UN PITTORE ERMETICO DEL ‘500: MARCO BIGIO E “LE TRE PARCHE”
Paolo Galiano
Marco Bigio fu pittore senese del XVI sec., attivo tra il 1523 e il 1550 allievo di Giovanni Bazzi detto il Sodoma, secondo il Vasari per le sue abitudini sessuali; la sua vita è poco conosciuta, un brevissimo accenno in un testo di metà ‘800 lo descrive come “nominato tra gli artisti più celebri suoi contemporanei e concittadini”[1].
Fig. 1
Marco Bigio, Le tre Parche, ca. 1530-1540, Pinacoteca Palazzo Barberini, Roma (da Wikimedia Commons, pubblico dominio).
Tra i dipinti del Bigio (sicuramente suoi o a lui attribuiti) due sono particolarmente interessanti per una possibile lettura su più livelli: Le tre Parche (ca. 1530-1540, Palazzo Barberini, Roma) FIG. 1 e Venere, o Le tre età della donna (ca. 1545, Pinacoteca Nazionale di Siena) FIG. 2.
Fig. 2
Marco Bigio: Venere con figure allegoriche, o Le tre età della donna, ca. 1545, Pinacoteca Nazionale di Siena (autore: Saliko, non modificata; Creative Commons Attribution Share Alike 4.0 International license – su concessione dei Musei Nazionali di Siena).
Ambedue le tele sono ricche di elementi allegorici confacentisi al periodo in cui vennero dipinte, nel quale si andava diffondendo la riscoperta del patrimonio letterario, religioso e sapienziale degli Antichi: si pensi alla scoperta del c. d. Corpus Hermeticum e alla traduzione e commento di Marsilio Ficino e della sua cerchia, o all’accostamento della Qabalah al pensiero cristiano operato dal cardinale Egidio da Viterbo o infine al recupero della storia e dei rituali di Roma con l’Accademia Romana di Pomponio Leto. Ma questi dipinti del Bigio sono soltanto allegorici o hanno un significato più profondo, che si lega al simbolismo dell’Ermetismo e dell’Alchimia, discipline che tra la fine del XV e il XVI secolo erano state rese manifeste in Italia grazie all’Accademia Neoplatonica di Firenze e a personaggi quali il pontefice Paolo III (Alessandro Farnese il Vecchio) e il nipote Alessandro il Giovane con la sua cerchia di cardinali, nobili e artisti?
Ritengo che una tale ipotesi sia proponibile e cercherò di illustrarla con un esame del primo dipinto, ricco di complessi significati non sempre di facile interpretazione.
Le figure rappresentate nel quadro possono posso essere divise in tre gruppi, ognuno avente al centro una delle tre Parche, raffigurate insolitamente con le forme aggraziate di belle donne più o meno poco vestite. Noto per inciso che le Parche ritratte dal Bigio sono esemplate, secondo la tarda interpretazione romana[2], non sulle divinità originali ma sull’identificazione con le Moire greche, differenti da quelle romane per significato e gesti (le Moire filano i destini, le Parche li “cantano” – sono anche chiamate le Tria Fata – leggendoli nelle stelle e scrivendoli su di un volumen o un rotolo).
A sinistra vi è Lachesi (che di norma nella triade delle Parche è invece posta al centro), la quale avvolge un rotolo filo di rosso sulla conocchia; dietro di lei uno scheletro con la falce, a sinistra due cigni candidi, sulle sponde di un fiume si intravede un soggetto con un bastone in mano, forse la divinità del fiume che scorre alle spalle di Lachesi, e due piccoli uccelli posati sull’infiorescenza di una tifa o giunco palustre; sullo sfondo un albero frondoso e in alto a sinistra un palazzo a cui si accede con una scalinata, una colonna isolata, forse con capitello corinzio, dietro la quale si vedono le rovine di un monumento, che potrebbe ricordare il Colosseo.
Al centro Atropo, la più anziana delle tre Parche secondo il mito (la quale nel quadro è infatti la più vestita rispetto alle altre due) con le forbici per tagliare il filo, sullo sfondo un albero secco e altre immagini: dietro Atropo a sinistra una donna negra con ricchi monili insieme a un coniglio o una lepre e un levriero, a sinistra un uomo anziano con una clessidra nella mano destra, il quale regge in un lembo della veste alcuni dischi di vario colore (forse metalli identificabili come piombo, argento e oro?); ai piedi di Atropo due putti giocano con dischi simili a quelli tenuti dall’anziano.
A destra Cloto, la più giovane, ha in mano il fuso con cui intreccia un filo bianco, in basso a sinistra un Eros alato punta il suo arco contro l’uomo anziano, dietro a destra una figura di donna vestita con un peplo che con la mano destra regge qualcosa (uno scudo istoriato?) di cui si vede solo una parte.
Il significato letterale e allegorico del quadro è chiaro, ma è forse possibile esaminarlo da un altro punto di vista, secondo una precisa interpretazione metafisica che farebbe del Bigio un rappresentante di quell’Ermetismo “per immagini” che nel suo secolo andava sempre più prendendo forma. E, se così fosse, secondo quale direzione andrebbe letto?
Il senso di lettura è difficile da stabilire per l’anomalia della distribuzione delle tre Parche, le quali non seguono l’ordine descritto nel mito, dalla più giovane, Cloto, alla più anziana, Atropo: il pittore pone al centro Atropo (la Parca della morte) che taglia il filo della vita dell’uomo intrecciato da Cloto (la nascita, ma come si dirà anche ri-nascita) e avvolto da Lachesi (la pienezza della maturità, o meglio il compimento). Data la disposizione delle figure si dovrebbe scegliere se leggere il dipinto da sinistra verso destra, cioè a partire da Lachesi, o al contrario da destra verso sinistra, cominciando con la figura di Cloto: secondo me invece il senso di lettura inizia dalla figura centrale di Atropo in direzione prima di Cloto a destra e poi di Lachesi a sinistra.
Seguendo quest’ordine il dipinto diviene la sintesi di un trattato ermetico per immagini: l’artifizio pittorico di Marco Bigio sembra porre al centro del dipinto la morte come momento dominante, ma la disposizione circolare delle figure lascia intendere che il significato dell’opera non è “morte” bensì “rinascita”, perché si muore, si ri-nasce e si giunge al compimento spirituale attraverso la morte al mondo fisico e materiale.
Fig. 3
Aurora consurgens (attribuita a Tommaso d’Aquino): l’Androgine con il pipistrello
nella mano destra e la lepre nella sinistra (Zurigo, Zentrlbibliotek, ms Rh 172, guardia anteriore, riproduzione da Jacques van Lennep, Alchimia, Edizioni Mediterranee, Roma 2020, con l’autorizzazione della Casa editrice).
Atropo è colei che decide il momento stabilito per la morte di ciascun essere umano tagliando il filo della sua vita, l’albero secco dietro di lei ne costituisce l’emblema, sottolineato dalla altre figure, la donna negra (il nero come colore della morte) accompagnata da due animali, la lepre FIG. 3 e il levriero FIG. 4, simboli della velocità e, in questo caso, della caducità dell’esistenza[3], e il Tempo, l’anziano con la clessidra e i dischi nel lembo della veste di diversi materiali, nei quali alcuni vedono “monete di diversi metalli su cui sono incisi i nomi dei mortali”, rifacendosi a un passo dell’Orlando furioso[4].
Fig. 4
San Cristoforo con il piccolo Gesù sulla spalla sinistra accompagna un vescovo (icona DEL ‘700, Ikonen-Museum, Recklinghausen, Deutschland): Cristoforo è cinocefalo, immagine frequente nelle icone dell’Europa orientale del XVIII-XIX sec..
In quanto “gettate in terra” queste monete potrebbero essere segno della “dissipazione delle forze”, dello spreco delle capacità dell’uomo, raffigurate nel simbolismo dei tre metalli di cui sono fatte, che al momento della morte andranno definitivamente perdute se non sono state indirizzate nel modo dovuto. I colori dei dischi: il nero del piombo, il bianco dell’argento e il giallo dell’oro, potrebbero anche essere letti in un significato alchemico come simboli delle tre componenti dell’essere umano, corpo, psiche e spirito.
La “morte” rappresentata dall’immagine dello scheletro è figurazione del superamento del piano terreno per ascendere ai livelli superiori dell’essere: il segno è il passaggio da Atropo a Cloto, la quale attorce col fuso il filo bianco simboleggiante la nascita che è ri-nascita, protetta dal piccolo Eros alato che tiene a bada con il suo arco il Tempo, e la nudità di Cloto potrebbe significare la nudità rituale del nuovo uomo che ora viene in vita. Non chiara la figura femminile dietro Cloto, a meno che non si voglia identificarla con Nemesi, la Dèa della Giustizia (in questo caso della giusta distribuzione dei destini), come si vede su di un sarcofago dell’ultimo quarto del II sec. d.C. trovato a Villa Pamphilij[5] FIG. 5, il che vorrebbe dire che, durante il suo soggiorno romano nel quale lavorò con il Sodoma, Marco Bigio ebbe modo di interessarsi alle antichità romane che stavano ritornando alla luce.
Fig. 5
Sarcofago del II sec. d.C., Villa Doria Pamphilij, Roma: nella parte sinistra della fronte del sarcofago si vede la puerpera seduta a cui la nutrice presenta il neonato, dietro di lei le tre Parche e una figura femminile interpretata come Nemesi, Dèa della Giustizia. Date le cattive condizioni di conservazione del marmo non è certo quali siano gli oggetti portati dalle prime due Parche, è solo possibile distinguere un rotolo tenuto in mano dalla terza figura. (Margherita Bonanno, in AA. VV., Antichità di Villa Doria Pamphilij, tav. 160, citata da Stefano De Angeli, Problemi di iconografia romana: dalle Moire alle Parche, in “Mélanges de l'École Française de Rome”, 128, Antiquité, 103, 1. 1991. pp. 105-128 - doi: https://doi.org/10.3406/mefr.1991.1704, https://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1991_num_103_1_1704).
Lachesi, forse la figura più complessa del dipinto, è rappresentata nell’atto di avvolgere sulla conocchia il filo che ora è di colore rosso, il colore della vita, con cui contrasta lo scheletro che si trova dietro di lei ma sotto un albero frondoso e non più secco come quello che accompagna Atropo. Alla destra di Lachesi scorrono le acque di un fiume, segno della purificazione necessaria per “attraversare le acque” e giungere alla scalinata che conduce al palazzo che si vede sulla collina, sul quale s’innalza una colonna (l’axis mundi?). Le rovine dietro il palazzo potrebbero indicare che questo rituale di ri-nascita simboleggiato nell’azione delle Parche ha la sua origine nella sapienza degli Antichi.
Fig. 6
Statua di Tiberinus (marmo, età adrianea; Roma, ora al Louvre): la statua, rinvenuta nel 1512 nell’area dell’Iseo di Campo Marzio, potrebbe aver ispirato la figura della supposta divinità fluviale alla destra di Lachesi nel dipinto del Bigio (Wikimedia Commons, pubblico dominio).
La figura di spalle alla destra di Lachesi, forse una divinità fluviale con un bastone in mano, dimostrerebbe ulteriormente la conoscenza e l’interesse di Marco Bigio per le antichità romane: nel 1512 era stata riportata alla luce la statua colossale in marmo di Tiberinus trovata tra S. Maria sopra Minerva e S. Stefano del Cacco nella zona dell’Iseo di Campo Marzio, ora al Louvre FIG. 6: la statua ha in mano un remo che potrebbe essere stato interpretato come un bastone, e così infatti tre secoli più tardi lo disegnò il Pinelli nell’incisione raffigurante Tiberino ed Enea FIG. 7.
Fig. 7
Nell’VIII libro dell’Eneide Virgilio descrive la predizione ricevuta da Enea durante il sonno da Tiberinus circa la scrofa gravida simboleggiante i trenta anni dopo i quali il figlio Ascanio fonderà Albalonga: nell’immagine del Pinelli il Dio porta un bastone nella mano sinistra (Bartolomeo Pinelli, acquaforte, da Istorie romane. Presso Vincenzo Poggioli stampatore. Roma 1821).
Se si vede l’opera in quest’ottica, si nota altresì come ciascuna delle Parche presenta un duplice simbolismo che potrebbe essere ricondotto alle tre fasi alchemiche: Cloto fila il filo bianco della conocchia simboleggiante l’albedo ed ha accanto a sé Eros, l’Amore-Fuoco della rubedo; Atropo recide il filo, simbolo della morte e della nigredo (simbolismo accentuato dalla presenza di Cronos e della schiava nera, dalla lepre, simbolo della caducità della vita, dal cane, animale ctonico, e dall’albero secco), mentre i due putti che giocano ai suoi piedi con monete o dischi di tre metalli potrebbero rappresentare il superamento del coinvolgimento nel materiale e contemporaneamente il ludus puerorum, il compimento dell’Opera, riassunto in Lachesi, la quale riunisce i simboli della nigredo (lo scheletro), dell’albedo (i cigni bianchi) e della rubedo (il filo rosso che avvolge sul fuso) come rinascita, dando accesso a un piano di esistenza superiore, la scalinata che conduce al palazzo e all’antica origine di questa sapienza indicata dalle rovine monumentali dell’antica Roma.
[1] Filippo De Boni, Biografie degli artisti, Tipografia Il Gondoliere, Venezia 1840, p. 105.
[2] Sulla differenza tra Parche romane e Moire greche imando a Paolo Galiano, Parca Marzia, Dèa della profezia, pubblicato sul sito della Fondazione Lanzi.
[3] Ambedue gli animali sono, come devono essere i veri simboli, ambivalenti: la lepre è simbolo di velocità ma anche di sessualità sfrenata (in Alchimia è immagine del servus fugitivus, il Mercurio non fissato, ed è rappresentata ad esempio nell’incisione dell’Androgine dell’Aurora consurgens sulla guardia anteriore del ms Rh 172 del XIII sec. della Zentralbibliotek di Zurigo (da Jacques van Lennep, Alchimia, Edizioni Mediterranee, Roma 2020, con l’autorizzazione della Casa editrice); il cane è simbolo di fedeltà, è la guida nell’Oltretomba (come Anubis in Egitto; nel cristianesimo dell’Europa orientale San Cristoforo, compagno e protettore del Gesù Bambino, a volte raffigurato con test di cane, come si vede in un’icona del XVIII sec. del Museo delle Icone di Recklinghausen) e contemporaneamente considerato animale sporco e impuro (a Roma era proibito che i cani entrassero nel temenos dell’Ara Maxima), e in Alchimia sarebbe simbolo dell’Oro (Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano 2002, vol. I p. 191).
[4] Sergio Rossi, Pittura e alchimia: le “Tre parche” di Sodoma e Marco Bigio in palazzo Barberini, Roma 2020, in www.academia.edu, consultato 12/08/2025.
[5] Margherita Bonanno, in AA. VV., Antichità di Villa Doria Pamphilij, Editore De Luca, Roma 1977, tav. 160, citato in Stefano De Angeli, Problemi di iconografia romana: dalle Moire alle Parche, in “Mélanges de l'École française de Rome, Antiquité”, 103, 1, 1991, pp. 105-128, doi: ttps://doi.org/10.3406/mefr.1991.1704, https://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1991_num_103_1_1704, p. 115 nota 51.