L'Elogio del Nulla - (di E.Albrile)

Elemento essenziale dei vari sistemi gnostici è l’atteggiamento ribelle verso il Dio dell’Antico Testamento, il Dio creatore del mondo, che gli Gnōstikoi considerano luogo di prigionia, corruzione e morte. Una tale condotta, che necessariamente coinvolge l’intera ierostoria veterotestamentaria, si presenta con notevole gamma di sfumature da un sistema all’altro: specifice correnti riconducibili al pensiero gnostico valentiniano distinguono fra un Dio dell’Antico Testamento, considerato come un Demiurgo ignorante ed omicida, e un Dio supremo, trascendente e inconoscibile. Mentre in altre cerchie gnostiche l’opposizione al Dio dell’Antico Testamento si radicalizza al punto da dare valutazione positiva e massima valorizzazione a personaggi che nella Bibbia vengono rappresentati come nemici di Dio. È il “rovesciamento” dell’esegesi veterotestamentaria che, per esempio, nel caso dei Cainiti di cui parla Ireneo di Lione (Adv. haer. I, 31, 1) assume aspetti paradossali: essi infatti tenevano in gran conto e veneravano personaggi apparentemente negativi come Caino, Esaù e gli abitanti di Sodoma. In tale ordine di idee è importante rilevare la funzione egemone svolta dal Serpente, il corruttore di Adamo ed Eva. Da lui traggono nome gli Ofiti (dal greco ophis, “serpente”), che lo venerano quale elargitore agli uomini della gnōsis, la “conoscenza” del Bene e del Male, della Luce e della Tenebra, che il Dio dell’Antico Testamento aveva vietato alla coppia primordiale. La sua potenza era stata manifestata da Mosè nel deserto, nell’episodio del serpente di bronzo in Numeri 21, 4-9 e riconosciuta dallo stesso Gesù (cfr. Giov. 3, 14; ed anche Ps. Tertulliano, Adv. omn. haer. 2).

1. La gnosi serpentiforme

Per spiegare la grande fortuna del Serpente nella speculazione gnostica non basta l’atteggiamento polemico nei confronti dell’Antico Testamento, ma si devono anche considerare la grande importanza e la fondamentale funzione rivestite da questo animale in molteplici aspetti della religiosità antica, quale tipico animale ctonio, quindi anche immagine e simbolo della forza generatrice della natura: animale profetico, connesso con l’oracolo di Delfi, e quindi ritenuto spirituale per eccellenza; animale insieme dei morti e della costellazione celeste, è considerato inoltre personificazione della linea che congiunge i nodi lunari, nella forma dell’Ouroboros, il Drago cosmico che inghiotte la propria coda. Non meraviglia quindi trovarlo tra gli gnostici Naasseni (dall’ebraico naḥash, “serpente”) come simbolo della materia umida primordiale e perciò identificato da qualcuno addirittura con il Primogenito divino (cfr. Hpp. Ref. V, 9, 13). Ciò comunque non toglie che, là dove la dottrina gnostica è particolarmente vicina alle concezioni giudaiche e cristiane, anche il Serpente assuma aspetto e valutazione negative.

Sotto il nome di Ofiti, Naasseni, Perati e altre sette ascrivibili alla cosiddetta “gnosi sethiana”, gli antichi eresiologi ci hanno dato notizia di sistemi gnostici in cui la componente del Serpente s’inserisce in contesti che, quanto alla struttura mitica dell’insieme, possono variare notevolmente l’uno dall’altro. Infatti, fermo restando il fondamentale schema che distingue il principio assolutamente trascendente, cioè il theos agnostos, da uno inferiore che assicura il collegamento fra il principio superiore e il mondo, i particolari che presentano e spiegano la caduta di questo secondo principio nel mondo, il suo imprigionamento nella materia oscura e caotica e la definitiva liberazione sono presentati in forme anche notevolmente diverse da caso a caso.

Tra le varie testimonianze sulla gnosi degli Ofiti e dei Naasseni che gli antichi eresiologi ci hanno trasmesso è importante menzionare quella del presunto Ippolito di Roma nella sua Refutatio, un tempo conosciuta come Philosophumena. In essa il prodigioso eresiologo riporta, sia citando letteralmente sia parafrasando e riassumendo, un lungo passo da un testo molto importante per molteplici aspetti. Il mito che sottostà a questo documento presenta notevoli influssi provenienti da un’area religiosa molto vasta che va dal mondo mediterraneo a quello medio-orientale. Vediamone in breve i tratti salienti.

Al mondo divino, pleromatico, costituito dal Padre del Tutto, Adamas, Uomo perfetto e primordiale, e da suo figlio, a lui somigliante e anche lui detto Uomo primordiale (=Archanthrōpos), si contrappone nel mondo sottostante il Demiurgo omicida Esaldaios, il “dio di fuoco quarto di numero”, che con la sua coorte angelica (cioè le potenze cosmiche) confeziona un uomo, Adamo, ad imitazione dell’Uomo primordiale. Ma Adamo giace a terra immobile, privo di movimento e di vita. Il Figlio del Padre del tutto, che è la psychē, l’Anima universale, scende dall’alto a vivificarlo, ma il corpo umano si trasforma ben presto per lui in una prigione dalla quale non può uscire e che gli fa dimenticare la propria origine celeste. La generazione corporea, da Adamo in poi, provoca il frazionarsi dell’Uomo primordiale (= Anima) in tutti gli uomini: la ricomposizione, il ripristino della condizione iniziale, avverrà per opera del Logos divino soltanto quando l’intera umanità per mezzo della gnosi avrà acquistato coscienza della scintilla divina, la particella luminosa celata nell’involucro somatico, permettendone quindi la liberazione.

Lo scopo specifico che si è posto l’autore di questo intricato testo gnostico non è stato però tanto quello di raccontare questo mito, quanto di dimostrare come l’idea dell’Uomo primordiale e della sua catabasi, della sua discesa nel mondo, è presente, anche se in forma obnubilata ed incosciente, nei miti e nelle credenze religiose dei più svariati popoli. Abbiamo perciò nel nostro scritto una cospicua rassegna comparativa ante litteram, che spazia dalla Grecia alla Frigia all’Assiria all’Egitto, mostrando come alla base dei vari miti e delle varie divinità onorate con nomi così diversi ci sia sempre il medesimo uniforme concetto: quello dell’Archantrōpos luminoso intrappolato nella hylē oscura. Il frequente ricorso ad accostamenti fondati su presunte etimologie dei nomi sacri permette di avvicinare fra loro entità quanto mai disparate e perciò di dimostrare questo assunto. Ad elementi tratti dalle mitologie dei vari popoli si aggiungono infine citazioni di poeti e scrittori antichi ed in parte rilevante passi estrapolati dall’Antico e dal Nuovo Testamento.

2. Quali origini?

La valutazione che gli studiosi hanno dato e danno di questo testo è quanto mai variegata. Alcuni, tra cui uno dei massimi esponenti della religionsgeschichtliche Schule Richard Reitzenstein (1861-1931), erano convinti che esso derivasse dalla sovrapposizione di vari strati redazionali successivi: a un fondo originariamente quasi unicamente pagano si sarebbe sovrapposta una stratificazione giudaica, successivamente integrata da interpolazioni cristiane. In tal modo, se si libera il nostro scritto da tutto ciò che in esso vi è di giudaico e di cristiano, si riconquista la redazione originaria, preziosa testimonianza di un sincretismo gnostico immune da influenze giudaico-cristiane e addirittura precristiano. Altri obiettano che tale ricostruzione pecca di eccessivo ottimismo, sostenendo che non esiste la minima prova che lo scritto naasseno (conosciuto anche come “Predica dei Naasseni”) sia mai esistito in quella redazione originaria che Reitzenstein ed i suoi seguaci postulano. Anzi si può dimostrare come gli elementi giudaici siano così strettamente compaginati col testo attuale da non poterne essere separati senza profonda alterazione. Lo stesso Reitzenstein se n’è convinto in un secondo tempo. Ciò non toglie però che nel nostro testo esiste un profondo iato tra materiale giudeo-pagano e materiale cristiano, a tal punto che non si può dubitare che lo scritto sia stato “cristianizzato” in un secondo tempo. In definitiva il materiale più arcaico andrebbe rivisto in una prospettiva storico-religiosa più ampia, tesa a discernere gli elementi sincretistici mediterranei ed iranico-mesopotamici fusi in una sfera religiosa molto particolare quale è quella della gnosi di area giudeo-aramaica: è infatti nella koiné culturale e linguistica aramaico-mesopotamica che vanno in parte ricercate le origini del fenomeno gnostico – un esempio è rintracciabile nella gnosi dei Mandei.

Ippolito, quasi di seguito a questo scritto, riporta un inno in anapesti in uso fra i Naasseni: il testo non è sempre intelligibile ed in più punti sembra corrotto; comunque il senso generale del brano è abbastanza esplicito nel presentare la contrapposizione di due principi, uno in alto, il Nous principio maschile, e uno in basso, il Caos il principio femminile. Fra i due si dispiega l’Anima in parte legata al Nous, ma in parte mescolata con la hylē. Per liberarla dai vincoli mondani scende dal cielo Gesù a recarle la gnosi salvifica. È opinione diffusa tra gli studiosi che questo scritto rappresenti una fase molto arcaica della gnosi naassena.

Ancora Ippolito confuta, e quindi rende paradossalmente accessibile ad un più vasto pubblico, il cosiddetto “Libro di Baruch” dello gnostico Giustino, sconosciuto in altre fonti. Il tradizionale schema dualistico è alterato solo in apparenza: c’è un principio trascendente, il Bene (Agathos); un secondo principio a lui inferiore Padre del tutto (= Elohim); ed un principio femminile ancora inferiore. Edem (= Terra), per metà donna e per metà animale a designare la dualità della propria natura.

Elohim si unisce con Edem e fra i vari frutti del loro amore essi creano l’uomo, che Elohim fornisce di spirito ed Edem di anima: Adamo è quindi una singolare mescolanza in cui la parte luminosa e divina deriva da Elohim, mentre la parte psichica e somatica proviene da Edem. In seguito Elohim risale al Bene, il primo principio, ed Edem, smarrita la speranza di riaverlo a sé, scatena i suoi Angeli: tra questi un ruolo preponderante è svolto da Naas, eponimo del Serpente, il quale si accanisce contro il mondo ed in particolare contro l’uomo, per opprimere cosi là parte di Elohim, cioè lo pneuma, lo “spirito” che dimora in ogni essere umano. Un Angelo di Elohim, Baruch, invia una serie di redentori (Mosè, i Profeti, Eracle) per liberare lo spirito di Elohim racchiuso nell’uomo, ma tutti falliscono nell’intento poiché ingannati e sopraffatti da Naas. Soltanto Gesù, tramite la crocefissione ordita da Naas, riesce a separare lo spirito dall’involucro psichico e somatico, permettendone il ritorno nel mondo luminoso di Elohim, cioè il Bene.
Questo mito, che Ippolito fa derivare dall’interpretazione di una narrazione favolistica di Erodoto (4, 8-10) assemblata con elementi giudaici e cristiani, presenta caratteri di omogeneità e coerenza non facili da rintracciare in altri sistemi gnostici. Oltre l’evidente apporto del sincretismo, si coglie anche la tendenza a spiegare in chiave unitaria la multiforme vicenda dell’uomo oppresso da mali di ogni sorta (calamità naturali, malattie, adulterî, divorzi) quale riflesso della lotta cosmica fra Elohim ed Edem, innestando armonicamente nel complesso mitico e cultuale anche le tradizionali credenze astrologiche. È importante sottolineare come il “Libro di Baruch”, pur collocato nella fondamentale prospettiva gnostica, presenti rispetto agli usuali schemi ontologici, variazioni non trascurabili, soprattutto nella valutazione necessaria e necessitante del rapporto tra il peccato, la caduta, e la creazione. In tale dimensione cosmologica e antropologica andrebbe quindi approfondita la tipologia della gnosi quale conoscenza che si manifesta come sapere riguardante l’origine dell’io spirituale, la causa primordiale del suo imprigionamento nel mondo delle tenebre e la risalita salvifica alla patria originaria, il plērōma celeste.

È dunque riduttivo applicare allo gnosticismo categorie quali “ottimismo” e “pessimismo”. Dire che per lo gnostico, la condizione umana non sarebbe solo intollerabile, ma abnorme tanto da condannarlo all’impotenza e all’infelicità, è annacquare lo gnosticismo come ha fatto Hans Jonas in ricorrenti rapimenti esistenziali. Alla spontaneità della vita fa sempre da contrappunto la fragilità della storia. L’inferno sono gli altri, direbbe l’autore de La nausea. Ciò che rimane è l’angoscia della storia, non la condanna della vita e del mondo tutto. Per essere precisi, sono quei saperi come le sorveglianze carcerarie, la regolamentazione paternalistica della sessualità, le stimmate di anormalità e altre congerie che per Foucault costituivano e costituiscono la trama cupa della nostra esperienza. Al contrario, sia nella gnosi e poi del millenarismo marxista-leninista emerge la figura carismatica del rivoluzionario che conosce i destini della storia e che pur emarginato non si sente tale. Gli gnostici non sono dei disperati e la ribellione gnostica è ancora da compiersi.

3. La forma del mito

La struttura primaria del mito gnostico forma infatti un dualismo, che presenta sostanzialmente due aspetti: Nel primo c’è un dualismo fra la divinità buona, ipercosmica, spirituale, con il suo regno (il plērōma) ed i suoi esseri luminosi (gli eoni) da una parte, mentre dall’altra c’è il creatore del mondo, il Demiurgo omicida, inferiore e privo di conoscenza, i suoi Arconti (le entità astrali e planetarie, i Principati e le Potestà), la materia (la hylē), il cosmo e l’heimarmenē, il fato a cui è vincolato l’uomo. Nello gnosticismo la distinzione tra la divinità, che sta al polo supremo del reale, ed il Demiurgo, che sta a quello inferiore e antitetico, è sempre essenziale, anche se questo Demiurgo, dai tratti omicidi, viene giudicato in modo diverso a seconda dei vari sistemi. Talvolta, come s’è visto per la gnosi degli Ofiti, egli viene presentato in veste più o meno cattiva, ignorante ed avverso al Dio ineffabile, tal altra è immaginato come un essere luminoso depauperato dello splendore, il quale però alla fine torna nel mondo pleromatico, come nel caso di Ptahil, il Demiurgo della gnosi mandea. Una posizione intermedia il Demiurgo ha per esempio nel sistema valentiniano, per cui egli, dopo la fine del mondo, giunge ad una relativa salvezza nel cosmo psichico. Una valutazione più favorevole sul creatore del mondo e dell’uomo non significa però che l’esistenza del male nelle sue varie forme ed ipostatizzazioni venga sminuita. La caratterizzazione gnostica del Demiurgo, identificato con il Dio creatore di cui parla l’Antico Testamento, testo deprezzato o respinto, e la sua distinzione radicale dalla divinità suprema e trascendente, presuppongono un qualche legame, seppur interpretato in chiave antitetica, con la dottrina esoterica giudaica, cioè con una costellazione religiosa di area semitica in cui sono confluiti elementi sincretistici tra i più svariati.

In secondo luogo c’è un dualismo che oppone l’io spirituale dell’uomo, lo pneuma o spinthēr (lo spirito-scintilla divina), al creatore del mondo con le sue potenze e le rispettive creature (cosmo, materia, corpo, destino, temporalità). Le potenze demiurgiche creano infatti sia il corpo umano, l’involucro somatico in cui viene imprigionata la Luce divina che costituisce l’identità spirituale, sia una forza indicata spesso come psychē, Anima, innestata nell’uomo per assopire il suo io spirituale e trattenerlo cosi nel mondo delle Tenebre. Si tratta di uno schema antropologico tricotomico: l’uomo, o lo gnōstikos, è composto dall’io spirituale, detto anche nous, pneuma, humectatio luminis, etc., dall’Anima posta nell’intermondo immaginale (la mesotēs psichica), e dal corpo sede delle potenze demoniache avverse a Dio. Dietro questa tripartizione affiora uno schema dicotomico, poiché la psychē, sede dell’intermondo astrale e planetario, appartiene più alle Tenebre che alla Luce. Questo schema può andare incontro a sensibili variazioni, come nella “Predica dei Naasseni” dove per Anima è da intendersi l’io spirituale: il significato di psychē si ricava quindi, volta per volta, dal contesto.

4. Il femminile ritrovato

La prigionia della Luce nella materia secondo la dottrina gnostica è fondata su una serie di rappresentazioni mitologiche nelle quali sono descritte le origini delle potenze creatrici del cosmo e dell’uomo: nei sistemi del tipo cosiddetto “siro-egizio” (definizione di Hans Jonas) un essere divino precipita o viene estromesso dal Regno della Luce e dà così origine alle potenze creatrici del cosmo, e quindi al sorgere del mondo stesso e dell’uomo; il male deriva da un collasso ontologico tra il regno pleromatico ed il kenōma, il “nulla”, il “vuoto”: una tragica caduta che si compie attraverso una serie di emanazioni successive, personificate ed appaiate, le syzygie. Esse sono infatti il riflesso dell’androginia che, riscontrabile ad ogni livello della divinità, indica proprio la sua perfezione nei confronti del mondo, in cui c’è scissione e polarità senza mediazione (maschile/femminile, giorno/notte, etc.). L’essere che cade, fulcro della hybris, può personificarsi in una figura maschile, l’Anthrōpos l’“Uomo” primigenio, nel caso per esempio del Poimandres (il primo trattato del Corpus Hermeticum) o come presso i Naasseni, oppure in un’ipostasi femminile, quale la Sophia, la “Sapienza” dei Valentiniani e dei sistemi collegati. La stessa che Ireneo di Lione chiama Achamoth, sicuramente fraintendendo l’ebraico Ḥokmah, “Sapienza”. Causa della caduta sono l’agnoia, l’“ignoranza”, e il pathos, la “passione”: è l’errore non previsto nell’espansione degli spazi o eoni pleromatici, in conseguenza dell’alienazione ontologica subentrata con la lontananza dalle origini luminose. Si tratta dell’ultimo anello nel dispiegarsi dalle emanazioni precosmiche: dopo il risolversi, sempre più negativo, della passione e dell’angoscia di Sophia, “i vasi si rompono”, i canali della creazione spirituale si colmano della tenebra materiale che attende inerte in basso. La creazione del cosmo è quindi il maggiore errore che consegue alla passione di Sophia. Essa, assieme all’Anthrōpos, è un principio cosmologico in quanto causa della genesi del mondo, e un principio antropologico in quanto costituisce l’io spirituale e luminoso dell’uomo vincolato ai lacci della hylē. Proprio grazie all’impresa di Sophia i gruppi e le comunità gnostiche del primo secolo rivalutano il ruolo della donna. Ovvio che il possesso della gnosi favorisce una eguaglianza di genere. Infatti la Maddalena trova o acquista un ruolo privilegiato che insegna a salvarsi, a riunificarsi. Le indemoniate di Loudun (1971) vennero riscoperte grazie al film di Ken Russell e al lavoro del gesuita Michel De Certeau (1925-1986): siamo negli anni dei bambini di Dio, più ignoranti che liberati, ma proliferanti a velocità impressionante. Entrambe le dinamiche riguardavano un eros ossessivo e menzognero. Chi evoca la libertà del sé quale condanna dell’io, nell’impossibilità di essere libero, coglie l’essenza delle prime comunità gnostiche d’Occidente. Ancor’oggi ciò che chiamiamo individuo, concepito nella sua unicità, è attraversato da potenze che ne dissolvono la singolarità. Il principium individuationis non avviene per unificazione dei vissuti, nemmeno per grazia ricevuta. Lo gnosticismo fuoriuscito da Nag Hammadi appare, a qualcuno, come un fenomeno intra-cristiano, non un corpo estraneo al messaggio evangelico, anzi presente fin dalla contestazione gesuana della legge mosaica. Un fiume carsico che ha alimentato l’Occidente laico e non clericale. Ma è solo un’opinione.

5. La gnosi iranica

Sostanzialmente diversa si presenta la tipologia dualistica nella “gnosi iranica”, il manicheismo, dove le Tenebre e la negatività non derivano per emanazioni successive dal Regno della Luce, bensì Luce e Tenebre sono coeterni e si fronteggiano quali regni originari e antitetici. Un assalto delle Tenebre alla Luce, portato a termine da Ahriman, il Princeps tenebrarum, è la premessa per cui la Luce cade prigioniera delle Tenebre: è ciò che accade allo ‘Nasha qadmaia, l’Uomo primigenio intrappolato assieme alla pentade luminosa nell’abisso della Materia. Da questo evento si dispiega la storia del cosmo, che sostanzialmente coincide con il ripristino della condizione di separazione iniziale tra Luce e Tenebre: l’archē coincide con il telos e la creazione stessa è intesa unicamente come un momento strumentale tramite cui il Padre della Luce tenta di recuperare le particelle di sostanza luminosa inghiottite dalla Tenebra. La causa di questa catabasi, di questa discesa, è quindi il desiderio della Luce di sopraffare le Tenebre attraverso la lotta cosmica: ciò si realizza nel sacrificio dello ‘Nasha qadmaia, l’Uomo primigenio (Ohrmizdbay nelle versioni iraniche) che si offre come “cibo” con il fine di avvelenare le Tenebre.

Nel dualismo gnostico le ipostasi luminose, come parti delle quali vengono spesso pensate le scintille di Luce prigioniere nel mondo, prendono parte in misura differente all’opera di redenzione: ciò è esemplificato dagli studiosi per mezzo di definizioni quali il “mito del Salvatore salvato” (R. Reitzenstein) o del “Salvatore salvando” (C. Colpe). La Luce sommersa nella hylē è spesso localizzata in modo diverso a seconda dei vari sistemi: di preferenza essa viene pensata racchiusa nel corpo umano, ma talvolta esiste anche al di fuori di esso, negli Arconti e nel mondo vegetale, minerale ed animale, come nel caso del manicheismo.
Alla domanda se tutti gli uomini posseggono un vero e proprio io spirituale, un’essenza luminosa, oppure se questo, e con ciò la possibilità della redenzione, tocca in sorte unicamente ad una parte eletta dell’umanità, lo gnosticismo risponde in vari modi. In un gruppo di sistemi tutti gli uomini hanno in sorte una scintilla di Luce, cosicché salvezza individuale e salvezza dell’ecumene coincidono. Un altro gruppo, maggiormente differenziato in senso gnostico-dualistico divide gli uomini in coloro nei quali dimora la Luce, e che perciò vengono salvati (cioè gli pneumatikoi, “spirituali”), e in coloro che non possiedono alcuna essenza luminosa, i “carnali” (sarkikoi) o “materiali” (hylikoi) il cui destino è la perdizione e il dissolvimento completo. A questa dicotomia viene introdotta, in special modo dai Valentiniani, una categoria di mezzo, quella degli “psichici” (psychikoi) che può accedere ad una salvezza relativa, nella misura in cui essa vive e si adegua alla prescrizioni della Chiesa ufficiale. In tale prospettiva si colloca quindi anche la dottrina della reincarnazione delle anime, la metempsicosi o metemsomatosi, poiché essa è importante per la progressiva separazione della Luce.

La Luce intrappolata nella materia viene risvegliata dall’appello alla vera realtà, quella luminosa e pleromatica, che il Redentore gnostico (l’“Uomo di Luce” della Pistis Sophia) rivolge agli pneumatikoi e con cui inizia la fase di ascesa, di risalita, del “mito di rivelazione” verso l’escatologia individuale e universale. La “prova iniziatica” dello gnostico sul piano del comportamento per così dire “etico” è segnata fondamentalmente da due posizioni estreme; da una parte c’è la ricerca di un ascetismo acosmico radicale, dall’altra un libertinismo assoluto, anch’esso acosmico e antinomico. Alla base di questi atteggiamenti etici estremi sta il dualismo antropologico gnostico tra pneuma e hylē, “spirito” e “materia”, che rifiuta il creatore del mondo e le sue opere: tale trascendenza si attua appunto con il deprezzamento di esse (ascesi, enkrateia) oppure con il loro uso assoluto e smodato (libertinismo, porneia). In questo rifiuto lo gnostico mette alla prova la propria libertà, ottenuta negativamente come disprezzo e superiorità sul mondo, così facendo lo trascende e si pone al di là dei limiti imposti dalla morale comune.

Nell’escatologia gnostica ha preminenza l’escatologia individuale, la quale è sovente rappresentata nell’ascensione dell’anima attraverso le sfere planetarie governate dagli Arconti: una liberazione dai lacci della hylē conseguita sia in vita che nel post mortem, e che viene preparata per mezzo di pratiche rituali e magiche. L’escatologia individuale non è però scissa dalla speranza nella apokatastasis, cioè la reintegrazione nel plērōma di tutta la Luce dissolta in illo tempore nel cosmo. La reintegrazione coincide con la fine dei tempi, momento supremo in cui si avrà la separazione definitiva della Luce dalla Tenebra, quindi del divino dal non-divino. In questo moto irreversibile verso l’eschaton si basa la dottrina gnostica dei tempi ultimi: un rinnovamento in cui Dio, il Dio sconosciuto e impredicabile, è il fine ed il mezzo della salvezza: poiché Dio è Luce, ed una parte di essa è rimasta imprigionata nella hylē, Dio scende nel mondo a liberare se stesso: è il mito del “Salvatore salvato”, un mito che è il fulcro del dualismo gnostico, poiché l’antitesi spirito/materia non ammette la speranza di un rinnovamento escatologico implicante la salvezza della creazione intesa come corporeità materiale, e quindi nega la resurrezione dei corpi.

(L’autore desidera ringraziare Matteo Schiavon)

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