Sacro e metallurgia nell'antico Egitto - (di P. Galiano)

SACRO E METALLURGIA NELL’ANTICO EGITTO

Da quando l’uomo ha imparato a conoscere e trattare i metalli, l’arte della loro lavorazione, dall’estrazione fino alla fusione e all’elaborazione del prodotto finale, è stata concepita come un atto sacro e chi eseguiva queste operazioni era considerato un essere dotato di poteri particolari, argomento che è stato ampiamente trattato da Mircea Eliade[1], nei cui scritti sono però scarsi gli accenni al mondo egiziano.

Se mettiamo a confronto gli accenni che si trovano nei trattati alchemici greci più antichi che ci sono pervenuti, e in particolare gli scritti di Zosimo, con quanto in Egitto l’Archeologia ha potuto riportare alla luce, è possibile ricostruire il  ruolo che ebbero i templi egizi e i loro sacerdoti nelle lavorazioni metallurgiche e nella concezione della sacralità dell’oro e dell’argento considerati la «carne» e le «ossa» degli Dèi.

 

Le miniere d’oro dell’Alto Egitto.

Per comprendere il rapporto esistente fin dai tempi più antichi tra la cultura egizia e la metallurgia è necessario prendere l’avvio con una digressione sui siti minerari dell’Egitto antico, in particolare di quelli da cui era estratto il minerale aurifero, e la loro correlazione con i centri templari[2].

Lo strato geologico aurifero del deserto orientale dell’Egitto si estende circa da Memfi ad Assuan per proseguire nella Nubia fino a sud dell’attuale Khartoum[3], il che spiega perché i centri di lavorazione dell’oro cui si fa riferimento nei trattati alchemici greco-alessandrini, come si dirà più avanti, coincidono con le più antiche città dell’Alto Egitto.

L’individuazione e lo sfruttamento delle miniere d’oro risalgono almeno all’età Predinastica, circa 3500 a. C.[4], e lo sfruttamento proseguì per i secoli successivi con un progressivo e costante miglioramento nella prospezione di nuove miniere e nelle tecniche di estrazione e di separazione del metallo dal quarzo aurifero, raggiungendo l’apice nel Nuovo Regno con l’introduzione della macina per il grano per triturare il minerale e delle vasche di lavaggio del composto polverizzato per separare l’oro dai residui di quarzite[5].

Le tecniche di lavorazione riscontrate dagli scavi archeologici confermano i testi alchemici tradotti dal Berthelot sulla base principalmente del ms 299 della Biblioteca Marciana di Venezia (sec. X) e del ms Grec. 2327 della BNF (sec. XV): 

La pietra metallica rassomiglia al marmo: è dura, e gli uomini che nei luoghi sopra citati l’estraggono con molta fatica la preparano nella profondità della terra … e quando trovano un filone lo lavorano, le loro donne lo macinano e lo triturano, quando hanno ridotto il minerale in polvere lo passano su tavole scanalate disposte in leggera pendenza e fanno passare sopra l’acqua; la parte polverizzata leggera e inutile è portata via dall’acqua e rimane la parte utile, trattenuta dal suo peso, raccolta nelle scanalature della tavola. Allora per la cottura la raccolgono e la pongono in vasi di terracotta e, facendo un miscuglio secondo la formula [data da Agatarchide, geografo greco del II sec. a. C., nel trattato Sul Mar Rosso], chiudono il vaso e lo scaldano al forno per cinque giorni e cinque notti[6].

L’unica differenza riscontrabile tra il testo manoscritto e i riscontri archeologici è la tecnica del lavaggio: gli archeologi non descrivono le tavole scanalate di cui si parla nel testo sopra citato, per cui la loro supposizione è che sulle tavole inclinate fossero stese pelli di pecore in modo che il pelo stesso e la lanolina presente su si esse potessero raccogliere le particelle d’oro. Per tale motivo Klemm, essendo un archeologo e non uno storico delle Religioni, ha supposto che il mito del Vello d’Oro degli Argonauti potesse avere avuto in questo la sua origine[7].

Un elenco dei siti in cui avveniva l’estrazione e la lavorazione dell’oro ci è giunto dal ms. Latin 2327 della BNF c. 249v, così commentato dal Berthelot:

‘I luoghi dove si compie l’opera divina[8] sono l’Egitto, la Tracia (Costantinopoli), Alessandria, Cipro e il tempio di Menfi’ … Esiste [però] un’enumerazione molto più antica dei luoghi in cui si preparava l’oro, in cui sono enumerate solo città egiziane, il cui nome è in alcuni punti mutilato a causa di un copista che non li conosceva: ‘Occorre conoscere in quali luoghi della terra della Tebaide si prepara la polvere misteriosa: Cleopolis (Heracleopolis), Alycoprios (Lycopolis), Aphrodite, Apolenos (Apollinopolis) ed Elefantina’. Questi nomi sembrano estratti da un frammento di Agatarchide sui luoghi degli sfruttamenti metallurgici in Egitto[9].

 

L’elenco delle città riportato da Berthelot corrisponde a quanto gli scavi finora effettuati in Egitto hanno riportato alla luce circa le antiche miniere aurifere: le città di cui si parla nel manoscritto corrispondono ai Distretti (sepat[10]) I «La Terra degli archi» (Elefantina), II «Il trono di Horus» (Apollinopolis), X «La casa di Hathor» (Aphroditopolis), XIII «Il grande sicomoro» (Lycopolis), XX «Il sicomoro del sud» (Herakleopolis).

 

I templi e le divinità dei cinque Distretti.

L’elenco dei luoghi «dove si compie l’opera divina» riportati nel ms Latin 2327, come scrive Berthelot, cioè Elefantina, Apollinopolis, Aphroditopolis, Lycopolis e Herakleopolis, comprende cinque Distretti dell’Alto Egitto i quali si trovano in prossimità della fascia mineraria di cui si è detto e i templi più importanti di questi Distretti testimoniano l’antichità del rapporto tra essi e la lavorazione dei metalli preziosi, in quanto tutti risalgono all’Antico Regno e alcuni forse già esistevano nel periodo Predinastico e Protodinastico. Le divinità che in essi erano venerate (delle quali qui ricordiamo solo le principali) sono tutte tra le più antiche da noi conosciute e in stretta relazione con la teologia e la mitistoria dell’Egitto:

  • nel I Distretto di Elefantina a Nubyt o Nubet, «La città dell’oro» (oggi Kom Ombo) era venerato Horus l’Antico o Herihor: il suo attuale tempio è di epoca tolemaica ma sono state trovate tracce di fasi precedenti risalenti alla XVIII Dinastia[11]; il tempio tolemaico è suddiviso in due templi gemelli, quello a nord dedicato alla triade costituita da Horus, la consorte Tasen-neferet o Tefnut e il figlio Paneb-tawi («Il Signore delle Due Terre»), il secondo a sud intitolato a Sobek, Hathor e al figlio Khonsu. L’associazione di Horus con Sobek, il Dio coccodrillo figlio dell’arcaica Dèa Neith, la creatrice del cosmo e degli stessi Dèi, e il fatto che il figlio di Horus fosse «il signore delle Due Terre», uno dei cinque «nomi» del Faraone, indicano la stretta connessione del tempio con i miti cosmogonici e la regalità divina.

Nubyt o Ombos è anche il nome della città del V Distretto scavata da Flinders Petrie[12] (oggi Qus, all’inizio del Wadi Hammamat, la valle che portava al porto di Safaga sul Mar Rosso), appartenente alla cultura di Naqada, culla del periodo predinastico e protodinastico, la quale aveva come divinità principale Seth, detto per questo «l’Ombita».

  • nel II Distretto a Behedet, la greca Apollinopolis (oggi Edfu[13]), la divinità principale era Horus di Behedet, il cui culto è testimoniato fin dalla IV Dinastia nei bassorilievi della piramide di Djoser. L’attuale tempio di Horus, di epoca tolemaica, sorge sull’artico cimitero della VI Dinastia ed è dedicato a Horus di Behedet, alla consorte Hathor di Denderah e al figlio Harsomtis, grecizzazione del nome egizio Har sema-tawi, «Horus signore delle Due Terre», il quale era rappresentato in forma di fanciullo che emerge dal fiore di loto.
  • nel IV Distretto, Aphroditopolis, si trova Per-Hathor, «La casa di Hathor» (l’egizia Inr-ty, «Le due montagne», oggi Gebelein[14]), il tempio dedicato ad Hathor e risalente alla II Dinastia; il cimitero che si trova presso il tempio è ancora più antico, databile al periodo Predinastico. Il nome del Distretto, «Was»[15], «Lo Scettro», è quello dello scettro magico con manico a forma di testa di sciacallo e l’estremità biforcuta per fermare il serpente malefico Apophis ed è simbolo del potere creatore e distruttore di Hathor, colei che nel suo aspetto teriomorfo di vacca era la nutrice degli Dèi e dei Faraoni, divinità dell’Eros nella duplice forma creatrice e sensuale, la Dèa-gatto Bastet, e distruttiva, la leonessa Sekhmet;
  • a Lycopolis, capitale del XIII Distretto, in egizio Djauty, «La Guardia»[16] (oggi Asyut), il cui nome già si trova nei Testi delle Piramidi, la divinità principale era Wepwawet o Upuaut, «Colui che apre le strade», divinità dalla testa di lupo considerata figlio di Iside, poi sostituita da Anubis. Del suo tempio nulla ci è rimasto ma sappiamo che almeno in epoca ramesside era una divinità rappresentante l’Alto Egitto e quindi associata alla Dèa Wadjet signora di Buto e simbolo del Basso Egitto. Inoltre la presenza dello stendardo di Wepwawet era parte integrante del rituale arcaico dell’Heb Sed, la cerimonia con la quale periodicamente il Faraone rinnovava i suoi poteri divini[17].
  • nel XX Distretto di Herakleopolis a Heni-Nesut, «La città del figlio del Faraone» (oggi Beni Suef[18]), il tempio principale era dedicato a Heryshef, «Colui che è nel suo lago», identificato dai Greci con Eracle, un Dio creatore con testa di ariete di cui si ha notizia fin dalla XII Dinastia, anche protettore di Iunu, la greca Heliopolis capitale del I Distretto del Basso Egitto, dove si trovava la prima collina emersa dalle acque per volere di Atum (il ben-ben simboleggiato dagli obelischi e dal pyramidion delle piramidi).

Il suo epiteto era «Il Signore delle Due Terre» e il suo capo era ornato con l’atef, lo stesso copricapo di Amon con il quale egli era identificato con il nome di «Osiride di Naref», località presso Herakleopolis ove era venerata la gamba destra di Osiride. I resti del suo tempio, poi inglobato in quello costruito da Ramesse II, risalgono almeno al Medio Regno. Secondo i testi di Edfu qui fu combattuta la battaglia tra Horus e Seth che terminò con la vittoria di Horus e la sua ascesa al trono dell’Egitto come Signore delle Due Terre.

Ciò che accomuna queste divinità è il loro rapporto con la figura del Faraone: Hathor è la «nutrice» del Faraone e, in quanto divinità cosmica dell’Eros che unisce e distrugge, la fonte stessa del suo potere, e Heryshef, Paneb-tawi figlio di Horus l’Antico e Har sema-tawi figlio di Horus di Behedet sono figura del Faraone stesso in quanto «Signori delle Due Terre», così come Wepwawet che è il «Signore dell’Alto Egitto». Esisteva quindi un rapporto sacrale tra questi templi, che costituivano anche il luogo della lavorazione dei metalli preziosi, e la regalità del Faraone, unico signore dei metalli provenienti dalle vicine miniere, come scrive Zosimo nel Primo libro del computo finale: «Sotto i re dell’Egitto gli artefici dell’arte della cottura [dei minerali] e coloro che hanno la conoscenza delle procedure non operano per sé stessi ma per i re d’Egitto e lavorano per i loro tesori … e così anche per ciò che riguarda le miniere d’oro»[19].

Tutti i metalli preziosi quindi appartenevano al Faraone, però l’oro adoperato «per le suppellettili di culto e per il corredo funerario del Faraone non [poteva essere] quello estratto dagli affioramenti e dalle prospezioni alluvionali, chiamato “oro del fiume” (nwb n mw) ma quello estratto direttamente dalle miniere, detto “oro delle montagne” (nwb n st[20]: evidente in questo la visione simbolica della montagna come «luogo degli Dèi» e delle gallerie minerarie come vie di accesso all’Al di là[21].

 

La «Casa dell’Oro»: tecnici e sacerdoti.

Coloro che si occupavano dei metalli erano suddivisi in due classi, i tecnici specializzati e i sacerdoti del Dio, di cui parla Zosimo quando scrive che gli alchimisti egiziani «erano amici dei re d’Egitto e occupavano il primo posto nella cerchia dei profeti»[22]: le parole di Zosimo sono confermate dai testi del tempio di Denderah incisi sulle pareti della «Casa dell’Oro», il «luogo di creazione del divino dove si forgiava, concretamente e simbolicamente, l’essenza stessa della divinità»[23] attraverso la preparazione delle statue e degli oggetti di culto resi «viventi» dai rituali.

I testi di Denderah[24] forniscono precise informazioni: coloro che operano nella «Casa dell’Oro» sono distinti in due differenti categorie, gli addetti alla trasformazione e lavorazione dei metalli preziosi provenienti dalle miniere, i quali «non sono iniziati davanti al Dio e sono coloro che fanno venire al mondo le statue … in argento, oro fino, legno o tutte le altre sostanze», e coloro che sovrintendono all’opera, cioè i sacerdoti iniziati ai quali spetta l’«opera segreta», perché «quando si passa all’opera segreta per tutti gli oggetti l’ufficio è degli officianti iniziati presso il Dio, che sono membri del clero … sotto l’autorità del preposto ai riti segreti, scriba del libro sacro … secondo tutto ciò che è scritto nel libro sacro come prescrizione di Thot»[25].

In questo «libro di Thot», da cui sono forse estratte le altre disposizioni che si leggono sulle pareti della «Casa dell’Oro» circa i materiali da adoperare e i rituali di vivificazione delle statue degli Dèi e del Faraone, Derchain riconosce la formulazione in epoca tolemaica di un testo più antico andato perduto o ancora non ritrovato:

Il linguaggio del libro che descrive come vanno preparati gli oggetti era convenzionale o poteva essere scritto in un linguaggio troppo antico rispetto all’epoca in cui fu inciso [sulle pareti del tempio] … L’impiego di certe forme verbali e di certe grafie indicano una redazione tardiva … Il libro perduto fa spontaneamente pensare a un qualche trattato sulle tinture — un bìblos fusikòn baphòn[26] — quale si conosceva all’epoca ellenistica.

Se questo presunto «libro di Thoth» risalisse a un periodo precedente l’epoca tolemaica sarebbe testimonianza della conoscenza dei metallurghi egiziani circa il modo di «tingere»[27] i metalli prima che fossero diffusi gli insegnamenti attribuiti al mitico Ostane e allo pseudo Democrito, ai quali si fa risalire la conoscenza delle «tinture». La possibile attendibilità dell’ipotesi di Derchain si basa anche sul fatto che l’attuale tempio di Hathor a Denderah fu costruito in epoca tolemaica su strutture molto più antiche: i testi incisi sulle pareti delle cripte del tempio riferiscono che esso venne restaurato da Pepi I (VI Dinastia) e poi da Thutmosi III (XVIII Dinastia), come confermano i resti ritrovati nel corso delle campagne archeologiche di scavo, ma il sito di Denderah è stato occupato fin da un periodo ancora più antico, essendo state ritrovate tombe risalenti al periodo Predinastico[28] e all’Antico Regno[29].

È quindi lecito ipotizzare, come fa Derchain, che il perduto «libro delle prescrizioni di Thot» risalga a un tempo precedente, e forse di molti secoli, la costruzione del tempio tolemaico e che ci si possa trovare davanti ai primi indizi di una proto-alchimia, come afferma anche Derchain:

Questi testi sembrano essere i primi reperti ritrovati di una letteratura pre-alchemica in lingua egiziana … Un libro in cui si apprende come l’oro di una statua divina, di un dio dice il testo, non è dell’oro che insegna a creare queste statue il cui culto comporta l’esistenza stessa degli uomini, citato nel contesto filosofico nel quale lo abbiamo ritrovato, in un luogo che conserva il segreto, non è qualcosa che prelude al sogno della Grande Opera? … Precedendo di molti secoli la sua fioritura, l‘officina degli Artisti documenta in modo singolare quali siano gli inizi delle due correnti dell’Alchimia e dell’Ermetismo … e dimostra con estrema chiarezza che la loro radice si trova nella tradizione religiosa egizia[30].

 

Oro e argento, la carne e le ossa degli Dèi.

Altri metalli, oltre l’oro[31], erano estratti in maggiore o minore quantità dalle miniere del deserto orientale, quali il piombo, lo stagno e, in piccola quantità, l’argento e il rame (la maggior parte del rame necessario alle attività edilizie e agricole degli Egizi veniva dal Sinai e dall’Arabia). I metallurghi egiziani, fin dalle prime Dinastie, non solo sapevano adoperare i metalli in purezza ma erano in grado di creare leghe di oro-argento (elettro), oro-rame e oro-arsenico e bronzo-stagno conoscevano le tecniche di preparazione e applicazione di pigmenti e smalti, ben prima delle «ricette» dei trattati di Alchimia greco-alessandrina, considerati il primo segno della nascita dell’Alchimia spagirica[32].

Un ruolo particolare insieme all’oro aveva l’argento: conosciuto fin dal periodo predinastico, esso era scarso in Egitto, per cui doveva essere importato dall’estero o essere sostituito da una lega di bronzo e stagno[33], il che lo rendeva più prezioso dell’oro dal punto di vista economico, ma è l’oro, e non l’argento, a possedere un particolare ruolo di sacralità: «L’oro non sarà mai utilizzato come merce di valutazione e transazione economica a scapito dell’argento, solitamente impiegato per questo tipo di attività»[34]. La sacralità dell’oro si vede anche nel fatto che il più antico dei cinque nomi[35] del Faraone, adoperato almeno fin dalla IV Dinastia, è il nome di «Horus d’oro», formato dal nome del Faraone racchiuso entro un geroglifico che raffigura il palazzo reale e sormontato dall’immagine del falco.

L’argento era considerato come elemento costituente le «ossa degli Dèi» mentre l’oro era la «carne degli Dèi», una concezione teologica di cui abbiamo evidenza nei testi:

Il corpo divino è di natura metallica, come scrive chiaramente il pap. JE 97249 del Cairo: ‘Osiride N [nome del defunto], la tua carne è d’oro, non soffrirà mai, Osiride N, le tue ossa sono d’argento, esse non scompariranno mai’, e il pap. Harris: ‘Amon, del quale le ossa sono d’argento, la carne d’oro e ciò che copre il suo capo è di veri lapislazzuli’[36].

Queste frasi richiedono una digressione su alcuni aspetti dell’antropologia egizia, argomento sul quale torneremo in un successivo articolo.

L’essere umano è costituito da «parti dure» e «parti molli»[37]: le «parti dure» sono le ossa, i denti, le unghie, il sistema pilifero, e a esse gli egizi attribuivano un’origine paterna in quanto lo sperma era considerato come la sostanza da cui si formano le ossa, come si legge nell’Inno a Khnoum di Esna: «Egli ha fatto che il seme si coaguli nelle ossa», mentre le «parti molli» sono di provenienza materna in quanto trasmesse con l’allattamento, e sono gli organi interni, i muscoli, i legamenti e il sistema vascolare, cioè più precisamente i «condotti-metou» nei quali scorrono i flussi necessari alla vita, cioè l’aria e l’acqua, costituenti il sangue, il quale deriva dall’apporto materno, liquido nutritivo considerato nei Testi dei Sarcofagi equivalente al tuorlo dell’uovo[38] e allo stesso tempo legante l’insieme del corpo, con ha la funzione di unire il seme maschile e il latte femminile per aggregare le «parti dure» e le «parti molli».

La distinzione dell’antropologia egizia tra «parti dure» e «parti molli» sembra indicare un’equivalenza tra «parti molli», maschile e oro da un lato e «parti dure», femminile e argento dall’altro.

Una concezione simile al significato del sangue in rapporto ai «condotti-metou» nell’antropologia egizia si potrebbe riscontrare nel Pitagorismo sulla base di quanto scrive Diogene Laerzio[39], il quale, attingendo alle Successioni dei filosofi di Lucio Cornelio Alessandro detto Polyhistor, autore neopitagorico del I sec. a. C., parla del sangue come il supporto dell’anima attraverso il sistema vascolare e nervoso:

L’anima nell’uomo si distingue in tre parti, intelletto, mente e animo … Il dominio dell’anima si estende dal cuore fino al cervello e la parte di essa che è nel cuore è animo, le parti che sono nel cervello sono intelletto e mente. L’anima si nutre del sangue … i legami dell’anima sono le vene, le arterie e i nervi.

L’«opera segreta» compiuta dai sacerdoti sulle statue divine di cui si fa accenno nei testi di Denderah veniva realizzata con uno specifico rituale, il «Rituale dell’Aperura della Bocca», di cui abbiamo notizie certe a partire dal Regno Antico, nel quale troviamo collegate concezioni religiose e antropologiche di grande importanza che tratteremo in un successivo articolo.

 

[1] Mircea Eliade, Forgeron et alchimistes, Paris 1978 (trad. italiana: Arti del metallo e Alchimia Torino 1980, 2018).

[2] Per una visione d’insieme dell’influenza del mondo minerale sull’esistenza dell’uomo egizio segnaliamo Sidney Aufrère, L'Univers minéral dans la pensée égyptienne: essai de synthèse et perspectives, in «Archéo-Nil», 7 (1997), pp. 113-144.  

[3] Basem Zoheir, Peter Johnson, Richard Goldfarb, Dietrich Klemm, Orogenic gold in the Egyptian Eastern Desert: Widespread gold mineralization in the late stages of Neoproterozoic orogeny, in «Gondwana Research», 75 (2019) pp. 184–217, p. 186 fig. 2,

[4] Dietrich Klemm, Rosemarie Klemm, Andreas Murr, Gold of the Pharahos – 6000 years of gold mining in Egypt and Nubia, in «African earth sciences», 33 (2001), pp. 643-659, p. 647.

[5] Klemm, Gold of the Pharahos, p. 649.

[6] Marcelin Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Paris 1887, I, 2, Traduzione, p. 27.

[7] Klemm, Gold of the Pharahos, p. 653.

[8] Così Zosimo chiama l’Alchimia: «L’arte divina, sia nelle sue parti dogmatiche e filosofiche, sia nella maggior parte delle questioni minori, è stata confidata ai suoi guardiani per la loro conservazione» (Il primo libro del computo finale, in Marcelin Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Paris 1888, II, 3, Traduzione,  p. 231.

[9] Marcelin Berthelot, Les origins de l’alchimie, Paris 1885, pp. 129-130. L’Autore riprende quanto aveva già scritto a p. 36: «I nomi dei laboratori dove si preparava la pietra metallica, cioè la pietra filosofale, sono trascritti in un trattato di Giovanni l’arciprete. Eccoli qui: Terra della Tebaide, Heracleopolis, Lycopolis, Aphrodite, Apollinopolis ed Elefantina; queste sono in effetti tutte città conosciute in Egitto e sede di grandi santuari. Questa lista sembra riprodotta da un passaggio di Agatarchide relativo agli sfruttamenti metallurgici dell’Egitto: può essere che i luoghi di estrazione dell’oro dai suoi minerali fossero gli stessi di quelli in cui si pretendeva di fabbricarlo. In tutti i casi la lista è antica perché questi nomi non sono più conosciuti dopo la conquista musulmana; non figura alcun nome di luogo al di fuori dell’Egitto, come ne troveremo più tardi in liste scritte nel VII sec.».

[10] Sepat è il nome in geroglifico delle regioni amministrative (chiamate dai Greci nômoi) in cui era suddiviso l’Egitto in regioni.

[11] Kathryn A. Bard, Encyclopedia of the archaeology of Ancient Egypt, London-New York 1999, pp. 503-506.

[12] William Flinders Petrie, James Quibell, Naqada, London 1896.

[13] Bard, Encyclopedia, pp. 319-321.

[14] Bard, Encyclopedia, pp. 402-404.

[15] Waset era il nome della vicina città di Tebe, i cui principi dettero inizio alla XI Dinastia, divenuta poi centro del culto di Amon a Karnak.

[16] Bard, Encyclopedia, pp. 180-182. A Lycopolis nacque Plotino, caposcuola del Neoplatonismo.

[17] Massimiliano Nuzzolo, La tradizione teurgica egiziana: il rituale della «Apertura della Bocca», in La teurgia antico (a cura di L. Albanese, P. Mander), Genova 2010, pp. 275-289, p. 287.

[18] Bard, Encyclopedia, pp. 441-443 .

[19] Berthelot, Collection, II, 3, p. 231. Per una traduzione più recente si veda Martelli, L’alchimista antico (Storie della Scienza), Milano 2019, p. 47 e nota 7.

[20] Massimiliano Nuzzolo, Il valore dell’oro, l’oro del valore, in Aurum. Funzioni e simbologie dell’oro nelle culture del Mediterraneo antico (a cura di M. Tortorelli Ghidini), Roma 2014, p. 43.

[21] Il transito del Sole nel suo viaggio notturno era simbolizzato, come testimoniano i Libri dei Morti, dalla discesa in una serie di caverne o comunque di luoghi sotterranei, perfettamente illustrati dalla pianta della tomba di Sethi I.

[22] Traduzione di Angelo Tonelli, Zosimo di Panopoli, visioni e risvegli, Milano 2004, citato in Martelli, L’alchimista antico, p. 46. La dizione «profeta del Dio» è la non corretta traduzione greca dell’egizio hem netjer, «servo del Dio», titolo della principale classe sacerdotale egiziana (quella inferiore era denominata itu netjer, «padre del Dio»). Secondo Martelli «in età imperiale il termine ‘profeta’ aveva perso il significato tecnico di ‘membro della classe sacerdotale’ … il testo zosimiano sembra comunque insistere sul legame tra i primi alchimisti e l’ambiente del tempio egiziano».

[23] Nuzzolo, Il valore dell’oro, p. 45.

[24] I testi citati sono tratti da: Philippe Derchain, L’Atelier des Orfèvres à Dendara et les origines de l’Alchimie, in «Chronique d'Egypte», 65 (1990), pp. 219-242.

[25] Derchain, L’Atelier des Orfèvres, p. 234.

[26] Testo di Denderah: «Questi [artigiani] sono coloro che colorano tutti i gioielli d’oro, d’argento e di vera pietra che toccheranno il corpo divino [della statua]» (Derchain, L’Atelier des Orfèvres, p. 234).

[27] La «tintura» dei metalli costituisce la base della conoscenza delle leghe, per cui l’unione in diverse quantità di oro, argento, rame, piombo, arsenico e altri minerali tra di loro consentiva di ottenere colori diversi nel materiale finale (si veda Jack Ogden, Metals, in Ancient Egyptian Materials and Technologies (a cura di P. Nicholson, I. Shaw),, Cambridge 2000, pp. 148-176, passim)-

[28] Kathryn Bard (editor), Encyclopedia of the archaelogy of Ancient Egypt, London-New York 1999, pp. 298-301.

[29] William Fliinders Petrie, Dendereh 1898, London 1900, pp. 4-12

[30] Derchain, L’Atelier des Orfèvres, pp. 232-233.

[31] Si veda per una trattazione esauriente sui diversi metalli provenienti dalle miniere dell’Egitto Ogden, Metals.

[32] Ogden, Metals, e in particolare per quanto concerne la lavorazione dell’oro p. 166.

[33] Deborah Schorsch, Silver in Ancient Egypt, in Heilbrunn Timeline of Art History. New York 2000, http://www.metmuseum.org (consultato 24/05/2021).

[34] Nuzzolo, Il valore dell’oro, p. 48.

[35] Il «nome», in geroglifico ren, si identifica con l’essenza stessa dell’individuo per cui «nominare non significa semplicemente ‘indicare’ ma anche far esistere» (Alessandro Bongioanni, Mario Tosi, Spiritualità nell’Antico Egitto. I concetti di akh, ka e ba, Rimini 2002, p. 109). Occorre «far vivere il nome» pronunciandolo e scrivendolo sulle pareti delle tombe perché il defunto viva nell’Al di là: nel Libro dell’uscita al giorno del papiro. di Torino n° 1791 al capitolo 25 si legge: «Io faccio che l’uomo si ricordi il suo nome (ren) nella Grande Dimora e si ricordi il suo nome nella Dimora del Fuoco in mezzo alla Compagnia degli Dèi» (Boris de Rachewiltz, Il Libro dei Morti degli antichi egizi. Il papiro di Torino, Roma 1992, p. 52).

[36] Bernard Mathieu, Les couleurs dans les Textes des Pyramides: approche des systèmes chromatiques, in «ENIM 2», 2009, pp. 25-52, pp. 32-33, http://recherche.univ-montp3.fr/egyptologie/enim/ (consultato 28/05/2021).

[37] Su questo si veda il commento dell’inno a Khnoum del tempio di Esna di Bernard Mathieu, La conception du corps humain à Esna (Esna n° 250, 6-12), in Et in Ægypto et ad Ægyptum. Recueil d’études dédiées à Jean-Claude Grenier (a cura di A. Gasse, F. Servajean, C. Thiers), Montpellier 2012,  pp. 499-516, pp. 500-501 e note.

[38] Mathieu, La conception du corps, p. 501.

[39] Diogene Laerzio, Vitae phil, VIII, 29-30. Sulla dottrina del sangue si veda Paolo Galiano, Roma prima di Roma, Roma 2011 (II ediz. Roma 2016), pp. 128-130.

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