Angeli astromagici - (di E. Albrile)

Ezio Albrile

Angeli astromagici

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I testi astromagici esordiscono spesso con un «racconto d’iniziazione» – come voleva Henry Corbin – in cui il protagonista della narrazione entra in contatto con la dimensione ultraterrena attraverso un’esperienza onirica. La conoscenza arcaica che gli verrà trasmessa è spesso codificata, incisa in tavole di pietra, come nel Liber planetarum ex scientia Abel, di prossima pubblicazione a cura di Elisabetta Tortelli, per i tipi della Mimesis. Dopo il diluvio, Ermete Trismegisto era giunto a Ebron, la città dove avevano vissuto Adamo, suo figlio Abele e la maggior parte dei saggi antidiluviani. Qui aveva riscoperto una serie di lapidi marmoree scolpite e nascoste dagli antichi filosofi; tra queste, erano venute alla luce le pietre alle quali Abele aveva affidato la memoria della dottrina dei talismani o praestigiorum scientia, la prima e la più perfetta di tutte.

L’adepto è spesso guidato in un percorso simbolico, a base di immagini e apparizioni, da un personaggio più anziano, un vecchio – che alla fine del racconto scopriremo essere lo stesso Ermete Trismegisto – le cui parole sono tese a rivelare il mistero della «Natura perfetta», cioè del principio spirituale che rende possibile l’unione del Filosofo-Mago con la sua identità astrale.

1. Ermetismi

In termini pratici l’ermetismo astromagico attua questa unione attraverso pratiche di magia talismanica. Ora, noi sappiamo che la parola «talismano», attraverso la mediazione araba (tilsam, tilism, tilasm)[1], giunge dal greco apotelesma «influsso, risultato, effetto»; i trattati di astrologia nel mondo antico prendono infatti nome di Apotelesmatika, «Sull’influsso degli astri». La magia astrologica agiva in dipendenza dei corpi celesti e delle loro emanazioni, e attraverso il talismano o imago, cercava di attrarre particolari influssi[2]; la sua efficacia dipendeva dalla scienza dei luoghi delle stelle fisse, che determinavano le diverse configurazioni astrali come rapporti tra immagini, da cui derivavano strutture e relazioni terrene[3].

Per operare tale congiunzione fra proprietà astrale e virtù terrena, il Mago ermetico deve quindi mettere in atto una serie di operatività il cui fine sodale è l’acquisizione di tale spirito planetario «racchiuso» nel talismano. Invocazioni, scongiuri e rituali spesso molto complessi, in cui le specificità di ogni sinolo pianeta o astro sono messe in relazione con i rispettivi colori, pietre preziose, minerali, scale musicali, essenze e profumi, sono i coadiuvanti materiali per portare a termine tale azione magica.

Secondo la disciplina astromagica enunciata nel Picatrix, la realtà risultava suddivisa in tre livelli: il sensus, cioè il Nous neoplatonico, lo spiritus, inteso come anima mundi, e la materia. Siamo quindi molto lontani dai tre momenti del cosmo plotiniano (Uno, Nous, Anima mundi), poiché il primo grado di realtà, cioè l’assoluta trascendenza dell’Uno, è stato rimosso in favore di realtà manifeste. L’operare dello spiritus nel cosmo si concretizza quindi nell’azione degli intermediari stellari, forme celesti che governano il mondo, ognuna delle quali possiede un suo potere specifico, che Picatrix definisce «spiritus del pianeta» e che rappresenta un frammento di quello spirito universale che si serve delle stelle per effondere le emanazioni divine sulla terra[4].

Essenza della magia è quindi la facoltà di attrarre e controllare l’influsso di questo spiritus dilatato nei corpi celesti; esso giunge all’uomo in modo differenziato e imperfetto, ma può anche essere accolto e potenziato attraverso azioni magiche. Tale è appunto il fine esposto nel De Vita di Marsilio Ficino, quando si afferma che le forme materiali soggette a un processo degenerativo possono riplasmarsi e rigenerarsi sul modello delle immagini superiori, cioè attraverso il collegamento con la rispettiva ragione seminale racchiusa nell’anima mundi (per rationem videlicet animae seminalem), che è alla base della sua formazione[5]. È infatti attraverso la materia «efficacemente predisposta», opportune parata, dove il vocabolo opportune rinvia a una serie di operazioni magiche atte a rendere la materia predisposta a ricevere il dono celeste, che si realizza il reformari della specie terrena, cioè la rigenerazione e l’attrazione su di essa del principio che le è confacente[6]. Ma prima ancora che si realizzi un’attività magica propriamente detta, il Ficino ritiene che il principio dell’attrazione e della similitudo, svolga una funzione decisiva in sede medica, poiché il progressivo ‘affinarsi’ del nostro spirito, attraverso un regime dietetico appropriato e l’uso di oggetti adeguati, permette l’armonizzarsi del nostro corpo al flusso vitale dell’universo:

«... come gli alimenti assunti in modo regolare, per quanto non vivi di per sé, pure, tramite il nostro spirito, vengono condotti alla forma della nostra vita, così anche i nostri corpi, adattandosi al corpo e allo spirito del mondo in modo regolare, cioè attraverso le cose mondane e attraverso il nostro spirito, attingono quanto più è possibile della vita del mondo…»[7]

 Per spiegare il concretizzarsi di tale progressiva ‘rigenerazione’ dell’uomo, il Ficino porta l’esempio delle operazioni alchimiche nelle quali la pietra, cioè la prima materia, di per sé incapace di generare, è sottoposta a processi di purificazione e di sublimazione per eliminarne le scorie materiali ed estrarne lo spiritus:

«… perché in essi lo spirito è inchiodato a una materia più densa; sicché quando ne viene separato secondo opportuna procedura e viene conservato separato, come energia seminale (seminaria virtus) potrà generare un simile a sé, purché venga applicato a materia del medesimo genere; ed è il caso degli alchimisti, i quali, separando con cura lo spirito dall’oro con la cosiddetta sublimazione a fuoco, potranno applicarlo a uno qualsiasi dei metalli, producendo l’oro. Un tale spirito, estratto dall’oro o da altra materia secondo la debita procedura e debitamente conservato, gli astrologi Arabi chiamano elixir.»[8]

Questo «spirito» lo troviamo, sotto altri nomi,  manifestato come un’entità angelica indicata nella tradizione ermetica come la «Natura Perfetta», aṭ-ṭibā’ at-tāmma della gnosi islamica[9].

2. Perfezioni

La «Natura perfetta» è una forma angelofanica – per usare il lessico di Corbin –  dell’Angelo della stirpe umana. La tradizione ermetica la descrive come lo «spirito del filosofo». Essa segna, per eccellenza, l’individuazione del rapporto dell’Angelo della stirpe umana con ognuno dei suoi «membri». Le metamorfosi delle sue angelofanie sono ogni volta in funzione della natura di colui a cui si manifesta. Per questo la Natura Perfetta è a volte il «padre» e a volte il «figlio», ed è in questi termini che una delle più significative del Libro delle Ore del filosofo e mistico persiano Shihāb al-Dīn Yaḥyā Sohrawardī (1155-1191) si rivolge alla Natura Perfetta: «O tu, mio Signore e principe, mio Angelo sacro-santo, mio prezioso essere spirituale, tu sei al contempo mio padre nel mondo dello Spirito (‘ālam ar-rūḥ) e mio figlio nel cielo del pensiero (samā’ al-fikr). Tu che sei rivestito della più abbagliante delle Luci divine […], possa tu manifestarti a me nel momento della suprema epifania! Sii tu il mio mediatore presso il Dio degli Dei, per l’effusione della luce dei segreti mistici; togli dal mio cuore le tenebre dei veli. Te ne prego in nome del Suo diritto su di te e del Suo grado in rapporto a te». L’esordio dell’invocazione esprime al meglio il legame tra l’essere terrestre e l’Angelo quale sua controparte celeste, patto magico per il quale entrambe le parti congiunte sono responsabili vicendevolmente.

Secondo la teosofia sohravardiana della luce la teoria platonica delle Idee era interpretata nei termini dell' angelologia zoroastriana[10]. Esprimendosi nei termini propri di una metafisica delle essenze, il dualismo sohravardiano della luce e delle tenebre portava ad escludere la possibilità di una fisica, nel senso ad essa attribuito dalla filosofia aristotelica. Per Sohrawardī una fisica della luce non poteva essere altro che un’angelologia, poiché la luce è vita, e la vita è essenzialmente luce. Ciò che viene chiamato corpo materiale è per essenza notte e morte, è un cadavere. Sono gli Angeli, «signori delle specie», le fravaši mazdee[11], con i differenti gradi di intensità della loro luminosità, che causano le differenze fra le specie. Il concetto di fravaši rappresenta infatti uno dei tratti più caratteristici dell’antica religione iranica. Il significato di fravaši va forse ricercato, etimologicamente, in nozioni quali quelle di «valore protettivo», «protezione», *fravarti-, secondo l’ipotesi ora più comunemente accettata. Secondo quest’interpretazione, lo spirito dei valorosi guerrieri morti continuerebbe a proteggere i loro discendenti in vita.

3. Anime

Le fravaši sarebbero sempre state intimamente connesse con un culto dei morti e con una concezione dell’aldilà, che preve ad un tempo il ritorno degli spiriti dei padri alla fine dell’inverno e l’idea di un «doppio» trascendente cui l’anima dei trapassati si ricongiunge. Il legame fra l’«anima» urvan e fravaši, indubbiamente presente nella psicologia e nell’antropologia del mazdeismo, in cui esse compaiono come due dei cinque elementi costitutivi della realtà psichica dell’uomo, ahū- («vita»), daēnā-, baoδah- («conoscenza»), urvan-, fravaši-, consiste soprattutto in questo concetto di un ricongiungimento dell’anima con una entità che la trascende e che prescinde, in qualche misura, da questa vita vissuta. Perciò si parla delle fravaši degli uomini passati, presenti e futuri. La credenza nell’immortalità è quindi legata all’idea di un ricongiungimento post mortem del defunto, ο della sua anima, con un daimōn. La fravaši, quindi, non è l’anima dell’eroe defunto, ma una sorta di daimōn cui l’anima del trapassato si ricongiunge. Si legge nel terzo capitolo del Bundahišn che il corpo dei morti si riunisce alla terra, la loro vitalità (gyān) al vento, la loro forma (ēwēnag) al Sole, la loro anima (ruwān) alla frawahr, «cosicché i demoni non possono distruggere l’anima»[12]. Si ritorna quindi all’idea astromagica dell’unione tra l’anima del Filosofo-Mago con lo «spirito» celeste e stellare.

Tale percezione estatica del cosmo si realizza nella persona del Mago, che unisce in sé la pienezza del sapere filosofico e dell’esperienza mistica. Costui è il Saggio perfetto, il «Polo» (quṭb); che nella gnosi islamica è ritenuto vertice della gerarchia mistica invisibile senza la quale l’universo non potrebbe sussistere. Questa idea dell’Uomo Perfetto, lo Anthrōpos teleios ermetico, unita alla «filosofia illuminativa», l’Išrāq, si appresta spontaneamente ad incontrare l’insegnamento sci‘ita e la sua imamologia; essa costituisce il fondamento filosofico del concetto di Imām eterno e delle sue esemplificazioni nel plērōma dei santi Imām,  le «Guide spirituali».

4. Estasi

Sohravardi fa spesso riferimento ad un Ermete in estasi, forse suo pseudonimo, che riceve la visione della Natura Perfetta. Nello stesso momento in cui i commentatori riconoscono in tale misteriosa figura i tratti della fravaši mazdea, la identificano con l'Angelo Gabriele, nome dello Spirito Santo di ciascun essere. In una percezione visionaria Ermete giunge sulla Terra di Hūrqalyā, implicando cosi che egli ha lasciato sotto di se tutti i celi del cosmo fisico, 1’«Occidente celeste » del mondo materiale[13]. Il Sole presso il quale, la notte, pregava Ermete è la sua anima stessa che sorgendo a se stessa lascia ricadere nelle tenebre le evidenze empiriche impostegli dal suo soggiorno terrestre, è il «Sole di mezzanotte» del visionario isiaco Apuleio[14], l’«aurora boreale» dello spirito. Ma nell’istante del prorompere epifanico il pericolo è tale che Ermete chiama in soccorso il doppio celeste da cui ha origine, a cui ritorna, e che qui può essere inteso, nei termini stessi della filosofia dell’Išrāq, tanto come la «Natura perfetta», lo «spirito» tutelare del filosofo, la fravaši, quanto come l’Angelo dell’umanità che e insieme l’Intelligenza attiva e l’Angelo Gabriele o Spirito Santo da cui emanano le anime umane. Aurora sorgente e risveglio a se stesso, l’inoltrarsi nella Terra di Hūrqalyā e incontro con il doppio celeste, sono tutti aspetti complementari di uno stesso evento che annuncia la trasmutazione dell’anima, la sua nascita al mondo intermedio.

Sarebbe necessario un intero libro per afferrare le allusioni e i significati che comporta tale esperienza estatica; essa permette ad ogni modo di comprendere in che modo il Filosofo-Mago possa addentrarsi in uno spazio totalmente disconosciuto e opposto alla logica razionale. La sua condizione può dirsi affine a quella dell’iniziato dell’«Inno segreto di Ermete» (IV discorso), dove l’eletto rigenerato come figlio di Dio invita le Potenze divine dimoranti in lui ad unirsi alla sua preghiera:

«Potenze che siete in me, cantate l’Uno e il Tutto. Cantate in concerto con la mia volontà, voi tutte, potenze che siete in me. Conoscenza santa, illuminata da te, grazie a te io celebro la luce intelligibile e gioisco nella gioia dell’intelletto. Potenze tutte, cantate l’inno con me.»[15]

Poiché Dio, il Nous, è diventato l’occhio spirituale dell’uomo, si può dire che, quando il rigenerato loda Dio, sia Dio a lodare se stesso.

Il tempo degli eventi determinati dalla relazione tra lo «spirito» del Filosofo, angelo o guida invisibile, non è un tempo misurabile, regolato dalla cronologia, non può collocarsi nel flusso incessante del divenire. È una «realtà separata», un tempo psichico discontinuo, puramente individuale, un tempo in cui il passato permane presente nell’avvenire, o in cui il futuro è già presente nel passato. Da ciò dipendono le ricorrenze, le reversibilità, i sincronismi, incomprensibili al pensiero razionale, inaccessibili al realismo storico ma avvertiti da un «realismo» altro, quello del mondo sottile, ‘ālam al-miṯāl, quel mondo che Sohrawardī chiama «Oriente» delle anime celesti[16].

Illustrazione allegata:

Il sistema angelologico islamo-iranico così come recepito nelle opere di Shihāb al-Dīn Yaḥyā Sohrawardī (attraverso Henry Corbin e per gentile concessione del dr. Giuliano Bruni, che ringrazio).

[1] J. Ruska-B. Carra de Vaux-[C. E. Bosworth], s.v. «tilsam», in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle Edition, X, E. J. Brill, Leiden 2000, pp. 536 a-538 a.

[2] P. J. Forshaw, «From Occult Ekphrasis to Magical Art. Transforming Text into Talismanic Image in the Scriptorium of Alfonso X», in S. Kiyanrad-Ch. Theis-L. Willer (Hrsg.), Bild und Schrift auf ‘magischen’ Artefakten (Materiale Textkulturen, 19), De Gruyter, Berlin-Boston 2018, pp. 15-47.

[3] V. Perrone Compagni, «Picatrix latinus. Concezioni filosofico-religiose e prassi magica», in Medioevo, 1 (1975), p. 266; cfr. E. Garin, «La diffusione di un manuale di magia», in La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Sansoni, Firenze 1961, pp. 163-165; Id., Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento (Universale Laterza, 349), Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 49-58.

[4] Picatrix II, 12, p.112 (latino); D. Pingree (ed.), Picatrix. The Latin version of the Ghāyat al-ḥakīm (Studies of the Warburg Institute, 39), The Warburg Institute-University of London, London 1986, p. 144.

[5] De Vita III, 1 (ed. A. Biondi-G. Pisani, Marsilio Ficino. De Vita [Il Soggetto & la Scienza, 12], Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991, pp. 204 testo; 205 trad.).

[6] J. Véronèse, «Parole et signes efficaces dans le Picatrix latin», in J.-P. Boudet-A. Caiozzo-N. Weill-Parot (éds.), Images et magie. Le Picatrix entre Orient et Occident (Sciences, techniques et civilisations du Moyen Âge à l’aube des Lumières, 13), Éditions Champion, Paris 2011, pp. 163-186.

[7] De Vita III, 1 (Biondi-Pisani, pp. 210 testo; 211 trad.)

[8] De Vita III, 3 (Biondi-Pisani, pp. 222-224 testo; 223-255 trad.)

[9] H. Corbin, Il paradosso del monoteismo (Mimesis / Volti, 53), trad. it. R. Revello, Mimesis, Milano 2011 (ed. or. Paris 1981), pp. 74-75.

[10] H. Corbin, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, trad. it. L. Capezzone, Laterza, Roma-Bari 2005 (ed. or. Paris 19932), pp. 21-22.

[11] Gh. Gnoli, «Le ‘fravaši’ e l’immortalità», in Gh. Gnoli–J.-P. Vernant (eds.), La mort, les morts dans les societés anciennes, Éditions de la Maison des sciences de l’homme-Cambridge University Press, Paris-Cambridge (U.K.) 1982, pp. 339-347.

[12] Bundahišn (iranico) 34, 10 ss.; testo e trad. in  H. W. Bailey, Zoroastrian Problems in the Ninth-Century Books, Clarendon Press, Oxford 1943 (repr. Oxford 1971), p. 112; Zaehner, Zurvān, pp. 323, 334.

[13] H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita (Il ramo d’oro, 11), trad. it. G. Bemporad, Adelphi, Milano 1986 (ed. or. Paris 19792), pp. 104-106.

[14] Metam. 11, 3-6.

[15] Corp. Herm. 13, 18 (= I. Ramelli [cur.], Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano 2005, pp. 388-389; trad. it. di A.-D. Nock–A. J. Festugière [éds.], Corpus Hermeticum, I-IV, Les Belles Lettres, Paris 1945-1954).

[16] F. Rahman, «Dream, Imagination and ‘Alam al-Miṯẖāl», in Islamic Studies, 3 (1964), pp. 167-180.

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