo.

A sua volta Parca Marzia, deriverebbe etimologicamente da pario[11], quindi “colei che porta o che genera”, o da parcō[12], “colei che concede poco”, considerata però etimologia non attinente alle funzioni della Dèa, anche se Servio spiega che “dictae sunt parcae κατά αντίφρασιν, quod nulli parcant[13]. Parca sarebbe quindi un’originaria Dèa del “generare”, il cui nome solo in seguito sarebbe stato trasformato nel nome della terna delle Parche romane, come scrive Varrone[14], il quale considera le tre divinità come protettrici del parto mettendo in relazione Parca con partus, e con la sostituzione secondo Cesellio Vindice, grammatico del II sec. d.C., di Parca Marzia con Morta per trasformazione di Maurtia in Morta, probabilmente allo scopo di mantenere la corrispondenza con le tre Moire greche. Servio[15] parla di tre divinità preposte alle fasi della procreazione, specificando che “nomina parcarum Clotho, Lachesis, Atropos”, confermando la trasformazione di significato per la sovrapposizione del pensiero religioso greco su quello prettamente latino-romano.

Varrone, nella citazione di Gellio, non parla di Parche ma di Tria Fata[16], indicando così che esse non sono semplici protettrici del parto, bensì possiedono n potere profetico come dice il loro nome di Fata, da far, faris, “parlare”, e questo costituisce un recupero dell’arcaica funzione di Parca Marzia e del parlare/profetizzare che ritroveremo parlando dell’area sacra di Tor Tignosa presso la via Ardeatina.

Pertanto è probabile che Parca Marzia fosse in origine una Dèa della profezia e del fato, nel significato originale del termine, “ciò che è detto con la parola” (o meglio “il suono” che crea) e se così fosse, allora Parca sarebbe la “parola di Marte” che realizza l’esistenza del cosmo.

Servio, Aen. IV 614, conferma la relazione di fatum con la “parola divina” scrivendo: “Fata Iovis poscunt fata dicta, id est Iovis voluntas. Hic ergo participium est, non nomen[17], e d’altra parte per Varrone “le Parche, parlando (fando), predicevano la sorte ed erano connesse con la nascita[18]. Orazio nel Carmen saeculare descrive le Parche non come protettrici della gravidanza e della nascita ma come profetesse, secondo l’originaria funzione propria di Parca Marzia: “E voi Parche, che la sorte fissata / rivelate senza che niente possa / mutarla, aggiungete a quelli compiuti / altri buoni destini[19].

Il culto di Parca e le Tria Fata

Del culto reso a Parca non abbiamo notizie, né di un particolare luogo di venerazione, un sacello o un’ara, salvo un possibile santuario nella zona di Pomezia presso la Solforata, mentre delle Tria Fata, come Varrone chiama le Parche, si possono trovare riscontri sia letterari sia archeologici.

  • Le raffigurazioni delle Tria Fata

Nel Foro Romano erano state alzate nella regione del Comitium presso i Rostra Vetera[20], insieme a quella dell’Àugure Atto Navio, le statue in bronzo delle Tria Fata, che si riteneva, sulla testimonianza di Plinio il Vecchio[21], fossero state fatte da Tarquinio Prisco; Plinio, il quale parla di “Sibille”, le riteneva tra le più antiche statue in Roma dopo quelle di Romolo, Tito Tazio e Camillo, il che ci riporta alla Roma arcaica e in particolare a uno dei luoghi più sacri dell’Urbe, il Comitium, dove erano disposti, secondo i punti cardinali, a nord la Curia Hostilia, sede del Senato, a est il supposto sepolcro-cenotafio attribuito a Romolo[22], a sud il Volcanal e i Rostra Vetera.

1383 1 Comizio

Fig. 1

La pianta del Comitium: le frecce indicano a nord la Curia Hostilia, distrutta da un incendio e ricostruita da Giulio Cesare in altra posizione (Curia Iulia), a est, sotto la scalinata della Curia Iulia, il supposto cenotafio-heroon di Romolo, a sud il Volcanal e i Rostra Vetera. A ovest forse si posizionava l’Àugure, probabilmente dove più tardi venne innalzata la Columna Menia, per traguardare il Monte Albano prendendo come riferimento l’heroon di Romolo (da FILIPPO COARELLI, Il Foro romano, edizioni Quasar, Roma 1985, vol. I, modificato, con il permesso della casa editrice).

La collocazione delle statue delle tre “Sibille” in corrispondenza dell’area sacra a Vulcano sottolinea il carattere arcaico del culto profetico nell’area del Comitium, necessario per le decisioni che il Senato avrebbe dovuto prendere per la prosperità dell’Urbe.

L’esame etimologico dei nomi delle Tria Fata/Parche evidenzia la loro analogia non con le Moire greche ma in maggior misura con le Norne norrene di cui si dirà più avanti FIG. 2, il che potrebbe trovare una spiegazione con una differenza temporale nell’emigrazione dall’originaria sede del popolo indoeuropeo dei popoli che hanno dato origine da un lato agli europei occidentali, tra cui Latini e Norreni, e dall’altro ai Micenei e ai Greci.

1383 2 Lipp tavola comparativa

Fig. 2
Tabella comparativa del significato etimologico dei nomi delle Moire, della Parche e delle Norna, dalla quale si potrebbe dedurre la maggiore affinità tra Parche e Norne rispetto alle Moire. Da notare l’interpretazione di Decima-Decuma secondo il Lipp come “decima, tributo” e non “decimo (mese)”. Da REINER LIPP, Neuna Fata. La filatrice del destino caduta in oblio, in Studia archaeologica. Forme e strutture della religione nell’Italia mediana antica. III Convegno internazionale dell’Istituto di Ricerche e Documentazione sugli Antichi Umbri, L’Erma di Bretschneider, Roma 2016, p. 437. Autorizzazione alla pubblicazione richiesta 19 08 25, nessuna risposta.

L’accostamento tra assistenza alla nascita del neonato, riti profetici e acque solforose si ritrova a Roma nel contesto del Terentum de delle cerimonie che venivano fatte in questo luogo in onore degli Dèi inferi Dis Pater e Proserpina, delle Moire/Parche e delle Ilizie insieme a Tellus. Il Terentum era una zona del Campo Marzio situata tra la parte iniziale dell’attuale Corso Vittorio Emanuele e la riva del Tevere[23], posta circa all’altezza in cui la via triumphalis passava il Tevere ed entrava nell’Urbe per la Porta Carmentale. L’antichità dell’area sacra è dimostrata, secondo l’osservazione di Carandini[24], da fatto che essa, insieme con altri templi, delimitava il cerchio dei “santuari del I miglio”, che delimitavano fin dall’età regia o forse dal periodo protourbano il territorio che circondava la prima Roma o i pagi che ne furono l’origine formando una cintura protettiva della città.

I riti in onore di Dis Pater e Proserpina avevano come centro l’altare che veniva dissotterrato, rimanendo per il resto dell’anno coperto dalla terra: in prossimità dell’area sacra alle due divinità ctonie erano stati innalzati due templi, forse l’uno dedicato a Tellus e l’altro alle Moire, davanti a uno spazio aperto in cui si offriva il sacrificio alle Ilizie[25]. Dietro questo complesso vi sarebbe stata l’arena detta Trigarium, dove, forse dalla seconda età regia, si eseguiva il rito dell’October Equus e l’uccisione del cavallo di destra della triga[26].

La riva sinistra del Tevere dove di trovava il Terentum doveva avere un rapporto particolare con la gravidanza e il parto, considerato che a nord del Terentum in una località ancora non certa (l’attuale via dei Coronari o la zona via Condotti - Ponte Cavour[27] o ancora il Mausoleo di Augusto[28]) si trovava la luogo chiamata nei cataloghi regionari Ciconiae Nixae o ad Nixas, anch’essa connessa al rito dell’October Equus secondo i tardi Fasti Filocaliani (“equus ad nixas fit”). Le Nixae (“le inginocchiate”, perché nell’antichità in genere la donna partoriva in posizione inginocchiata e non supina) sono divinità poco conosciute, di cui non è certo il numero delle componenti del gruppo (due o tre?) e da taluni considerate divinità del parto[29], analoghe quindi sia alle Ilizie che alle Parche-Moire. È da notare che, secondo una notizia riportata da Festo[30], a Roma era anche conosciuta una triade maschile connessa al parto, i Nixi Dii (“gli Inginocchiati”), portati a Roma dal console Acilio Glabrone nel 191 a.C. dopo la sconfitta di Antioco III di Siria, raffigurata con tre statue maschili in ginocchio poste davanti alla cella di Minerva nel tempio di Juppiter O M in Capitolio, forse il corrispondente maschile delle Nixae e delle Ilizie, visto il loro ruolo. Queste divinità erano conosciute probabilmente nell’Italia nord-orientale[31] e un ex-voto ritrovato ad Imola nel 2003, forse la loro unica raffigurazione, li rappresenta come tre uomini barbuti e inginocchiati FIG. 3.

 1383 3 Nixi ex voto da Forum Cornelii SABAP

Fig. 3
I Nixi Di: ex voto in bronzo con due figure maschili inginocchiate (la terza è mancante), recante incisa alla base la dedica Nixibus Lucania Fadilla v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito. Il gruppo, databile al II sec. d.C., è stato riportato alla luce dall'area dell'ex cinema Modernissimo di Imola nel 2023. Su concessione del Ministero della Cultura, foto di Roberto Macrì, Archivio fotografico della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna, riproduzione vietata a scopo di lucro, anche indiretto.

Evidente la diversità fra i due gruppi di divinità: le Nixae si trovavano nell’area del Terentum o comunque in prossimità di esso, i Nixi sul Campidoglio davanti al tempio di Minerva e le loro statue erano sicuramente provenienti dal Vicino Oriente. La scarsezza di informazioni sulle Nixae non consente però ulteriori considerazioni.

Nel Terentum si celebravano ogni cento anni i Ludi Saeculares[32] per il rinnovo della potenza dell’Urbe, originariamente con il nome di Ludi Terentini o Tarentini, istituiti da un sabino di nome Valesius, capostipite della gens Valeria, per ordine di Dis Pater e Proserpina come ringraziamento della salvezza dei suoi tre figli, guariti dopo aver bevuto l’acqua del Tevere bollita su di un altare che Valesius aveva rinvenuto sepolto sulla riva del Tevere. Dal tempo di Ottaviano Augusto i Ludi avevano la durata di tre giorni nei quali erano eseguiti sacrifici diurni, dedicati a Juppiter e Juno sul Campidoglio e ad Apollo e Diana sul Palatino, e notturni, in onore di Tellus (forse rito già presente nei Ludi più antichi, come suppone il Coarelli[33]), nella sua qualità di Dèa ctonia e correlata con gli Antenati garanti della ricchezza dei prodotti della terra[34], delle Moire, divinità del Fato, e delle Ilizie, divinità di nome greco protettrici del parto e collegate all’acqua, come si vede dalla presenza di Tiberinus nelle monete celebrative fatte coniare da Domiziano FIG. 4a, alle quali si sacrificava su di un’ara rotonda Fig. 4b, essendo  quella quadrangolare riservata agli Dèi superi.

1383 4a Ilizie dupondio sacrificio di Domiziano 88 d C

Fig. 4a
Domiziano sacrifica alle Ilizie durante i riti del Terentum per i Ludi Saeculares dell’anno 88 d.C. (dupondio coniato da Domiziano per celebrare i Ludi Saeculares;). L’Imperatore, accompagnato da un suonatore di lira e un flautista, offre il sacrificio alle Dèe su di un altare rotondo; le due divinità non sono presenti, ma a sinistra vi è l’immagine di Tiberinus, simbolo del collegamento di esse con le acque. Sul fondo si vedono i frontoni di due templi e, dietro ad essi, un arco rotondo: ciò fa supporre secondo il Coarelli (FILIPPO COARELLI, Campo Marzio, ed. Quasar, Roma 1997, p. 89) che il sacrificio avvenisse all’aperto in un temenos.

1383 4b Ludi saeculres altare rotondo sesterzio

 

Fig. 4b

L’altare rotondo per il sacrificio agli Dèi ctonici (sesterzio dell’Imperatore Filippo l’Arabo coniato per i Ludi Saeculares del 248 d.C.

 

Se i nomi di alcune delle divinità venerate nei Ludi Saeculares sono greci (la prima testimonianza dei Ludi è del 249 a.C., un periodo in cui la religione greca cominciava a influenzare quella originaria latino-romana), non bisogna dimenticare però che Dis Pater era una divinità arcaica portata a Roma dal sabino Tito Tazio (come sabino era il Valesius che avrebbe istituito le prime celebrazioni) mentre il nome romano della sua paredra (Proserpina è nome greco[35]) è sconosciuto, forse si trattava di Aerecura[36], divinità ctonia e Dèa dell’abbondanza dei frutti della terra, spesso raffigurata con una mela in mano o un cesto di mele ai piedi; le Moire sono la trasposizione greca delle Parche romane, mentre non si può con certezza dire quale fosse l’originaria deità romana che qui ha assunto il nome greco di Ilizie/Ilizia.

Le Ilizie, antiche divinità greche del parto e della fertilità, erano in numero di due per Omero ma a Creta come a Roma era considerata essere una soltanto (come Parca Marzia), come canta Orazio: “Tu che dolce schiudi a tempo i parti / per rito, proteggi le madri, Ilizia … /  Fai crescere la (nuova) generazione, Dèa, e dài auspici favorevoli al decreto dei Padri sull’unione con le donne / e per la legge matrimoniale di nuova prole feconda[37]; la sua funzione va oltre la protezione del parto estendendosi alla crescita della prole e all’azione legislatrice sulla “legge matrimoniale” dei Padri. Non è possibile dire se tali fossero anche le funzioni di Parca Marzia, ma se fosse valido il parallelo fatto all’inizio di questo saggio tra Varuna/Mitra e Marte/Parca Marzia, allora Parca avrebbe anche la funzione di Legislatore, di cui rimarrebbe un residuo nelle parole di Orazio.

Il Terentum era sede di esalazioni vulcaniche sulfuree, per cui ritroviamo la connessione mondo ctonico - divinità del parto - acque sulfuree esistente a Tor Tignosa; non è certa la funzione oracolare del Terentum, ma verosimilmente i Ludi Saeculares, venendo celebrati all’inizio di un nuovo ciclo generazionale, dovevano avere anche una connessione con tale funzione.

Le uniche rappresentazioni delle Tria Fata si vedono su alcuni sarcofagi, soprattutto di età imperiale[38]. Ciò che si rileva da queste immagini è la netta differenza tra la rappresentazione delle Moire greche, rappresentate come filatrici con il fuso, la conocchia e le forbici, e le Parche[39], le quali hanno attributi ben diversi nei quali persiste il legame tra parola e funzione profetica di Parca Maurzia, di solito la sfera celeste, il volumen e una maschera teatrale FIG. 5 o un fuso. “Gli attributi, sempre chiaramente indicati, contraddistinguono le Parche. Al motivo del filare … si affiancano ora quelli del fissare per iscritto il destino e della sua determinazione tramite gli astri, espressi rispettivamente dall’attributo del volumen e da quello del globo … Due motivi che riflettono da un lato l’idea stessa del destino propria del mondo e della cultura romana … dall’altro l’immagine di un destino determinabile dalla lettura degli astri[40].

1383 5 Sarcofago con le tre Parche

Fig. 5

Sarcofago (II sec. d. C., ora al Museo degli Uffizi, Firenze): la nutrice presenta il neonato alla madre, dietro di lei in piedi una Parca segna con uno stilo un punto su di un globo raffigurante la sfera celeste, a indicare l’influsso astrologico sul neonato, la seconda, dietro la nutrice, ha in mano un volumen su cui scrive il destino, la terza, dietro un anziano seduto (forse l’avunculus, lo zio materno a cui spettava imporre il nome al bambino), mostra una maschera teatrale (o una raffigurazione del Sole col capo radiato?), forse auspicio del ruolo che avrà nella società (da STEFANO DE ANGELI. Problemi di iconografia romana: dalle Moire alle Parche, in Mélanges de l'École française de Rome, Antiquité,103, 1991, fig. 3 p. 117). Autorizzazione alla pubblicazione 19 08 25, nessuna risposta.

Questo fa Parche romane un’immagine che “non risulta più limitata al tradizionale motivo iconografico del filare ma si allarga, caricandosi di nuovi significati religiosi e simbolici,  ad altri motivi, desunti verosimilmente da un lato dalla tradizione religiosa latina più antica … Non costituiscono una ripresa pura e semplice di un modello, quello appunto delle Moire greche, ma piuttosto un’elaborazione creativa … che conferma la non passiva accettazione dei modelli greci e la rilettura di questi da parte della cultura romana[41].

  • Parca Marzia e l’area sacra di Tor Tignosa

Un discorso più complesso richiede l’esame dell’unica testimonianza epigrafica che abbiamo del nome di Parca Marzia, proveniente da una zona situata a est di Roma tra Albano e Pomezia, in prossimità del tracciato dell’antica via Ardeatina, presso la strada che da Lavinium giungeva ad Alba Longa. Si tratta dei c. d. “cippi di Tor Tignosa”[42], ritrovati in una località dove doveva esserci un santuario secondo i ritrovamenti della Guarducci[43], la quale riferisce il ritrovamento in sede di tegole, matrici per antepagmenta, oggetti votivi, ceramiche e di “un altare di peperino, dalla sagoma di tipo arcaico, molto simile alle sagome di certi altari di Lavinio”.

Il santuario si trova su di un colle situato a circa 1 km dalla Solforata[44], così detta per le sue sorgenti di acque sulfuree dove si sarebbe trovata la sacra “grotta di Fauno”, divinità arcaica che, oltre ad essere collegata all’ingravidamento e quindi alla nascita (si pensi al rituale antichissimo dei Lupercalia e alla forma di Fauno come Inuus, il capro che penetra la femmina), aveva anche funzione profetica attraverso il rito della incubatio. La Solforata va identificata con Albunea[45], il lago “dalle acque bianche” (donde il nome) presso il quale secondo Virgilio nel VII Libro dell’Eneide si reca il re Latino per avere da Fauno la rivelazione degli accadimenti futuri concernenti l’arrivo di Enea per mezzo di un rito incubatorio, a conferma del suo arcaico significato di “zona profetica”.

1383 6 Mappa IGM 2

 

Fig. 6

La c. d. “grotta di Fauno”, il santuario di Tor Tignosa e le necropoli di Santa Palomba si trovano a distanza di poco più di un chilometro tra di loro, tanto da far pensare a una vera e propria “zona oracolare e ctonia la cui comparsa potrebbe risalire al X–IX sec. a.C. (Carta IGMI 1985, https://geoportale.regione.lazio.it).

 

Tutta la zona in cui si trova il santuario riveste un particolare interesse, in quanto in un’area del diametro di circa un chilometro FIG. 6 si trovano il santuario di Tor Tignosa, la “grotta di Fauno” e il sito di Santa Palomba[46]: in questa località gli scavi hanno riportato alla luce alcune necropoli nelle quali sono stati rinvenuti corredi miniaturistici dell’Età del Bronzo tardo o del Ferro (circa X sec. a.C.), tra cui piccole forme di ancilia, i duplici scudi che a Roma erano custoditi dai sacerdoti di Marte, i Saliares FIG. 7, vestiti con abiti e armi risalenti alla precedente Età del Bronzo[47], elemento che ci riporta ad un’età arcaica.  Questi ricchi corredi fanno pensare che la zona di Santa Palomba fosse una specie di “zona riservata” alle sepolture di personaggi di rilievo sociale e funzionale (l’uso di essere sepolti presso il luogo di una divinità proseguirà con il cristianesimo fino al Medioevo e oltre), e infatti in essa poche sono le abitazioni (ma gli scavi della zona ancora non completi consentono solo ipotesi). La conferma che la regione di Santa Palomba potesse essere sede di culti legati alle acque e al mondo ctonio, poiché le fonti solforose sono di solito considerate un accesso per l’Aldilà, potrebbe venire dal ritrovamento nel corso degli scavi per la costruzione dello stabilimento IBM di Santa Palomba di due grandi vasche contigue di forma rettangolare, probabilmente per immersioni cultuali e/o salutari[48].

1383 7 Agostini Dialoghi

Fig. 7

Gli ancilia in alcune monete romane: le prime due immagini si riferiscono a una moneta coniata dall’Imperatore, la terza è una moneta di Licinio Stolone, sul recto III Vir, sul verso: Augustus TR(ibunicia) Pot(estate). Sul recto accanto a due ancilia si vede il pileum, il copricapo arcaico che portavano i sacerdoti Saliares e i Flamines (Antonio Agostini, Dialoghi sopra le medaglie, iscrizioni e altre antichità, presso Michel’Angelo e Pier Vincenzo Rossi, librari alla Salamandra, in Roma 1698, p. 154).

Da notare che non si hanno prove di uno o più abitati di rilievo, ma solo di case isolate[49]: l’assenza, alla fase attuale delle ricerche, di nuclei abitativi, potrebbe far pensare che la zona fosse un locus sacer dedicato alle divinità e ai loro cultori, e non fruibile dagli umani.

In due differenti fasi di scavo, la prima nella seconda metà degli anni ’40 e la seconda alla fine degli anni ’50, presso Tor Tignosa sono venuti alla luce quattro cippi[50] di analoga fattura ma di dimensioni differenti FIG. 8a/b/c/d, in forma di piramide tronca[51], scritti in lettere arcaiche.

 

1383 8a Cippo Lar Ainias 1383 8b Cippo Neuna dono 1383 8c Cippo Neuna fata 1383 8d Cippo Parca Martia

 

Fig. 8
I quattro “cippi di Tor Tignosa” con le dediche ad Enea, a Neuna Fata, a Neuna e a Parca Marzia (su concessione del Ministero della Cultura - Museo Nazionale Romano; immagine 8a: autore S. Sansonetti; immagini 8b, 8c e 8d: autori G. Cargnel e R. D’Agostini).

 

L’area, caratterizzata dalla presenza di un santuario, la cui esistenza risalirebbe al V sc. a.C.[52], e da cippi   a Parca, Neuna ed Enea,  prossimo alla grotta o comunque a un luogo sacro a Fauno, fa ipotizzare, come scrive la Granino Cecere, che “prima che il santuario possa aver assunto un carattere pubblico… dovette essere sede, come spesso nell’antichità i luoghi caratterizzati da bocche di vapori sulfurei, di un culto di carattere ctonio ed oracolare, come forse può suggerire l’appellativo fata di Neuna[53]; infatti le sorgenti di acque sulfuree sono da sempre considerate sede di divinità connesse con il mondo infero e con la profezia.

Il complesso di Tor Tignosa-Solforata-Santa Palomba doveva rivestire un ruolo importante per la sua posizione sulla via che da Alba Longa conduceva a Lavinium, perché era il tragitto percorso dai magistrati romani per recarsi dal Monte Albano, dove sorgeva il tempio di Juppiter Latiaris, sede sacra della Confederazione dei Latini e rimasto tale anche dopo la vittoria dell’Urbe sui Latini, a Lavinium, il luogo in cui erano conservati i Penates, gli antenati del popolo romano e dove era sbarcato Enea, ritenuto l’antenato dei laviniati e dei romani, quindi il Lar per eccellenza.

Si noti che le tre città, Roma, Lavinio e Alba Longa, costituivano i tre vertici di un triangolo sacro i cui lati erano rappresentati dalle vie che univano le tre città, corrispondenti circa alle attuali via Appia, via Ardeatina e Via del Mare (SP 101 A). “Quest’area occupava un luogo estremamente privilegiato, all'incrocio fra le vie per Ardea con nell’area settentrionale dell’area individuata quella per Lavinio … È facile ipotizzare che proprio il santuario delle Tria Fata nei pressi della odierna Tor Tignosa potesse costituire un luogo di sosta e quindi ospitare un culto di carattere pubblico[54].

Il santuario di Tor Tignosa in realtà non sembra essere stato dedicato alle Tria Fata in quanto tali poiché, almeno fino ad ora, non è stato rinvenuto alcun cippo dedicato alla terza Parca, Decima, mentre si trova per due volte il nome di Neuna/Nona, in un caso espressamente definita come Fata, attribuzione invece assente nel cippo di Parca Maurtia. Per altro la zona, anche per gli sconvolgimenti dovuti alle attività agricole ed estrattive dei secoli successivi, è stata notevolmente alterata e questo ne rende difficile la precisa ricostruzione.

Esaminiamo ora le incisioni riportate sui cippi:

  • Lare Aineia (o Aenia[55]) dono” (“dono al Lare di Enea”).

Il cippo è stato ritrovato fuori contesto rispetto agli altri tre, “nella casa dei proprietari di Tor Tignosa[56]. La lettura ha suscitato problemi epigrafici: secondo la Guarducci sarebbe “Lare Aineia dono” (“dono al Lare di Enea”), mentre altri studiosi, in particolare Adriano La Regina, hanno proposto una differente lettura: “Larebus A. Venia (o Avenia) Q. f.[57] (“A. Venia figlia di Quinto ai Lari”). Gli archeologi non hanno accettato questa lettura[58], e in effetti un’isolata dedica ai Lari di un personaggio femminile, per altro ignoto (a meno che la donna citata non possa essere identificata con un personaggio di rilievo, ad esempio una sacerdotessa del santuario) a mio avviso contrasta con la presenza di dediche a due divinità, per cui mi sembra più corretta la lettura proposta della Guarducci, la quale avrebbe un significato nell’àmbito di un culto ad Enea come antenato del popolo romano per la presenza della località sulla via per Alba Longa, come ho accennato sopra.

  • Neuna fata” (“Neuna profetica”) e Neuna dono” (“dono a Neuna”):

Poiché nella località del santuario al momento non è stata trovata alcuna dedica a Decima mentre Neuna è testimoniata per due volte, si può pensare che il santuario non fosse dedicato alle Parche in quanto tali ma a un culto a due divinità tra di loro indipendenti ma accomunate dalla loro funzione profetica, come dice esplicitamente la formula “Neuna fata”, forse anche di dispensatrici di salute attraverso le acque.

Una digressione sul nome di Neuna: il Lipp[59] con una sapiente dissertazione dimostra che il nome “Neuna” nulla ha a che vedere con “Nona”, in quanto dal punto di vista etimologico esso non ha rapporto con “novem” e “nonus”, bensì si tratta di una forma *sne-uen derivata dalla radice verbale *sneh, “filare”, per cui Neuna dovrebbe essere tradotto non con “Nona = protettrice del feto al IX mese” ma con “colei che fila, divinità filatrice (del destino)”[60], etimologi analoga quindi in particolare a una delle Norne norrene, come si vede in Fig. 2. Le Norne sono corrispondenti alle Parche romane, tre divinità norrene il cui nome significa “coloro che sussurrano”: nella Voluspasaga XIX-XXI di esse è scritto: “Io so che esiste un frassino chiamato Yggdrasil … Di là vengono tre donne molto sagge, tre, dalle sale che sta sotto quell'albero si stendono … Esse incidono rune[61], cioè non filano come le Moire ma “incidono” segni-parole magiche, di potere, e in questo ritroviamo il rapporto tra le Parche e la parola profetica (ma forse anche creatrice).

Il ragionamento di Lipp su Neuna “filatrice” e non “nono (mese)” è ineccepibile dal punto di vista glottologico, peccato che gli autori romani, essendo ignoranti in questa materia, abbiano invece deciso che Neuna equivalesse a Nona senza fare troppe elucubrazioni sull’argomento…

Secondo l’autore “è improbabile che nel dittongo eu di Neuna (Lavinio, III sec. a.C.)  e neuen (in neuendeiuo [Novendives o Novensides, “i nuovi Dèi”], Ardea ca. 300 a.C.) si sia conservato un vocalismo che sia più arcaico ancora dell’evidenza delle iscrizioni più arcaiche dell’àmbito latino ed italico (dal VI sec. a.C. in poi)[62]. Ma Parca e Neuna potrebbero forse essere così arcaiche da precedere da un lato le variazioni glottologiche a cui Lipp si rifà e soprattutto più antiche della loro identificazione con le terne di divine filatrici quali le Moire greche, a cui invece il Lipp le assimila seguendo l’uso diffuso di ritenere che tutto a Roma venga dalla Grecia (perché i Romani erano così stupidi da non riuscire a concepire da soli le loro divinità…).

  • Parca Maurtia dono” (“dono alla Parca Marzia”):

Nella quarta iscrizione Parca è denominata come “Parca di Marte”, “Parca Marzia”, un nome da ricondurre a *Mavors-*Maurt, interpretato dal Lipp come derivante da *mòuh-ur, “movimento, forza movente”[63], il vento fecondante portatore di pioggia e quindi di prosperità, il che concorda con quanto scriveva Mircea Eliade[64] a proposito del “dio uranico” connesso con la pioggia: “Il processo di ‘evoluzione’ delle divinità celesti [da divinità uraniche a divinità dell’uragano e della pioggia] è alquanto complesso; per facilitarne l’esposizione distingueremo due fasi di sviluppo: 1) il Dio del cielo, padrone del mondo, sovrano assoluto, custode delle leggi, 2) il Dio del cielo creatore, il maschio per eccellenza sposo della Grande Dèa tellurica, distributore della pioggia … La forza generatrice, il tuono, la pioggia sono epifanie della forza e della violenza, molle indispensabili che garantiscono la fertilità biocosmica”, e, come ho detto all’inizio dell’articolo, il Marte romano riassume in sé la funzione di signore del mondo e quella di creatore e fecondatore che realizza la potenzialità generatrice di Parca.

Già nel 1982 il Poccetti[65] aveva rilevato che, “accertata la sostanziale identità linguistica tra Maurt- e Mavort-, la preferenza di questa forma rispetto a Mart- non potrà apparire motivata che dalla scelta di un registro stilistico che nella lingua letteraria faceva sentire Mavort-  più arcaico ed elevato di Mart-”: anche questo confermerebbe l’arcaicità del nome di Parca Maurtia per la forma particolare del suo nome.

Parca: ostetrica o profetessa?

In definitiva, la realtà di Parca ci sfugge: troppo scarse e in generale molto tardive le citazioni del suo nome negli scrittori romani gentili e più tardi negli autori cristiani quali Tertulliano e Agostino, nessuna iconografia che consenta una qualche ipotesi delle sue funzioni sulla base delle immagini, scarsi reperti archeologici, limitati al cippo del santuario di Tor Tignosa e all’informazione di Plinio il Vecchio sulle statue delle “Sibille” innalzate da Tarquinio Prisco nel Comitium. È necessario quindi prendere in esame il complesso di informazioni riguardanti sia Parca sia le Tria Fata, e forse le Fata Scribunda del dies lustricus[66], con le quali hanno in comune l’azione dello scrivere.

Dagli elementi finora esaminati, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di due diverse divinità col nome di “Parca” o, meglio, due fasi distinte della sua presenza nel mondo religioso romano: la più arcaica è la Parca Marzia, la seconda, più recente, avrebbe dato il proprio nome alla terna di divinità femminili che assistono all’evoluzione del feto nel grembo materno e ne vaticinano il destino (prendendo il nome di Morta, secondo quanto scrive Cesellio Vindice, probabilmente per corruzione del suo nome di Parca Marzia).

L’arcaicità di Parca è dimostrata dal suo nome di “Maurtia/Marzia” in relazione con *Mavors-*Maurs, nome arcaico di Marte attestato in pochi reperti epigrafici. La Dèa ha due funzioni principali: la generazione (della specie umane ma anche animale e vegetale?) e l’uso della parola come strumento di azione, da cui l’attività profetica (condivisa con Neuna Fata);essa è connessa alle acque, in particolare acque solforose, come si vede dal santuario di Tor Tignosa che gravita in prossimità della c. d. “grotta di Fauno” e della zona di Santa Palomba, con le sue “piscine” cultuali e/o curative nonché le  molteplici piccole necropoli con sepolture per incinerazione che iniziano nel X-IX sec. a.C., a conferma dell’antichità dei culti di questa regione e, nella quasi totalità dei casi finora repertati, appartenenti a personaggi maschili e femminili di rango elevato[67].

L’associazione di generazione-protezione, acque e profetismo potrebbe far rientrare Parca Marzia nella categoria delle divinità femminili delle acque dei popoli sabini, osci, sanniti[68] con le quali condivide un altro elemento caratteristico, l’importanza della rete viaria in prossimità del suo santuario FIG. 9, rete che univa la via della transumanza che da Tivoli giungeva ad Anzio e Ardea con la rete stradale che da Bovillae (attuale Frattocchie), dove giungeva il sale delle saline veienti (più tardi romane), si dirigeva verso Lavinio e le altre città dei Prisci Latini e da qui verso la zona sud-orientale del Lazio[69].

1383 9 Mappa Solforata Digital Atlas9

Fig. 9

La rete viaria al tempo dell’Impero: al cui centro si trova la zona della Solforata con il santuario di Tor Tignosa e l’area archeologica di Santa Palomba (Digital Atlas of the Roman Empire, Centre for Digital Humanities, Johan Ahtfeldt, Università di Göteborg).

Parca Marzia, come molte altre divinità arcaiche della prima Roma (intendo quella siculo-aborigena secondo la ricostruzione fatta dal Carandini[70]), diviene in seguito obsoleta e gli stessi romani ne conservano un ricordo così vago che il suo nome passa a indicare l’insieme delle tre divinità la cui funzione principale sembra essere quella di assistere la madre nello sviluppo e nella nascita del figlio e profetizzarne il destino. Ma non ostante la “scomparsa” di Parca Marzia dal mondo religioso di Roma alcune sue caratteristiche sopravvivono nelle tre Parche, terna che probabilmente non era nuova per i romani se già Tarquinio Prisco (forse influenzato dalle sue origini, essendo il padre Demarato un greco di Corinto) aveva fatto erigere tre statue in loro onore presso i Rostra del Comitium, anzi, ad essere precisi, Plinio parla di “Sibille”, profetesse, e non di Parche-Moire, e i Tria Fata, nome originariamente romano delle Parche?, predicono o meglio “cantano” il destino del nascituro, funzione assente nelle Moire e che pertanto distingue in modo essenziale le Parche romane dalle apparentemente simili divinità greche.

La figura di Parca Marzia assume, da quanto ho fin qui esposto, un significato che va oltre il suo intervento nello sviluppo del nascituro, per cui la trasformazione del suo nome secondo Cesellio Vindice da Maurtia a Morta sembra essere del tutto artificiosa e comunque connessa all’identificazione (tardiva) tra Parche-Tria Fata e Moire.

Il santuario di Tor Tignosa, come si è visto, presenta tutti i caratteri di un santuario oracolare legato alle acque sulfuree del lago di Albunea, caratteristica di altre divinità latine consimili di significato analogo, e la presenza di esso nel territorio di Pomezia forse ha determinato una (probabilmente successiva) associazione con il culto di Enea,  l’eroe fondatore: “Il particolare carattere dei luoghi, intensamente popolati dalle tradizioni relative alle origini del popolo romano, avrebbe contribuito, a un certo momento, a conferire ai Fati di quel santuario un carattere decisamente pubblico[71].

Il santuario, fiorente tra IV e III sec. a.C., va successivamente in degrado fino ad essere dimenticato e tutta l’area diviene essenzialmente agricola, divisa tra piccoli fondi e villae rusticae fino al Medioevo, quando iniziò la costruzione delle torri di difesa e di osservazione quale la Tor Tignosa[72]. Non ostante questa declassamento, a noi sono arrivati accenni che ci consentono di aprire almeno uno spiraglio di luce sul significato di Parca Marzia come divinità arcaica e paredra dell’uranico Marte signore del cielo.

[1] Domizia Lanzetta, La Fortuna e il Fato (a cura di P. Galiano), ed. Simmetria, Roma 2013.

[2] Paolo Galiano, Parca Maurtia dono, note a ‘La Fortuna e il Fato’ di Domizia, pubblicato sul sito della Fondazione Lanzi il 29/04/2013. Mi scuso con il lettore per le frequenti citazioni dei miei lavori: non è per vanità ma, trattandosi di opere divulgative, sono accompagnate da una buona Bibliografia per indirizzare chi volesse approfondire gli argomenti.

[3] La terminologia è basata sul calcolo romano del mese in termini di mese siderale di 27 giorni. Sulla costituzione del mese secondo i Romani rimandiamo a Paolo Galiano e Massimo Vigna, Il tempo di Roma. Gli Dèi e le feste nel calendario di Roma, ed. Simmetria, Roma 2013 p. 11 nota 3.

[4] Georges Dumézil, Mitra-Varuna: essai sur deux représentations indo-européennes de la souveraineté,
vol. 56, Bibliotheque de l'École pratique des hautes études. Sciences religieuses, Presses Universitaires de France, Paris 1940. Il testo è stato più volte ristampato (traduzione italiana: Il Cerchio, Rimini 2024).

[5] Come “Mago” intendo significare la funzione del sovrano indoeuropeo come intermediario fra il Cielo e la Terra, derivante dalle sue caratteristiche ancestrali di re-sciamano.

[6] Sulla possibile esistenza forse alle radici del pensiero religioso latino si veda Paolo Galiano, Feronia e le sue sorelle. Divinità latine delle Acque, ed. Simmetria, Roma 2025, Cap. V “La Coppia divina”.

[7] Ma forse già Roma conosceva una terna di divinità femminili che proteggevano il feto fino alla sua nascita: l’unico dato a favore di questa ipotesi è una citazione di Plinio il Vecchio a proposito di tre statue erette da Tarquinio Prisco nel Comitium e da lui chiamate non Parche ma Sibille. Di questo si dirà più avanti.

[8] Vittore Pisani, Testi latini arcaici e volgari con commento glottologico, ed. Rosenberg e Sellier, Torino 1975, pp. 36-38.

[9] Secondo Giulia Sarullo, Parca Marzia e (Parca?) Morta, in “Alessandria. Rivista di Glottologia” 8 (2014), pp. 159-180, p. 161, il teonimo Maurt- sarebbe conosciuto solo attraverso due reperti epigrafici: il cippo di Tor Tignosa, di cui si dirà più avanti, e un pilastrino a sezione circolare scoperto nel 1842 a Frascati, forse nell’area del sepolcreto della gens Furia, a cui apparteneva l’illustre Marco Furio Camillo, in cui un Furio, forse da identificare con  M. Furius Crassipes pretore nel 187 a.C., fa un offerta a Maurte: M. Furio C. f. tribunos militare Maurte dedet. Sulle dediche di Marco Furio: Paolo Poccetti, Sulle dediche tuscolane del tribuno militare M. Furio, in “Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité”, 94, 2, 1982, pp. 657-674. p. 657 ; doi: 10.3406/mefr.1982.1339; http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/mefr_0223-5102_1982_num_94_2_1339. L’iscrizione è ritenuta per le sue caratteristiche linguistiche un testo del II sec. a.C. esemplata su modelli arcaici, tra cui proprio l’uso del teonimo Maurte, e il fatto che l’offerta di una parte del bottino di guerra poteva essere fatta solo da un tribuno militare che avesse l’imperium, magistratura esistente solo tra il 444 e il 367 a.C. (Poccetti, Sulle dediche tuscolane, p. 668 e p. 671) sembra però far decadere l’identificazione del donatore con il prefetto del 187 e retrodatare l’iscrizione. Comunque il Poccetti non esclude che il donario possa essere un falso (Id, p. 673), mentre secondo l’Epigraphik Datebank Clauss/Slaby s. v. dovrebbe essere datata tra il 230 e il 171.

[10] Framm. 2: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem” (“Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuo­nare”). Cicerone nel De natura Deorum, III 62, 7 interpreta Marte come “Mavors quia magna vertit”, etimologia ripresa nel 1905 dal Kretschmer (Paul Kretschmer, Etymologien. 2. Mavors, Mars, Mamers, in “KZ”, XXXVIII, 1905, pp. 129-134, citato in Sarullo, Parca Marzia e (Parca?) Morta, p. 166), il quale faceva risalire Marte-Mavors dall’unione dei termini *mags e *vors (vertere), in cui *mags = *mages costituirebbe il grado positivo del comparativo magis, cosicché Mavors avrebbe significato di “colui che cambia mediante il potere”, cioè, come spiega la Sarullo, “il dio della ciclicità che governa sia il ciclo della natura, sia il ciclo della vita umana” (p. 167).

[11] Sarullo, Parca Marzia e (Parca?) Morta, p. 168: “La derivazione [di Parca sarebbe] da pariō tramite il suffisso -ik- il quale, tuttavia, solitamente forma aggettivi denominali (cives – civicus); Parca < *Párica si configurerebbe dunque, almeno in origine, come un aggettivo da radice verbale (cfr. medicus da medeor), che avrebbe poi subito una sincope della vocale interna”.

[12] Id., p. 169: “[Oppure] una derivazione da parcō, come ipotizzato da Servio e altri ... come ‘colei che dà poco’ … Sebbene la seconda teoria risulti di più agevole spiegazione dal punto di vista linguistico … essa pone delle difficoltà semantiche e nelle testimonianze relative ad essa non emerge alcun indizio a favore di una simile caratterizzazione della dea … Questa è la teoria dei sostenitori di una originaria funzione di Parca quale dea del destino, dunque come ‘colei che dà poco’, ma appare un poco forzata”.

[13] Servio, ad Aen. I, 22: “Dictae sunt parcae κατά αντίφρασιν, quod nulli parcant, sicut lucus non a lucendo, bellum a nulla re bella”.

[14] Così riferisce Gellio in Noct Att., libro III, 16, 9-11: “Antiquos autem Romanos Varro dicit non recepisse huiuscemodi quasi monstruosas raritates, sed nono mense aut decimo neque praeter hos aliis partionem mulieris secundum naturam fieri existimasse, idcircoque eos nomina Fatis tribus fecisse a pariendo et a nono atque decimo mense. ‘Nam Parca’, inquit, ‘inmutata una littera a partu nominata, item Nona et Decima a partus tempestivi tempore’. Caesellius autem Vindex in lectionibus suis antiquis: ‘Tria’, inquit, ‘nomina Parcarum sunt: Nona, Decuma, Morta, et versum hunc Livii [Andronici], antiquissimi poetae, ponit ex Odyssea: ‘Quando dies adveniet, quem profata Morta est’.

[15] Servio, ad Aen. I, 22: “Volvere Parcas aut a filo traxit ‘volvere’ aut a libro; una enim loquitur, altera scribit, alia filo deducit, et dictae sunt parcae κατά αντίφρασιν, quod nulli parcant, sicut lucus non a lucendo, bellum a nulla re bella. Nomina parcarum sunt Clotho, Lachesis, Atropos”.

[16] Tria fata è un neutro plurale, ma quasi tutti i ricercatori adoperano il nome come un femminile: seguo quest’uso, seguendo quanto scriveva Domizia Lanzetta in La Fortuna e il Fato, anche per il duplice significato di “fata” sia nel significato latino del termine (“colei che ha parlato, profetizzato”), sia nel senso che in italiano si dà alla parola “fata”, la creatura mitica delle favole che aiuta coloro che protegge.

[17] Citato in Micol Perfigli, Indigitamenta. Divinità funzionali e Funzionalità divina nella religione romana, Edizioni ETS, Pisa 2004, p. 65 nota 150.

[18] Perfigli, Indigitamenta, p. 83. Varrone, De lingua latina, VI 52: “Fatur is qui primum homo significabilem ore mittit vocem. Ab eo, antequam ita faciant, pueri dicuntur infantes … quod tunc pueris constituant Parcae fando, dictum fatum et res fatales”.

[19]Vosque, veraces cecinisse Parcae, quod semel dictum est stabilisque rerum terminus servet, bona iam peractis
iungite fata
”.

[20] I Rostra Vetera si trovavano tra la Curia e il Volcanal (Lapis Niger) e vennero rimossi per fare posto al Tempio di Cesare e ricostruiti (Rostra Nova o Iulia) tra il c. d. umbilicus Urbis e l’arco di Settimio Severo.

[21] Plinio il Vecchio, Nat. Hist., XXXIV, 22-23: “Sybillae iuxta rostra non miror, tres sint licet … positas aetate Tarquini Prisci, ni regum antecedentem essent in Capitolio, ex his Romuli et Tatii sine tunica, sicut et Camilli in Rostris”.

[22] Paolo Galiano, Vulcano, il Fuoco generatore, ed. Simmetria, Roma 2024, Cap. IV, “Excursus: il supposto cenotafio di Romolo”).

[23] Sull’argomento rimando a Mario Coarelli, Il Campo Marzio, edizioni Quasar, Roma 1997, Cap. V “Terentum, Trigarium”.

[24] Andrea Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Giulio Einaudi editore, Torino 1997, pp. 377-380.

[25] Così Coarelli, Il Campo Marzio, interpreta le raffigurazioni sulle monete coniate da Diocleziano per i Ludi Saeculares dell’88 d.C.; per la descrizione dei rituali si veda pp. 88-92.

[26] Su questo rito e la comparazione con il corrispondente rituale vedico dell’Ashvamedha rimando a quanto ho scritto nel mese di Ottobre in Il tempo di Roma s. v.

[27] Lawrence Richardson, A new topographical dictionary of Ancient Rome, Johns Hopkins University Press, Baltimore and London 1992, sub voce “Nixae”.

[28] Samuel Platner, Thomas Ashby, A topographical dictionary of ancient Rome, Oxford Universitary Press, Oxford 1929, p. 111 e p. 491.

[29]  Il termine nixa col significato di “inginocchiata” si ritrova ancora nel V sec. d.C. in uno dei poemi della raccolta Romulea di Blossio Emilio Draconzio dedicato a Medea: “Quod iubeat Medea nefas / … / superos impune premit prece nixa uirago”.

[30] Festo: “Dii Nixi appellantur tria signa in Capitolio ante cellam Minervae genibus nixibus, velut praesidentes parentium nixibus. Quae signa sunt qui memoriae prodiderint Antiocho rege Syriae superato Marcum Acilium subtracta a populo Romano adportasse, atque ubi sunt posuisse”, i quali secondo Festo “Nixi Dii appellabantur, quos putabant praesidere parientium nixibus”.

[31] Un’epigrafe proveniente da Como e pubblicata da Ettore Pais nei Supplementa italica del C. I. L. (fasc. I “Gallia Cisalpina”, Roma 1884, p. 99, n° 739), potrebbe riportare il nome di questi Nixi Dii: “[F]ATIS [N]IXIBUS]/ NINIA AETHERIA/ V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO)” (si veda anche Adriano Mattia Cefis, Il culto delle fate nell’antica Roma, https://admaioravertite/2021/01/09>, consultato 03/08/25).

[32] Sui Ludi Saeculares si veda Coarelli, Il Campo Marzio, Cap. VI “I Ludi Saeculares”, pp.100-117. La serie dei Ludi Saeculares a partire da Valerio Publicola fino a Ottaviano August si legge in Censorino, Dies natalis, XVII, 10, riportato da Coarelli p. 103.

[33] Coarelli, Il Campo Marzio, p. 113; l’autore osserva che il rito di Valesius è originato da una malattia dei suoi figli, quindi ha il significato di rito protettivo della procreazione, collegando così Dis Pater con divinità quale le Parche-Moire e le Ilizie.

[34] Il collegamento di Tellus con Dis Pater è costituito dal fatto che ambedue dono divinità ctonie e il nome di Dis Pater significa “Padre della ricchezza”, correlata ai frutti dei campi (da qui la sua assimilazione successiva con Plutone, ploutos, “ricchezza”), così come Tellus è correlata ai campi coltivati.

[35] Cicerone, De natura deorum, II, 66, ritiene che Proserpina sia nome greco, quindi non quello della paredra latino-romana di Dis Pater: “Proserpinam (quod Graecorum nomen est, ea enim est quae Persefonh Graece nominatur) -- quam frugum semen esse volunt absconditamque quaeri a matre fingunt”.

[36] Si ritiene Aerecura/Erecura divinità celtica o illirica, ma, come per altre divinità italiche, persa la conoscenza di essa ne rimane traccia nelle colonie di soldati romani stabilitesi ai confini dell’Impero. Infatti Aerecura era considerata tra i Di Indigetes, e non tra i Di Novensides, aggiunti ai più antichi Dèi romani in tempi più recenti.

[37] Orazio, Carmen saeculare: “Rite maturos aperire partus / lenis, Ilithyia, tuere matres … Diva, producas subolem patrumque / prosperes decreta super iugandis / feminis prolisque novae feraci / lege marita”.

[38] Stefano De Angeli. Problemi di iconografia romana: dalle Moire alle Parche, Mélanges de l'École Française de Rome, Antiquité,103 (1991), pp. 105-128 (doi: https://doi.org/10.3406/mefr.1991.1704 ; https://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1991_num_103_1_1704, in seguito parte del testo sulle Moire in Id., Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Artemis Verlag, Zurigo-Monaco  1992, vol. VI 1, pp. 636-648).

[39] Da notare come in alcuni sarcofagi, in genere raffiguranti il mito di Meleagro, la Parca sia una sola (esempi in De An De Angeli. Problemi di iconografia romana, p. 128).

geli. Problemi di iconografia romana, pp. 122-124).

[40] De Angeli. Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, VI 1, VI,1, p. 647.

[41] De Angeli. Problemi di iconografia romana, p. 128.

[42] Il nome di “Tignosa” è deformazione del nome della famiglia che la possedeva nel Medioevo, i Tineosi.

[43] Margherita Guarducci, Scritti scelti sulla religione greca e romana e sul cristianesimo, Brill, Leiden 1983, pp. 198-214, in particolare sui ritrovamenti p. 208 e pp. 213-214.

[44] Il rapporto del santuario di Tor Tignosa con una fonte solforosa ricorda il culto prestato a Mefite, divinità degli Osci e dei Sanniti, Dèa delle acque sulfuree, anch’essa salutifera e profetica e forse paredra di Marte (proprio come Parca) (vedi Galiano, Feronia e le sue sorelle, Cap. I, paragrafo “Mefite).

[45] Claudia Castagnoli, Zaccaria Mari, Relazione, in Dichiarazione di notevole interesse pubblico Pomezia-Ardea, per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’area metropolitana di Roma, Aprile 2017, p. 11. L’Albunea della Solforata va tenuta distinta dalla sorgente di eguale nome presso Tibur, nome con cui veniva chiamata indicare la ninfa che vi aveva sede, forse da identificare con la Sibilla Tiburtina, dotata di facoltà profetiche.

[46] Per l’area di culto e i sepolcreti della zona di Santa Palomba oltre a Castagnoli e Mari si veda Leonardo Schifi, Acque e luoghi di culto a Santa Palomba (Roma). Il santuario arcaico IBM-Simea, in “Memorie Descrittive Carta Geologica d’Italia”, 107, 2020, pp. 195-206.

[47] Arduino Maiuri, L’equipaggiamento saliare tra funzionalità estetica e simbologia sacrale, in Abiti, corpi, identità. Significati e valenze profonde del vestire (a cura di Sergio Botta), Società Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 149-168, in particolare p. 158, dove l’autore nota come gli ancili cessarono di essere adoperati come armi da guerra nel XV-XIII sec. a.C., divenendo oggetti di uso cultuale, per cui “è stata acutamente avanzata l’ipotesi di una ‘metallizzazione’ dell’arma nell’Età del Bronzo, dopo la sua originaria assunzione allo stato ligneo nell’equipaggiamento da difesa centro-italico” (il Maiuri pone tra i guerrieri che adoperavano gli ancili gli Ernici, popolazione stanziata a oriente delle zona di cui si sta trattando).

[48] Schifi, Acque e luoghi di culto, pp. 196-198, il quale le data tra IV e III sec. a.C.

[49] Franco Arietti (a cura di), Gli scavi di Santa Palomba, Osservatorio dei Colli Albani per l’archeologia e l’ambiente (https://www.osservatoriocollialbani.it/2017/05/25/video-intervista-a-franco-arietti/): “Un dato molto interessante che ha fornito Santa Palomba è quello relativo alle piccole abitazioni di età arcaica (VI sec. a.C.) e medio repubblicana, rinvenute nell’area in posizione del tutto isolata tra loro … Nello spazio compreso tra le varie strade, quindi nelle ampie zone interne, non si sono mai trovate tracce di case, segno evidente che la vita si svolgeva prevalentemente ai margini delle strade, dove sono state trovate anche tombe o aree sacre agresti postulate dalla presenza di statuette votive in ceramica”.

[50] Il ritrovamento è stato pubblicato per la prima volta da Margherita Guarducci, in “Bull. Com.”, 1946-48 e “Append. Bull. Com.”, 76, 1956-58. Il nome di Albunea è anche riferito alle sorgenti solforose presso Tivoli (Acque Albule) e alla ninfa che le presiede.

[51] La forma piramidale dei cippi può essere accostata al cippo sotto il Lapis Niger nel Volcanal (Alessandro Morandi, Testimonianze epigrafiche della più antica Roma, “Studi romani”, 49, 1-2, 2001, pp. 5-26, p. 9).

[52] Guarducci, Scritti scelti, p. 214.

[53] Maria Grazia Granino Ceceri, Epigrafia dei santuari rurali del Latium vetus, in “Melanges de l’Ecole Française de Rome – Antiquité”, 104, 1, 1992 p. 127, la quale fa risalire il sito, sulla base degli ex voto ritrovati, al V sec. a.C., oggi invece posticipati da La Regina al III sec. a.C. La Guarducci invece riporta le prove dell’esistenza di un tempio (Guarducci, Scritti scelti, p. 208), ed è stato segnalato un recente ritrovamento di un frammento di altare del tipo ad ante, databile al V sec. a.C. in un casale nella zona dove esisteva la città latina di Apiolae (ora localizzata a Monte Savello o Castel Savello), distrutta da Tarquinio Prisco (Fabio Giorgio Cavallaro, Arae sacrae, L’Erma di Bretschneider, Roma 2018, p. 4), ma non vi sono elementi per riferirlo al culto di Fauno o all’area di Tor Tignosa. Apiolae, situata tra Albano e Santa Palomba, era situata era sede di un culto di Juturna, l’antica divinità delle acque cui era dedicato presso Monte Savello la fons Juturnae, (oggi corrispondente alla sorgente di Secciano e al laghetto di Pavona) e a Roma il lacus Juturnae.

[54] Castagnoli, Mari, Relazione, p. 10.

[55] Guarducci, Scritti scelti, p. 206.

[56] Guarducci, Scritti scelti, p. 205.

[57] Adriano La Regina, Dedica ai Lari non al Lare Aineia (CIL 2843), in “Epigraphica”, 56 1-2 (2014, pp. 433-436.

[58] Mario Torelli, Lavinio e Roma, ed. Quasar, Roma 1984, p. 181 nota 104, seguito da altri autori.

[59] Reiner Lipp, Neuna Fata. La filatrice del destino caduta in oblio, in Studia archaeologica. Forme e strutture della religione nell’Italia mediana antica. III Convegno internazionale dell’Istituto di Ricerche e Documentazione sugli Antichi Umbri, L’Erma di Bretschneider, Roma 2016, pp. 429-444.

[60] Lipp, Neuna Fata, in particolare pp. 434-435.

[61] L’Edda. Carmi norreni, trad. C. A. Mastrelli, ed. Sansoni, Firenze 1982.

[62] Lipp, Neuna Fata, p. 434.

[63] Lipp, Neuna Fata, p. 437.

[64] Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Boringhieri, Torino 1976, pp. 92-93.

[65] Poccetti, Sulle dediche tuscolane, p. 668.

[66] Secondo Tertulliano, il quale non dà né il loro numero né i nomi, sono divinità che assistono all’imposizione del nome del neonato: “Omnes idololatria obstetrice nascuntur, dum per totam hendomadem Iunoni mensa porponitur, in ultima die Fata Scribunda advocantur” (Tertulliano, De anima, 39, 2). Questa è l’unica citazione del nome dei Fata Scribunda (Jan Breemer, Jan Hendrick Waszink, Fata Scribunda, in “Mnemosyne”, 13, 4, 1947, pp. 254-270. p. 254).

[67] Come dimostra la presenza nelle tombe di oggetti riferiti a guerrieri (spada, scudi da battaglia, ancilia rituali, carri da guerra) e sacerdoti (coltelli per il sacrificio). Si veda Arietti (a cura di), Gli scavi di Santa Palomba.

[68] Argomento che costituisce il tema del citato Galiano, Feronia e le sue sorelle.

[69] Arietti (a cura di), Gli scavi di Santa Palomba.

[70] Carandini, La nascita di Roma.

[71] Guarducci, Scritti scelti, p. 212.

[72] Castagnoli, Mari, Relazione, pp. 11-13.

 

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